Tratto da "Non
mi manca il Pci mi manca la sinistra", intervista di Antonio Gnoli a
Emanuele Macaluso pubblicata sul settimanale “Robinson” del 21 di aprile 2019: (…). "Durante
i mesi trascorsi in sanatorio conobbi il primo compagno. Fu lui a introdurmi al
comunismo. A fare da tramite presentandomi a Calogero Boccadruti, uomo
straordinario cui era affidata l'organizzazione della rete clandestina del
partito: lì nel 1941 ebbi i primi contatti".
Parli di un periodo trascorso in sanatorio.
Che cosa avevi? "Mi avevano diagnosticato la tubercolosi. Me ne accorsi
dopo una notte passata a tossire. La mattina seguente vidi il cuscino e il
lenzuolo macchiati di sangue. Lo dissi ai miei fratelli e loro lo riferirono a
nostro padre. Lui chiamò un medico che mi fece prontamente ricoverare nel
sanatorio. Era su una collina da cui si vedeva Caltanissetta".
Cosa provasti? "Avevo 16 anni e nessun
senso della tragedia. I miei erano preoccupati. Si diceva che chi entrava in
quel luogo era facile che ne uscisse con i piedi allungati. Si pensava che la
tubercolosi si trasmettesse anche per via aerea e questo determinò il mio
isolamento. Erano in molti a temere il contagio. Un'eccezione fu quel mio
amico, Gino Giannone, più grande di un paio d'anni, figlio di un libraio e
sufficientemente colto da instradarmi oltre che alla politica anche alla
lettura dei libri. In casa avevamo dei testi che mio padre aveva raccolto nel
tempo".
Di che cosa si occupava? "Era manovale
delle ferrovie. Impromovibile, come fu scritto su una scheda aziendale. Il
fascismo lo considerava un elemento inaffidabile. Solo dopo la liberazione gli
fu riconosciuto il grado di aiuto macchinista".
Ti fece studiare? "Per quel poco che le
condizioni economiche lo consentivano. Eravamo tre fratelli. Avrei fatto
volentieri il ginnasio. Ma alla fine dovetti accettare l'istituto tecnico
minerario. Comunque fu una scuola dura, dove si studiava per otto ore al
giorno. Non l'ho amata. Me ne sono fatto una ragione".
La malattia che conseguenze ha avuto? "Nessuna.
Lentamente tutto si riassorbì. Tra gli effetti imprevisti, oltre l'incontro che
avrebbe contribuito alla mia scelta comunista, ci fu la conoscenza di una
donna, della quale mi innamorai. Era sposata. Ma viveva separata con due figli.
Cominciammo ad avere una storia clandestina".
Non ti bastava la cellula. "Che avrei
dovuto fare? Strombazzare la nostra storia? Dopo la liberazione resi pubblico
il legame. Le famiglie si opposero. Ma cosa ben più grave il marito di Lina,
probabilmente istigato dai notabili locali, ci denunciò per adulterio. Fummo
arrestati. Feci qualche settimana di carcere e poi venimmo condannati a sette
mesi. Uscii con la condizionale e ripresi il lavoro, dividendomi tra una
tipografia e l'impegno politico. Nel frattempo la madre di Lina, una vedova
piuttosto facoltosa, ci mise a disposizione un appartamentino dove andare a
vivere. Insomma, la situazione si normalizzò".
Come reagì il partito alle tue vicende? "All'inizio male. Una situazione come la mia non poteva che essere disapprovata. Era il 1944. L'organizzazione politica in pieno fermento. Gli appelli al rigore e alla moralità erano quotidiani. Il Pci di fatto mi processò per la mia condotta privata. Ne uscii assolto e iniziai a percorrere seriamente la mia strada. Ma invece di abbracciare il partito, come alcuni dirigenti volevano, preferii il lavoro sindacale. Un impegno che mi portò a ricoprire il ruolo di segretario regionale, carica che tenni fino al 1956, l'anno dei fatti di Ungheria".
Nel sindacato la figura di riferimento era
Giuseppe Di Vittorio. Hai avuto rapporti con lui? "Fu lui a propormi come segretario
regionale. Perciò l'ho conosciuto bene e ritengo sia stato un leader
straordinario. Il più amato dell'intera storia sindacale. Aveva doti umane e
politiche come raramente si ritrovano in un uomo. Sapeva comprendere le
esigenze di chi lavorava. Guardava ai suoi braccianti, ai contadini, agli
operai con l'intelligenza di chi sa andare oltre la rivendicazione salariale
immediata, che pure era la questione imprescindibile da cui partire".
Da un certo punto in poi i rapporti tra lui
e il Pci si inasprirono. Un altro caso di divisione a sinistra. "Credo che
in questo siamo degli specialisti. Ma per restare a Di Vittorio, lo scontro
avvenne in relazione ai fatti di Ungheria del 1956. Il segretario della Cgil
disse che lì era in corso una rivolta dei lavoratori. E che bisognava
condannare l'invasione sovietica. Tutta la direzione del partito si schierò
contro di lui. In pratica fu lapidato. E ho la certezza che quello fu il più
grave errore commesso da Togliatti".
Tu con chi stavi? "Ero appena entrato
nella direzione. Mi vergogno a dirlo, sostenni la posizione del partito".
Tu che c'hai vissuto più di cinquant'anni
com'era la vita nel partito? "Si sono dette tante cose su quel partito. La
più ricorrente è che fossimo una specie di chiesa con i suoi sacerdoti e i suoi
riti".
Io penso che il partito comunista senza
liturgia sarebbe incomprensibile. "Tu trovi? Io non credo che fosse il
nostro problema. Avevamo una organizzazione, estesa e radicata sul territorio.
Con regole ben precise. Da rispettare. Sentivamo da vicino quali fossero i
bisogni della gente, perché erano anche i nostri bisogni".
Da un lato la casa del popolo, dall'altro il
campanile. "E che c'è di male? Siamo andati avanti per trent'anni con
questa dialettica. Sapendo che c'era una democrazia da rafforzare e una
Costituzione da difendere. Poi, capisco che le cose cambiano, che la gente si
rompe i coglioni di lottare o sacrificarsi per un partito. Ma c'erano delle
idee, cazzo! Un bracciante o un operaio avevano letto più libri dei nostri vice
premier. E lascia stare se erano i libri giusti o meno (per me lo erano), però
si informavano, crescevano culturalmente".
Crescevano e viaggiavano su binari precisi e
guai a deragliare. "Tutta questa storia del partito occhiuto controllore
di un'ideologia culturale a me ha stancato. Che ti aspettavi, che un partito di
quelle proporzioni non provasse a esercitare anche un'egemonia culturale? Gli
altri che cosa pensavi volessero fare? Noi avevamo i mezzi, le persone, le
strutture per poterci provare. Lo dico senza pentimenti, perché non c'è
battaglia culturale che non sia anche politica e viceversa".
La politica quasi sempre aveva il
sopravvento sulla cultura. Pensa al caso Vittorini. "Elio l'ho conosciuto
bene. Nella biblioteca della camera del lavoro di Caltanissetta tenevano la
serie "Americana" e posso capire che alcuni dirigenti del partito non
apprezzassero queste aperture".
Ti stai riferendo a Mario Alicata. "Proprio
a lui che commentò acidamente che Vittorini avrebbe dovuto leggere meno
Hemingway e più Marx. E quando uscì Uomini e no, il libro ebbe una recensione
favorevole sull'Unità di Milano e una stroncatura sull'edizione romana".
Chi firmava la stroncatura? "Fabrizio
Onofri, il quale parlò del libro in modo impietoso al punto che Togliatti scrisse
una lettera a Vittorini dissociandosi da quel giudizio ed esprimendogli tutta
l'ammirazione per quello che aveva scritto".
Lo stesso Togliatti che nel 1947 gli
stroncherà la rivista "Il Politecnico". "Potremmo stare qui a
discutere su quell'episodio fino a domattina. Sta di fatto che Vittorini non fu
espulso, se ne andò e Togliatti ironizzò su quell'uscita scrivendo:
"Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato!".
La vita culturale del Pci è segnata da
ricorrenti scontri. Un altro conflitto, che vide coinvolto un segretario, fu
quello tra Berlinguer e Sciascia. "Le premesse di quello scontro non
ebbero nulla di ideologico visto che riguardavano il rapimento Moro e le
Brigate rosse. Tieni conto che io ero molto amico di Leonardo e lavoravo nella
segreteria di Berlinguer. Sapevo benissimo com'era".
E com'era appunto? "Un uomo
fondamentalmente timido, come Sciascia del resto. Qualcuno disse che fu un
dialogo tra due muti che finirono col querelarsi a vicenda per incomprensione.
La storia in breve è questa: Sciascia chiese a Berlinguer se le Br si
addestravano militarmente in Cecoslovacchia. E scrisse che Berlinguer glielo
aveva confermato. Il quale negò, di qui l'alterco che stava per finire in
tribunale. Poi le querele furono ritirate e Sciascia commentò: vedi, le liti
giudiziarie in Italia finiscono sempre così".
In quella vicenda fu coinvolto anche Renato
Guttuso? "Renato fu sentito come testimone, perché pare fosse presente. E
diede ragione a Berlinguer. Sciascia se ne risentì al punto da rompere
l'amicizia con Guttuso. Non volle più vederlo. Quando andai a trovare Sciascia
che era già ammalato gli chiesi se voleva in qualche modo riappacificarsi con
Guttuso. Mi guardò, sollevandosi lievemente dal guanciale: non lo voglio
neppure al mio funerale, disse con un filo di voce".
E Guttuso? "Era dispiaciuto, lui
avrebbe volentieri fatto pace. In ogni caso morì prima di Sciascia. E strano a
dirsi fu anche lui toccato da un gran rifiuto".
A cosa ti riferisci? "Posto che è
sempre stato un uomo cui piacevano le donne, non accettò di buon grado che la
contessa Marzotto si fosse messa con uno più giovane".
Ti riferisci a Lucio Magri? "A lui.
Ricordo un viaggio che feci in Unione Sovietica con Renato e la moglie Mimise.
Io ero con Ninni Monroy, la mia nuova compagna. Ogni tanto arrivavano in hotel
delle telefonate complicate. Renato mi diceva: "Ti prego distrai Mimise
che al telefono c'è Marta". Fu un rapporto tumultuoso il loro. Ma alla
fine di tutta la loro lunga storia lui non volle più vederla. Mimise era morta
da qualche mese. Me lo ricordo Renato sdraiato sul divano perché non ce la
faceva a stare in piedi a dire no. E la Marzotto accusò me e Antonello
Trombadori di impedirle di vedere Renato. Anche in questo caso rischiammo di
finire tutti in tribunale".
Anche tu sei stato uno sciupafemmine. "Non
userei quell'espressione. Diciamo che ho avuto donne con cui ho condiviso delle
lunghe stagioni. Accompagnate da cose belle e da episodi dolorosi, come quando
ahimè lasciai una ragazza senza poter immaginare le conseguenze di quel
gesto".
Tu ne hai scritto come se volessi liberarti
da un peso. La ragazza era la sorella di Eugenio Peggio, importante economista
del Pci. "E mio grande amico. Conobbi Erminia nel 1964 dopo un paio di
anni tra noi nacque una storia d'amore. A un certo punto mi chiese di metterci
insieme e io, poiché ero già legato e con dei figli, non ebbi il
coraggio".
Lo hai definito un gesto di
"viltà". "Tale fu, perché non riuscii ad affrontare la situazione,
nella convinzione che né Lina né i miei figli avrebbero accettato la rottura.
Fu un bel casino e tutto precipitò quando Erminia, segnata da alcune fragilità,
pochi mesi dopo si suicidò".
Ci furono ripercussioni nel partito? "Sono
stato malissimo ed era l'ultima cosa che mi importava. Però ci furono. Amendola
istruì una specie di inchiesta. Ma ne venni a conoscenza molto tempo dopo. Fu
lo stesso Eugenio, fratello di Erminia, a dirmi, quando finalmente c'eravamo
riappacificati, che Amendola gli aveva chiesto di formalizzare l'accusa di
"scorrettezza morale". Ma poi non se ne fece niente".
Contavano un po' meno i doveri del
militante. "Diciamo che si stava attenuando l'accanimento moralistico.
Pensa a quello che ha dovuto passare Togliatti dopo essersi messo con Nilde
Iotti. Ma come il suo o il mio caso, ce n'erano altri. Questo era il partito
comunista, con le sue grandezze e le sue miopie".
Ti manca, intendo il partito? "Mi
mancano le persone che ho incontrato e con cui ho stretto rapporti di
conoscenza e di amicizia. Mi mancano certi gesti, certe intelligenze: come
quella sottile di Togliatti, dotta di Bufalini o sofferta di Berlinguer.
Qualche giorno fa ho festeggiato i novantacinque anni. C'erano ancora amici,
molti dei quali più giovani. Ero lì e pensavo ai pochi della mia generazione
rimasti, come Giorgio Napolitano, e ai tanti che non ci sono più. Mi mancano.
Ma non mi manca il partito. Soltanto un cretino potrebbe pensare di rifare il
Pci. Però mi manca la sinistra. Di quella abbiamo bisogno. Quella va ripensata.
Ma non so se avrò il tempo di vederla. Temo che arriverò prima io al
capolinea".
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