Tratto da “Un
uomo solo è schiavo due amici sono liberi” del teologo Vito Mancuso,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 21 di maggio dell’anno 2016: (…). La
questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene (…) più complessa
se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al
livello economico-sociale e a quello politico si considera quell’intricato
labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se
stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali,
alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio…) è libero o
schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di
un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della
microbiologia? (…). Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani
vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una
grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante
condizione detta libertà? (…). Secondo questa prospettiva la schiavitù non è
una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma
è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica. La
questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica:
lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti,
oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente
da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che
tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in
schiavitù ma generi liberazione e vera libertà? Questo è lo sfondo teoretico su
cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale
la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato
la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a
partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo.
Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando
nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a
caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è
una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per
un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo.
Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma
della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio
figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della
propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto
sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e
sottomessa da essere in realtà schiavitù. È a questa prospettiva che a mio
avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo
accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi
all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica
opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza
e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello
Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva» (Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre (portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger). A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva» (Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre (portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger). A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
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