È che il “tempo tecnologico” ha
preso a correre, da tanto tempo oramai in verità, in una maniera spaventosa. È
che le nostre strutture cerebrali, le nostre interconnessioni neuronali, in
fondo, sono state create, esistevano ed esistono per un “tempo” che abbia uno
scorrere ben diverso. Ho cercato con un banale espediente di aggirare
l’ostacolo rappresentato dalla insostenibile velocità del “tempo tecnologico”, per
non sentire calare addosso la condizione umiliante del sopravvissuto. È stato
quando, ancora calcando le polverose pedane delle cattedre scolastiche, mi sono
avvicinato agli strumenti dell’informatica e, come un passeggero ritardatario
che afferri all’ultimo istante il tram o bus che parte, agganciando
l’immancabile e provvidenziale sostegno metallico di quei mezzi di trasporto
pubblico, al pari di quel passeggero mi sono “attaccato alla “rete”
per non sentirmi il sopravvissuto di turno del “villaggio globale”. Lo
scemo del villaggio. E devo pur dire che il banale espediente mi è servito. Ma
in parte. È che il “tempo” in quanto tale, senza aggettivazione alcuna, scorre
ineluttabilmente. E se gli sforzi d’afferrare quel benedetto sostegno mi hanno
consentito di farmi sentire o illudermi di essere al passo con il “tempo
tecnologico”, seppur solamente da utilizzatore – comunque non finale –
di quelle tecnologie, lo scorrere del tempo ha segnato e segna
inequivocabilmente la condizione del “sopravvissuto”, condizione che, in
tante occasioni, si riaffaccia e prorompe impetuosa, implacabile, nella vita
quotidiana, per riportarmi alla mia reale condizione dell’esistere. Necessiterebbe
da parte mia una rincorsa continua e faticosa assai del “tempo tecnologico”, per
la quale rincorsa non ho la “stoffa” e neppure la volontà e la resistenza,
se non fisica, neppure cerebrale. È che “esistono
oggetti - l'ombrello, la bicicletta, la caffettiera - che sopravvivono ai tempi
che li hanno creati.” Così scrive Giacomo Papi nella Sua riflessione,
nella consueta rubrica settimanale su di un supplemento del quotidiano “la
Repubblica” (da un personale indizio nel 2010), che ha per titolo “Un signore d'altri tempi”, riflessione
che di seguito trascrivo in parte. È che, da sopravvissuti, si corre il rischio
d’essere nella e d’occupare, al tempo nostro che ci è dato di vivere, la condizione
propria di quegli oggetti. Anche i cosiddetti mezzi della informazione, della
comunicazione di massa, privilegiano coltivare e diffondere le immagini di un “giovalinismo”
sfrenato, senza se e senza ma. Al di fuori di quella condizione che buca lo
schermo, il vuoto. È pur vero che, quella condizione diffusa mediaticamente senza
risparmio di un “giovanilismo” imperante, allude alla, e rappresenta al meglio,
la condizione dei “consumatori” per eccellenza, i giovani, condizione che connota
anche l’essere e l’apparire ad un tempo dei nostri giorni. “Consumatori” senza
cittadinanza, “consumatori” senza futuro certo peraltro, immersi sino al
collo nella cosiddetta baumaniana “vita liquida”, stante il futuro
negato ai giovani, della età della globalizzazione e della flessibilità senza
limiti e freni, dalla stessa società che li vezzeggia e li circuisce, li
irretisce nei suoi lusinghieri richiami virtuali, annientandoli nella e
denudandoli della loro più intima umanità, che stenta a farsi strada, che
stenta ad essere la lanterna accesa, seppur con una fiammella tremolante, che
li aiuti e li guidi con sicurezza nel percorso lungo della via tortuosa assai
che è la vita. Ha scritto Giacomo Papi: (…). Esistono oggetti - l'ombrello, la
bicicletta, la caffettiera - che sopravvivono ai tempi che li hanno creati.
Esistono persone modellate dall'epoca che li ha partoriti, che riescono a
spingersi in anni estranei, dove non c'è più posto per loro. Nella loro buffa
bellezza fuori luogo, i sopravvissuti raccontano che niente è più ridicolo dell'arroganza
di chi si sente moderno perché tra breve saremo tutti antichi. Il Parco
nazionale del Novecento, se soltanto esistesse, sarebbe un bel posto. Le
scolaresche si aggirerebbero tra operai che giocano a briscola e signore
borghesi impegnate in tornei di canasta, scorrazzerebbero tra braccianti e
casalinghe, sarte, arrotini e impiegati di concetto. Per i bambini sarebbe un
buon modo di crescere, per i vecchi un buon modo di salutare. I ragazzi la
smetterebbero di desiderare ciò che è nuovo perché è nuovo, e i vecchi si
tratterrebbero dall'idolatrare ciò che è vecchio perché era nuovo quando lo
erano anche loro. Non si tratta di rispetto dovuto all'età né di stantia
retorica della memoria. Si tratta di capire che ogni epoca è un groviglio di
abitudini, mode, speranze, simboli, destinati a cambiare e a svanire. Di
ricordarsi che anche i morti erano vivi. Se a 33 anni, invece di farsi
ammazzare, Gesù avesse avuto un figlio che a 33 anni avesse avuto un figlio e
così via fino al 2000, la catena umana necessaria per arrivare fino a noi
conterebbe la miseria di 60 individui. Per colmare duemila anni di storia
basterebbero, cioè, sei squadre di calcio senza portieri, una pizzeria mezza
piena, tre classi elementari, metà della metà della metà della gente in fila a
una mostra di Caravaggio. - Dicono che guardiamo più lontano perché siamo nani
sulle spalle dei giganti -, annota nel 1937 il cineasta surrealista francese
Jules Les Jour in Je n'existe pas, - Risponderei che siamo giganti seduti sui
nani, poveri nani. Ma mi fanno ridere queste classifiche. La storia non è una
gara, ma un fiume sotterraneo che ci scava e forma da dentro -. Non siamo
migliori di chi ci ha preceduto e loro non sono stati migliori di noi. (…). I
60 figli di Gesù per scavalcare due millenni dimostrano che, in fondo, anche i
padri e le madri sono fratelli e sorelle. Siamo bruchi che sfottono farfalle.
Siamo farfalle che sfottono bruchi.
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