Tratto da “A
quale fine si è formata la coscienza?” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 17 di dicembre dell’anno
2016: Non c’è uno scopo. La consapevolezza è un fatto, dov’è custodita
l’essenza tragica della condizione umana, a cui, per vivere, cerchiamo rimedi
ricorrendo a una serie di inganni. Siccome l'uomo promuove le sue azioni in
vista di un fine, applica questo criterio anche alla natura le cui espressioni,
dal mondo vegetale a quello animale e a quello umano, avvengono perché
avvengono, senza ragione e senza perché, semplicemente perché ci sono le
condizioni per il loro accadere senza che ci sia sottesa alcuna finalità. Non
ha quindi senso chiedersi quale utilità può avere, in ordine alla prosecuzione
della specie, il fatto che l'uomo possieda una "coscienza di sé" e si
renda conto di tutto quello che gli accade. La possiede perché nell'evoluzione
ci sono state le condizioni per la sua formazione. E nella coscienza di sé la
cultura greca antica vide l'essenza tragica della condizione umana, così ben
descritta dalla sentenza di Sileno che, a re Mida che gli chiedeva quale fosse
la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo, rispose: «Stirpe miserabile ed
effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per
te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile:
non esser nati, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore
per te è morire presto». Perché? Perché a causa della coscienza l'uomo per
vivere ha bisogno di costruire un senso in vista della morte che è l'implosione
di ogni senso. Questa dimensione tragica è l'elemento costitutivo dell'uomo,
che la coscienza di sé ha costruito come un Io aperto al mondo per poi
ricordargli che è aperto per nulla.
E allora, scrive Nietzsche nella Nascita della tragedia: «Lotta, sofferenza e tedio si avvicinano all'uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua essenza - qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l'esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza - che l'esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa». Se vogliamo trovare una differenza tra l'uomo e l'animale, cerchiamola pure nella coscienza, ma non traiamone un eccessivo vanto, perché se è vero che la coscienza produce tutte quelle belle cose (…), (scienza, poesia, arte, passioni, dolori, amori), queste belle cose sono i tentativi disperati messi in atto dall'uomo per sfuggire a quello sfondo tragico che lo prevede in balia della specie per le esigenze della sua economia (nascita, crescita, procreazione e morte), e non per la realizzazione degli umani progetti e dei suoi incantevoli sogni. (…). …le religioni che promettono una vita ultraterrena (hanno) avuto successo proprio perché con quella promessa, alimentata da quelle che gli antichi Greci chiamavano "cieche speranze (týphlàs elpídas)", oltrepassavano la dimensione tragica messa bene in luce dalla sapienza greca, e oscurata dalle religioni della promessa, per evitare che l'umanità perisse davanti alla visione lucida della tragicità del proprio destino (…). Un inganno, questo sì utile e necessario, perché l'umanità potesse continuare a vivere. E questo perché, è sempre Nietzsche a ricordarcelo: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera. Dammi, ti prego… una maschera ancora! Una seconda maschera».
E allora, scrive Nietzsche nella Nascita della tragedia: «Lotta, sofferenza e tedio si avvicinano all'uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua essenza - qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l'esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza - che l'esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa». Se vogliamo trovare una differenza tra l'uomo e l'animale, cerchiamola pure nella coscienza, ma non traiamone un eccessivo vanto, perché se è vero che la coscienza produce tutte quelle belle cose (…), (scienza, poesia, arte, passioni, dolori, amori), queste belle cose sono i tentativi disperati messi in atto dall'uomo per sfuggire a quello sfondo tragico che lo prevede in balia della specie per le esigenze della sua economia (nascita, crescita, procreazione e morte), e non per la realizzazione degli umani progetti e dei suoi incantevoli sogni. (…). …le religioni che promettono una vita ultraterrena (hanno) avuto successo proprio perché con quella promessa, alimentata da quelle che gli antichi Greci chiamavano "cieche speranze (týphlàs elpídas)", oltrepassavano la dimensione tragica messa bene in luce dalla sapienza greca, e oscurata dalle religioni della promessa, per evitare che l'umanità perisse davanti alla visione lucida della tragicità del proprio destino (…). Un inganno, questo sì utile e necessario, perché l'umanità potesse continuare a vivere. E questo perché, è sempre Nietzsche a ricordarcelo: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera. Dammi, ti prego… una maschera ancora! Una seconda maschera».
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