Tratto da “Ecco
perché gli intellettuali fanno paura” di Gustavo Zagrebelsky, testo riportato
sul quotidiano la Repubblica del 10 di maggio 2019 e tratto dal volume “Mai più senza maestri” - Il Mulino
editore, pagg. 160, euro 14,00 -: (…). Nel dialogo che ha per oggetto la
conoscenza, il Teeteto, Socrate riferisce "ciò che si racconta di
Talete": "Mentre studiava le stelle e guardava in alto, cadde in un
pozzo; onde una servetta di Tracia, arguta e graziosa, lo motteggiò, a quanto
si narra, perché si desse gran cura di conoscere le cose celesti, ma di quelle
che gli stavan sotto gli occhi e dinanzi ai piedi non s'avvedesse per
nulla". Questa semplice piccola storia, commentata in molti modi, seriosi
e seri è entrata a far parte della nostra cultura e anche del nostro senso
comune. Aristofane andava incontro alle risate facili del pubblico quando
metteva il filosofo per eccellenza, Socrate, nel suo pensatoio sospeso in una
cesta tra cielo e terra: "Non sapevi che le nuvole sono dee e non le
onoravi. Tu non sai che esse nutrono fior di sapienti: indovini, dottoroni,
cappelloni scioperati con i loro anelli e le unghie ben curate, straziacanti di
cori ciclici, ciurmadori di fenomeni celesti. Esse nutrono questi scioperati
fannulloni. In cambio di questa roba trangugiano fette di grossi muggini
squisiti e volatili carni di tordi". C'è del vero. Perfino uno dei più
intellettualistici tra i filosofi classici, Platone, avvertì l'esistenza di un
limite etico in chi sa solo produrre parole. Spiegando la ragione dei suoi
viaggi a Siracusa presso il tiranno Dionisio, sorprendentemente ammette:
"Salpai da Atene, non per la ragione che alcuni credevano, ma perché mi
vergognavo assai di poter apparire di fronte a me stesso come un uomo capace
solo di parole e che mai mette mano di sua volontà ad alcuna opera". In
seguito, il tema è diventato centrale nella riflessione filosofica, nei termini
del rapporto tra teoria e prassi, pensiero e azione, universale e particolare,
e ha investito la legittimità del puro pensiero, del pensiero che pensa se
stesso, si arrovella su di sé e pretende validità indipendentemente dal suo
rapporto con "la vita". Che cosa viene "prima": l'azione o
il pensiero? Il pensiero è la guida efficace dell'azione giusta? Secondo una
tradizione che si può far risalire a Socrate, l'azione giusta presuppone la
conoscenza della giustizia e l'azione ingiusta dipende dall'ignoranza. Ma
un'altra tradizione, testimoniata forse in Esodo (24, 7), mette in primo piano
l'azione: sorprendentemente si dice che gli Ebrei, ricevendo la legge da Mosè,
dicono, prima: "noi faremo" e, poi: "ascolteremo". Qui la
conoscenza per mezzo dell'ascolto della "parola" si svolge ex post,
come comprensione dell'esperienza che si è fatta attraverso l'azione. Forse si
vuol dire che non c'è vera conoscenza se non si fa esperienza e che, anzi,
l'esperienza deve precedere la conoscenza. Forse (forse, forse, forse...)
questo è anche il significato della riflessione sull'inizio del Vangelo di
Giovanni, che Goethe attribuisce a Faust, in presenza del demonio che sta nel
cagnolino (Faust, 1224-1237): "Sta scritto: "In principio era la
parola!" / Qui già m'impunto. Chi mi aiuta a proseguire? / No, porre così
in alto la parola / non posso. Devo tradurre in altro modo, / se mi dà lo
spirito la giusta ispirazione. / Sta scritto: In principio era il pensiero. / Medita
bene la prima riga, la tua penna non abbia troppa fretta! / È il pensiero che
foggia e crea ogni cosa? / Dovrebbe essere: In principio era la forza! / Eppure
mentre lo sto scrivendo, / già qualcosa mi avverte che non me ne accontento. /
Lo spirito mi aiuta! Di colpo vedo chiaro / E scrivo fiducioso: In principio
era l'atto". Non mancano i tentativi di connettere teoria e prassi,
pensiero e azione, in una dimensione esistenziale in cui il dover essere, cui
guarda il puro pensiero, si nutre dell'essere, dove si svolge la vita, e
viceversa. È il pragmatismo: imparare dai propri errori, ma anche dai propri
successi. Esistono epoche in cui la priorità si è data al pensiero e l'azione
si è considerata figlia del pensiero, le "epoche intellettualistiche".
Oggi, siamo in una "epoca attivistica" e anti-intellettualistica. Le
cose si fanno perché "sono possibili" fattualmente e non perché siano
giuste e ragionevoli; ciò che è tecnicamente possibile diventa eticamente
lecito. Il "fatto compiuto" non ammette replica e al pensiero si
riconosce, al massimo, il compito di razionalizzare e normalizzare.
L'equilibrio si è spostato decisamente da questa parte dove, nel negare
l'autonomia dell'intelletto, l'irrazionalismo s'incontra con la forza
schiacciante dell'odierna elaborazione dei "dati". All'autonoma
ragione progettante e dirigente, al cosiddetto "costruttivismo" che
per secoli ha prodotto ideologie e programmi, non si crede più. Anzi, il
pensiero, se ancora ne residua qualcosa, si concentra nel dimostrare la propria
impotenza sulle azioni e, quindi, la sua inutilità, a meno che non si metta al
servizio della verità-realtà che esercita la sua dittatura. Vincono i
"tecnici" (i "meccanici", come li chiamò Alessandro
Manzoni) e gli "intellettuali" sono le vittime. Li si guarda con
diffidenza e, talora, con disprezzo. Sono freddi, sentenziosi e ciarlieri,
fastidiosi e presuntuosi, moralisti e arroganti, elitari e anti-popolari,
timorosi delle novità e per lo più conservatori e, al dunque, inutili,
superflui e forse nocivi. Poiché si dedicano ai loro studi e vi si perdono, non
sanno che cosa sia la fraternità con gli umili. In più, è facile identificarli
con i vecchi diffidenti che sono d'ostacolo alla gioventù impetuosa che,
invece, insegue il rischio e afferra "la fortuna".
Così è il consiglio che Machiavelli dà agli uomini intraprendenti (Il Principe, cap. XXVI): "Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano". Queste sono generalizzazioni che, tuttavia, hanno un nocciolo di verità. "Gli intellettuali", soprattutto quelli che con l'avanzare dell'età diventano progressivamente sospettosi e pessimisti, prudenti all'eccesso e conservatori, devono tenerne conto. Tuttavia, a conferma della perdurante rilevanza della funzione intellettuale nelle nostre società, a dissolvere le incertezze e a convalidare le coscienze, stanno le persecuzioni di cui il libero pensiero è vittima: persecuzioni fisiche e morali, fino a quella più insidiosa che consiste nella riduzione al silenzio semplicemente attraverso la cortina d'invisibilità con la quale lo si avvolge costringendolo alla clandestinità. Queste sono le prove meno contestabili della rilevanza degli intelletti nelle vicende della vita. Le idee ch'essi alimentano possono diventare anch'esse "fatti compiuti". Le persecuzioni suscitano riconoscenza: riconoscenza nei confronti non solo delle vittime, ma anche, paradossalmente, addirittura nei confronti dei persecutori. Essi sono testimoni a favore. Nel campo dello spirito, la persecuzione si ritorce contro i persecutori.
Così è il consiglio che Machiavelli dà agli uomini intraprendenti (Il Principe, cap. XXVI): "Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano". Queste sono generalizzazioni che, tuttavia, hanno un nocciolo di verità. "Gli intellettuali", soprattutto quelli che con l'avanzare dell'età diventano progressivamente sospettosi e pessimisti, prudenti all'eccesso e conservatori, devono tenerne conto. Tuttavia, a conferma della perdurante rilevanza della funzione intellettuale nelle nostre società, a dissolvere le incertezze e a convalidare le coscienze, stanno le persecuzioni di cui il libero pensiero è vittima: persecuzioni fisiche e morali, fino a quella più insidiosa che consiste nella riduzione al silenzio semplicemente attraverso la cortina d'invisibilità con la quale lo si avvolge costringendolo alla clandestinità. Queste sono le prove meno contestabili della rilevanza degli intelletti nelle vicende della vita. Le idee ch'essi alimentano possono diventare anch'esse "fatti compiuti". Le persecuzioni suscitano riconoscenza: riconoscenza nei confronti non solo delle vittime, ma anche, paradossalmente, addirittura nei confronti dei persecutori. Essi sono testimoni a favore. Nel campo dello spirito, la persecuzione si ritorce contro i persecutori.
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