"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 23 maggio 2019

Terzapagina. 83 «La seduzione del potere altera spesso la percezione personale del capo».


Tratto da “La politica sul lettino dello psicoanalista” di Massimo Ammaniti, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 20 di luglio dell’anno 2018: È quasi impossibile rispondere alla domanda su come e soprattutto chi può diventare un grande capo o un leader politico carismatico. Il carattere del leader è fondamentale, come anche la sua capacità e la sua determinazione nel prendere decisioni necessarie per la vita del Paese. E poi deve essere in grado di mediare quando è necessario. Tutto questo non è sufficiente, sono importanti anche i suoi gesti, il suo modo di parlare e di rivolgersi ai cittadini, le sue pause, le sue espressioni facciali, la sua postura, in altri termini la fenomenologia corporea che viene ad incarnare il senso del potere e l’intima convinzione di essere un predestinato. Ma quello che sancisce definitivamente la leadership è l’investitura popolare. Come nella dinamica che lega il predatore alla preda anche il leader è tale in quanto viene riconosciuto nel suo ruolo dai cittadini e dall’opinione pubblica. La natura di questo rapporto è stata indagata da Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, nel suo scritto del 1921 Psicologia delle masse e analisi dell’Io. È un’attrazione fatale quella fra la massa e il capo, difficile da spiegare in termini razionali e che può offuscare le capacità critiche dei cittadini. La possiamo visualizzare come un’onda sismica che si sprigiona dalla psicologia collettiva dei cittadini ed investe la figura del leader, attribuendogli qualità ideali, addirittura sovrannaturali. E questa identificazione inconscia a volte dura dalla sera alla mattina, perché il capo in breve tempo perde il suo carisma non sapendo gestire il potere, mentre altre volte il capo è in grado di incarnare anche per un lungo periodo gli investimenti ideali dei suoi ammiratori. La seduzione del potere altera spesso la percezione personale del capo, è quasi inevitabile che provi un orgoglio smisurato e un senso di sé grandioso che mette alla prova il suo giudizio di realtà. Giulio Andreotti aveva coniato la famosa frase «il potere logora chi non ce l’ha», rifacendosi al grande politico francese Charles Maurice de Talleyrand, ma si era dimenticato di aggiungere l’affermazione simmetrica «il potere fa impazzire chi ce l’ha». Ci si può chiedere se il potere non possa addirittura provocare un disturbo di personalità. Non è un interrogativo banale se una Rivista Scientifica di grande prestigio come Brain della Oxford University Press ha pubblicato un articolo su questo tema a nome di due autori apparentemente molto lontani, David Owen della Camera dei Lord britannica e Jonathan Davidson, professore di Psichiatria della Duke University negli Stati Uniti. I due autori si interrogano se la sindrome della hybris che può colpire i capi e i leader politici non sia un disturbo di personalità che si sviluppa nella gestione del potere. Pur riconoscendo che spesso la leadership si associa al carisma, alla capacità di ispirare e di persuadere, all’ampiezza della visione, alle aspirazioni grandiose e alla fiducia in se stessi può succedere che possa prendere il sopravvento la faccia più oscura del potere. Si cede agli impulsi col rischio di lanciarsi in comportamenti e decisioni spericolate e non si è più in grado di ascoltare i pareri degli altri, perdendo di vista la complessità e i dettagli delle situazioni. Quello che lega tutto questo è la hybris, ossia una tracotanza eccessiva e un’arroganza con una fiducia spropositata di sé e un disprezzo nei confronti degli altri. Questa sindrome della hybris è generata dal potere che corrompe la mente ma anche il cervello del capo. Una ricerca ha documentato che quando si ricorda un episodio della propria vita, in cui si è esercitato un particolare potere nei confronti degli altri, si perde la capacità cerebrale di entrare in risonanza con gli altri e di provare empatia verso di loro. In altri termini i neuroni specchio si disattivano perché probabilmente si è troppo concentrati su se stessi e sulla propria potenza per prestare attenzione agli altri.
La storia ha ampiamente confermato queste osservazioni. Questa sindrome del potere può insorgere sia che il leader ottenga grandi successi, sia che vada incontro a sconfitte e fallimenti. Probabilmente quando non ci si guarda più allo specchio e si perde il contatto con se stessi è più facile che ci si faccia sedurre dall’ammirazione dei propri seguaci. Ma anche l’allontanamento dei consiglieri può rendere ancora più solo il leader, come successe anche al primo ministro britannico Margaret Thatcher quando fu lasciata dal suo consigliere Willie Whitelaw. Fece approvare in seguito leggi impopolari e alla fine fu costretta dal suo stesso partito a dimettersi. Ma non è un esito inevitabile, vale la pena di ricordare quello che scrisse il grande economista John Maynard Keynes dopo aver cenato con Winston Churchill nel 1941, all’apice della sua popolarità: «L’ho trovato assolutamente in perfette condizioni, molto bene, sereno, ricco di sentimenti umani e non gonfiato. Forse in questo momento è al massimo del suo potere e della sua gloria e non ho mai visto nessuno meno contagiato da arie dittatoriali e dalla hybris».

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