Tratto da "Devo
mentire per dire la verità", intervista di Simonetta Fiori alla
scrittrice Elena Ferrante pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano
la Repubblica del 30 di novembre 2019: (…). Il romanzo si presta a diverse letture.
Una riguarda il disvelamento delle falsità e delle ipocrisie del ceto colto di
sinistra. Il padre della protagonista, Andrea, è il personaggio tipico di
quella classe intellettuale. È un professore di storia e filosofia molto
stimato negli ambienti illuminati di Napoli, ma man mano che il racconto di
Giovanna va avanti ne scopriamo ipocrisie, tradimenti, l’attaccamento al
denaro, anche la grettezza nel tenersi stretto il suo metro quadro di eredità
rispetto ai fratelli più bisognosi, soprattutto la tenace volontà di cancellare
la sua origine sociale nelle classi subalterne. «Corpi carichi di sapere», lei
scrive, «si rivelano animali tra i più inaffidabili». Pur non sapendo nulla di
lei, Elena, immagino che faccia parte di quel ceto colto progressista. Che cosa
ci ha voluto dire con la demolizione di Andrea e del suo mondo bugiardo? È il
bilancio amaro di una generazione che ha pontificato per decenni su “politica”,
“valori”, “marxismo”, “crisi”, “Stato” — parole che ricorrono in Andrea e nei
suoi amici — per poi lasciare alle leve successive un mondo ancora più
diseguale?«(…). Volevo raccontare il disfarsi di un’educazione laicissima,
qualitativamente alta, in una ragazzina molto sensibile. Malgrado il
disvelamento, i genitori di Giovanna seguitano a celebrare i loro riti, a
tenersi stretta la loro identità culturale. Si allarmano solo perché la figlia
minaccia di sciupare il patrimonio immateriale che le hanno trasmesso e che
vogliono seguitare a trasmetterle. È Giovanna quindi, nelle mie intenzioni, a
riassumere in sé il disgregarsi di un mondo. Ma un romanzo va dove lo
sospingono lettrici e lettori. Nella mia esperienza, è nient’altro che una
storia poco chiara che a un certo punto decido di raccontare per chiarirla
innanzitutto a me stessa».
Di contro a questa élite moralmente fragile
ma di gran bell’aspetto si staglia una Napoli terribile nelle sue basse
pulsioni, incarnata dalla bruttezza animalesca di zia Vittoria. Ed è in questi
bassifondi della zona industriale che Giovanna trae energia vitale per
crescere, diventare matura e guardare al “mondo grande e terribile” senza più
veli. Naturalmente è una contrapposizione piena di sfumature — il bene e il
male coesistono in tutti i personaggi, nel mondo di sopra e nel mondo di sotto,
volgarità e finezza sfumano l’una nell’altra — ma le domando se sia lecito
leggere in questa contrapposizione — già presente in suoi precedenti romanzi —
l’eco del conflitto tra popolo ed élite che segna questo passaggio storico, in
Italia e fuori. «(…). Che popolo è questo, che élite?
In Giovanna, pressata dalla perdita delle certezze, nella mia intenzione si doveva sbriciolare sia l’idea di classe colta che si autoassegna tanto superbamente quanto arbitrariamente il compito di presentire, comprendere, guidare; sia l’idea di un popolo, di una classe, di un soggetto intrinsecamente buono e in attesa di ricevere idee, programmi, organizzazione, guida. Giovanna si sporge sul vuoto, non dà più nessun credito a chi prescrive il modo giusto di vivere, pensare, leggere, scrivere. È sedotta solo dall’imprevisto, che spazza via ogni costruzione in pochi secondi».
In Giovanna, pressata dalla perdita delle certezze, nella mia intenzione si doveva sbriciolare sia l’idea di classe colta che si autoassegna tanto superbamente quanto arbitrariamente il compito di presentire, comprendere, guidare; sia l’idea di un popolo, di una classe, di un soggetto intrinsecamente buono e in attesa di ricevere idee, programmi, organizzazione, guida. Giovanna si sporge sul vuoto, non dà più nessun credito a chi prescrive il modo giusto di vivere, pensare, leggere, scrivere. È sedotta solo dall’imprevisto, che spazza via ogni costruzione in pochi secondi».
Giovanna è espressione di quella generazione
che, nata alla fine degli anni Settanta, ha vissuto la sua adolescenza nei
Novanta, epoca segnata dalla fine della storia e dall’esaurimento delle
narrazioni tradizionali. Ed è la stagione nella quale dilaga il relativismo del
cosiddetto postmoderno. Ma il personaggio mi sembra estraneo a quella temperie,
coltivando dentro di sé un’ambizione di conoscenza del reale che la catapulta
indietro nel tempo. Parla e pensa come una coetanea dei baby boomers, non come
una loro figlia. «È vero, almeno parzialmente. Perché l’ho fatto? Per
incapacità? Per insufficienza immaginativa? Perché non ho letto Lyotard o
altri? Perché non ho mai avuto a che fare con ragazzine degli anni Novanta? Non
lo so, in genere tendo a non escludere niente. Ovviamente ho abbastanza chiaro
cosa avevo in mente di fare, ma per spiegarmi sono costretta a dire, qui, che
il libro è nato come parte di un progetto ben più ampio, tra l’altro con un suo
titolo generale poco seducente ma che amo molto: Lo stato vedovile. Esiste un
abbozzo molto grezzo, sterminato, che accompagna Giovanna, insieme ai
personaggi più importanti, fino al giorno del suo quarantesimo compleanno.
Glielo dico per chiarire che la crisi della ragazza è pensata all’origine su un
arco di tempo lungo, dove ciò che interessa è come Giovanna, le cui parole e i
cui pensieri sono felicemente quelli dei suoi genitori fin dalla prima
infanzia, diventa una giovane donna in permanente adesione e conflitto con la
sua formazione di base. Il tempo è, in lei, soprattutto uno sgretolarsi,
compattarsi, tornare a sgretolarsi.
Non bisogna credere che, mentre viviamo, tutto sia già impacchettato e in modo esaustivo: qui finiscono gli Ottanta, lì cominciano i Novanta, poi il 2000. Mi allarmo quando mi imbatto in prescrizioni come: all’epoca si faceva questo e non quest’altro, oggi non ci si comporta più a questo modo, il relativismo postmoderno, la realtà con le virgolette, le grandi narrazioni, etc. È un rischio per la letteratura e per qualsiasi attività creativa muovere dall’idea che esistono caselle bell’e pronte da cui si estrae ciò che è coerente con qualche canone più o meno trionfante. Tendo a credere piuttosto che il mondo sia stato e sia ben più disordinato di come diligentemente lo cataloghiamo. Perciò, quando comincia la sua crisi, Giovanna non è, ai miei occhi, un’adolescente secondo le etichette sociologiche o filosofiche attribuite a posteriori al 1991 o al 1994. Lei smania, si torce, soprattutto in quanto ragazzina allevata dalla piccola borghesia colta, progressista, degli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta. Il suo tempo è quel torcersi: direi addirittura che Giovanna non sa nemmeno in quali anni vive, se non dentro termini come “festa di capodanno”, “festa di compleanno”. Ogni suo pensiero o sentimento o valore viene dalla sua famiglia, e quando fa i conti col mondo, è dall’interno delle gerarchie secondo cui è stata allevata che muove, per poi confondersi con altro, un caotico altro, e miscelarsi. Il tempo storico, nel mio progetto, doveva precisarsi lentamente, in sordina, senza didascalie e sempre in urto o alleanza con la formazione di base, nella confusione del vivere, dall’interno delle vicende raccontate. Volevo accompagnare Giovanna fino a oggi, tenendola in bilico sul vuoto che le si era spalancato sotto, ma la bozza preparatoria mi ha scoraggiata. Alla fine ho escluso di avere le energie per portare a compimento una storia ben più lunga dell’Amica geniale. La vita bugiarda degli adulti mi è sembrata autosufficiente e, se non lo è, be’, deve rassegnarsi a bastare a se stessa».
Non bisogna credere che, mentre viviamo, tutto sia già impacchettato e in modo esaustivo: qui finiscono gli Ottanta, lì cominciano i Novanta, poi il 2000. Mi allarmo quando mi imbatto in prescrizioni come: all’epoca si faceva questo e non quest’altro, oggi non ci si comporta più a questo modo, il relativismo postmoderno, la realtà con le virgolette, le grandi narrazioni, etc. È un rischio per la letteratura e per qualsiasi attività creativa muovere dall’idea che esistono caselle bell’e pronte da cui si estrae ciò che è coerente con qualche canone più o meno trionfante. Tendo a credere piuttosto che il mondo sia stato e sia ben più disordinato di come diligentemente lo cataloghiamo. Perciò, quando comincia la sua crisi, Giovanna non è, ai miei occhi, un’adolescente secondo le etichette sociologiche o filosofiche attribuite a posteriori al 1991 o al 1994. Lei smania, si torce, soprattutto in quanto ragazzina allevata dalla piccola borghesia colta, progressista, degli anni Cinquanta-Sessanta-Settanta. Il suo tempo è quel torcersi: direi addirittura che Giovanna non sa nemmeno in quali anni vive, se non dentro termini come “festa di capodanno”, “festa di compleanno”. Ogni suo pensiero o sentimento o valore viene dalla sua famiglia, e quando fa i conti col mondo, è dall’interno delle gerarchie secondo cui è stata allevata che muove, per poi confondersi con altro, un caotico altro, e miscelarsi. Il tempo storico, nel mio progetto, doveva precisarsi lentamente, in sordina, senza didascalie e sempre in urto o alleanza con la formazione di base, nella confusione del vivere, dall’interno delle vicende raccontate. Volevo accompagnare Giovanna fino a oggi, tenendola in bilico sul vuoto che le si era spalancato sotto, ma la bozza preparatoria mi ha scoraggiata. Alla fine ho escluso di avere le energie per portare a compimento una storia ben più lunga dell’Amica geniale. La vita bugiarda degli adulti mi è sembrata autosufficiente e, se non lo è, be’, deve rassegnarsi a bastare a se stessa».
Andrea vive nel terrore di essere
scaraventato giù dalle vette faticosamente raggiunte della scala sociale. Nei
suoi romanzi precedenti è molto presente il tema del riscatto sociale e anche
la paura che questo riscatto non sia mai completamente compiuto. Quando Andrea
litiga con Mariano rispolvera il suo dialetto nella volgarità più triviale.
Perché questa insistenza sul tema? Come se lei coltivasse una visione disperata
sulla immutabilità dei rapporti sociali. Come se ciascuno di noi non potesse
mai veramente liberarsi della propria condizione originaria. «Sì, aderisco
all’opinione che l’origine di classe non si cancelli, ma non lo dico con una
tonalità disperata, anzi mi pare un bene. L’origine di classe è la
testimonianza permanente, inscritta nel corpo, che le disuguaglianze esistono e
durano, anche quando a noi singoli capita di essere cooptati ai piani
superiori, anche quando impariamo a travestirci con intelligenza e buon gusto.
Il problema è che non ci si salva mai davvero da soli, né per meriti, né per
grazia. Andrea lo sa, si porta dentro il basso e l’alto e, pur dedicandosi
studiosamente a idee di radicale mutamento economico e sociale, vuole salire
ancora più su, teme per sé e per la figlia il ritorno all’origine, il regresso
e il precipizio, desidera che Giovanna salga di grado come e più di lui. Non è
insomma un personaggio lineare. Ci portiamo dentro contemporaneamente il
vangelo, il feudalesimo, la rivoluzione francese, il bonapartismo, i proletari
di tutto il mondo che si uniscono sapendo di avere da perdere soltanto le loro
catene, il fascismo, lo stalinismo e, insieme, un desiderio incoercibile di
supremazia e benessere per noi e i nostri figli, a qualsiasi schieramento
aderiamo, qui e ora, a ogni costo».
Ho fatto riferimento al dialetto ma in
realtà esso è più evocato che espressamente praticato. Una volta ha scritto che
da ragazzina il dialetto napoletano la impauriva. Continua a farle paura?
Continua a gravare come una minaccia sulla lingua? «Il dialetto è meraviglioso,
ma nella mia esperienza ha a che fare con la degradazione e la violenza. Esiste
naturalmente un dialetto dei buoni sentimenti, ma al mio orecchio suona finto,
specialmente quando è dolciastro, bonariamente italianizzato. Preferisco
citarlo soltanto, farne una cadenza che promette scompiglio».
Torna in questo romanzo l’amicizia
femminile, a cui lei ha dato nella “Quadrilogia” una dignità letteraria che non
aveva mai avuto prima. Ne “La vita bugiarda degli adulti” trionfa in tutte le
sue sfumature, non solo nel rapporto tra l’adolescente Giovanna e le altre
figure femminili, ma anche nella relazione tra Costanza e Nella, divise dallo
stesso uomo, e nel rapporto tra Vittoria e Margherita che invece sulla memoria
dello stesso uomo che si è reso defunto creano una complicità fortissima. Il
filo rosso è sempre l’ambivalenza tra adesione e distanza, tra identificazione
e alterità, tra sentimenti nobili e pulsioni ignobili, tra complessi di superiorità
e inferiorità, come se le relazioni al femminile non ammettessero colori
sentimentali tenui ma solo chiaroscuri violenti. «Non c’è dignità letteraria
senza una strategia di scrittura che tenda alla rappresentazione
dell’incoerenza. Nessuno dei nostri sentimenti è univoco, ma per sopravvivere
tendiamo a cacciare in margine ciò che ci pare superfluo o disturbante. La
letteratura ha il dovere di non farlo, a meno che non scelga di essere
edificante. Ma se va per quella via, nuoce a se stessa e persino a ciò che
vuole contribuire a costruire. L’amicizia tra donne è ben più complicata della
regolamentatissima amicizia tra uomini. Il chiaroscuro, per ora, mi pare
d’obbligo».
Resta che sono le donne a muovere il
racconto e quindi anche la vita, se l’affermazione non appare enfatica. I
maschi seppure contesi (Andrea e Roberto), seppure carichi di sapere e cultura,
sembrano figure condannate all’irrilevanza. «Finché ce li contenderemo, non
saranno mai davvero irrilevanti. E forse non è nemmeno un bene che lo diventino.
Però devono guadagnarsi una diversa rilevanza, e perché ciò accada il primo
passo è smettere di contenderceli e guadagnare noi rilevanza prescindendo
assolutamente dalla loro».
Lei dà molta importanza agli incipit dei
romanzi. In questo caso fa dire alla sua voce narrante: «Due anni prima di
andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta». Lei una
volta si domandò, a proposito di un’affermazione simile attribuita da Flaubert
a Madame Bovary su sua figlia Berthe, se davvero una madre potesse essere
capace di formulare una considerazione del genere. Voleva sperimentarne
l’efficacia in una sua pagina narrativa. In questo suo incipit è come se
fornisse una risposta: solo un uomo può dire una cosa del genere di sua
figlia... «No, mi dispiace ma non ho ancora trovato una risposta che mi
convinca, tant’è che la madre non si oppone al vaticinio del padre, anzi a
tratti pare condividerlo. Su ciò che possiamo fare noi donne di magnifico o
terribile, sono ancora in mezzo al guado».
Anche in questo libro si ripete la forma
narrativa dei romanzi precedenti. Il lettore si trova davanti a un racconto
scritto in prima persona dalla protagonista. Una voce scrivente più che
narrante. Giovanna si sofferma spesso sull’atto dello scrivere e sull’atto dell’inventare
che talvolta coincidono. Dice: «Perfezionai il mio modo di mentire dicendo la
verità». È anche questo un modo per rappresentare la necessità di quella grande
menzogna che è la letteratura? Solo l’invenzione e quindi la letteratura può
dire il vero e dunque metterti al riparo dalle falsificazioni a cui ti espone
la vita? «La terza persona mi sembra un artificio di scarsa utilità, ormai,
specie quando si avverte subito che è un travestimento rozzo
dell’autobiografismo. Preferisco l’io, ma costruendone rigo dietro rigo la
assoluta inaffidabilità. O, come in questo testo, suggerendo qua e là l’ipotesi
che l’io che scrive non coincide necessariamente con l’io di cui stiamo
leggendo. Lui, lei, io sono parte di una finzione strategicamente articolata per
ottenere effetti di verità. Quando la strategia funziona, il risultato è una
menzogna la cui verità ci aiuta a muoverci nella ressa caotica del reale».
Lei in varie occasioni ha dichiarato il suo
debito verso Elsa Morante (…). Ne “La vita bugiarda degli adulti” a me pare di
intravvedere un omaggio a “Menzogna e sortilegio”: anche lì la protagonista che
narra in prima persona ha assorbito l’attitudine menzognera della famiglia. E
la menzogna è il modo più diretto per dire la verità in tutta la sua asprezza. «Non
mescoliamo la lana con la seta: Menzogna e sortilegio è un libro inarrivabile
col quale si può solo devotamente contrarre qualche debito».
(…). Il motore del suo racconto è una faccia
che cambia. I turbamenti della protagonista cominciano quando sente il padre
dire alla madre: Giovanna ha fatto la faccia di Vittoria. E le trasformazioni
del viso di Giovanna punteggiano il racconto, insieme a molte altre facce esplorate
nel rapporto con preoccupazione e felicità. Non è singolare la centralità della
faccia nel racconto di un’autrice senza volto, che la propria faccia si ostina
a cancellarla? «No, non mi pare. Per raccontare quanto pesa il volto nel corso
dell’adolescenza, lei ritiene necessario andare in giro per sale, salette e
televisioni?».
(…). Se dovesse scrivere l’autobiografia in
dieci righe, saltando naturalmente i titoli dei libri? «Dieci righe sono
troppe, non ho da dire granché, meglio di no».
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