Tratto da “Non
c’è economia senza diritti” di Emanuele Felice, pubblicato sul quotidiano
la Repubblica del 3 di dicembre 2019: (…). Il liberalismo è una dottrina di
emancipazione, che parte dalla valorizzazione del lavoro (contro la rendita) e
si fonda sui diritti dell’uomo: questi diritti nel corso del tempo si sono
ampliati, fino a includere, oltre ai diritti civili di prima generazione
(proprietà, sicurezza, libertà di opinione) i diritti sociali (enunciati in
modo pieno nella Dichiarazione Onu dei diritti dell’uomo e valorizzati dalla
nostra Costituzione, entrambe frutto della vittoria contro il nazi-fascismo), i
diritti civili di seconda generazione e infine i diritti ambientali. Difatti
sia il welfare state, sia l’intervento pubblico in economia furono teorizzati
da liberali (William Beveridge, John Maynard Keynes), con l’intento di salvare
il liberalismo dal fascismo e dal comunismo. Quell’intento è riuscito, nella
misura in cui il liberalismo si è incontrato in maniera feconda con il pensiero
socialista e in generale con la sinistra riformista: donandoci alla fine le
società più libere, prospere, e forse meno ingiuste che la storia ricordi; fiorite,
assieme alla democrazia, nella seconda metà del Novecento. A partire dagli anni
Ottanta, una visione peculiare del liberalismo, il cosiddetto neo-liberismo (o
neo-liberalismo), ha però progressivamente messo ai margini il discorso sui
diritti umani, concentrandosi invece su una sola dimensione: la libertà
economica. In realtà, stando a quanto sostengono i più importanti studiosi del
liberalismo (come Michael Freeden), il neo-liberismo ne è una vera e propria
distorsione, un’appropriazione indebita. Ed è stata un’appropriazione molto
pericolosa, che ha finito per minare le basi della stessa democrazia liberale.
Primo, perché dentro i paesi avanzati le disuguaglianze sono tornate a riaprirsi: e non è un caso che proprio lì dove le politiche neo-liberiste sono state perseguite con più convinzione (in Usa, nel Regno Unito), quelle faglie interne si sono allargate di più; la cosiddetta trickle-down economics si è rivelata un’illusione, come riconoscono adesso anche gli analisti dell’FMI. Secondo, perché nei paesi che storicamente non hanno conosciuto il liberalismo e quindi la democrazia, capitalismo e crescita non hanno affatto portato anche i diritti umani, come i più ottimisti pensavano: non vi è nessun automatismo, l’esito dipende dalla battaglia politica (come Hong Kong e quello che invece non succede nel resto della Cina dimostrano) e, semmai, un’ideologia della felicità fondata esclusivamente sull’arricchimento individuale – come è quella propria del neo-liberismo – non aiuta l’affermazione di una cultura e di istituzioni democratiche. Di conseguenza assistiamo alla separazione fra capitalismo e liberalismo (in Cina, in Russia, a Dubai) e, con essa, ai rischi di uno sviluppo tecnologico sganciato dai diritti dell’uomo: il vero tema del nostro tempo, per le sue conseguenze potenzialmente drammatiche non solo per la democrazia, ma anche per l’ambiente e la stessa convivenza pacifica. La novità è che un po’ ovunque in Occidente (anche in Italia) la sinistra riformista, che negli anni Novanta aveva anch’essa ottimisticamente abbracciato il neo-liberismo, ha finalmente cominciato a discutere criticamente quella stagione, e a riflettere sui suoi stessi errori (ad esempio, la deregolamentazione dei capitali negli anni Novanta). Sia chiaro però che non è un ritorno ai modelli del Novecento, se non altro perché il tema ambientale impone di superare i limiti dello stato-nazione, e lo stesso vale oggi per la difesa del lavoro. Deve essere un nuovo incontro, su un terreno diverso dal passato (perché europeista e internazionalista), fra il nucleo del pensiero liberale e le aspirazioni del pensiero socialista e ambientalista. A ben vedere, è questa la naturale evoluzione del liberalismo. Può essere la scommessa su cui provare a salvare la democrazia e i diritti dell’uomo, le società aperte, cui tutti teniamo.
Primo, perché dentro i paesi avanzati le disuguaglianze sono tornate a riaprirsi: e non è un caso che proprio lì dove le politiche neo-liberiste sono state perseguite con più convinzione (in Usa, nel Regno Unito), quelle faglie interne si sono allargate di più; la cosiddetta trickle-down economics si è rivelata un’illusione, come riconoscono adesso anche gli analisti dell’FMI. Secondo, perché nei paesi che storicamente non hanno conosciuto il liberalismo e quindi la democrazia, capitalismo e crescita non hanno affatto portato anche i diritti umani, come i più ottimisti pensavano: non vi è nessun automatismo, l’esito dipende dalla battaglia politica (come Hong Kong e quello che invece non succede nel resto della Cina dimostrano) e, semmai, un’ideologia della felicità fondata esclusivamente sull’arricchimento individuale – come è quella propria del neo-liberismo – non aiuta l’affermazione di una cultura e di istituzioni democratiche. Di conseguenza assistiamo alla separazione fra capitalismo e liberalismo (in Cina, in Russia, a Dubai) e, con essa, ai rischi di uno sviluppo tecnologico sganciato dai diritti dell’uomo: il vero tema del nostro tempo, per le sue conseguenze potenzialmente drammatiche non solo per la democrazia, ma anche per l’ambiente e la stessa convivenza pacifica. La novità è che un po’ ovunque in Occidente (anche in Italia) la sinistra riformista, che negli anni Novanta aveva anch’essa ottimisticamente abbracciato il neo-liberismo, ha finalmente cominciato a discutere criticamente quella stagione, e a riflettere sui suoi stessi errori (ad esempio, la deregolamentazione dei capitali negli anni Novanta). Sia chiaro però che non è un ritorno ai modelli del Novecento, se non altro perché il tema ambientale impone di superare i limiti dello stato-nazione, e lo stesso vale oggi per la difesa del lavoro. Deve essere un nuovo incontro, su un terreno diverso dal passato (perché europeista e internazionalista), fra il nucleo del pensiero liberale e le aspirazioni del pensiero socialista e ambientalista. A ben vedere, è questa la naturale evoluzione del liberalismo. Può essere la scommessa su cui provare a salvare la democrazia e i diritti dell’uomo, le società aperte, cui tutti teniamo.
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