Tratto da “La
nostalgia è il prezzo del proprio futuro” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del 31 di maggio dell’anno 2014: La terra natìa e le radici sono
rassicuranti, ma non è dei giovani la capacità di osare, invece di acquietarsi
nella rassicurazione?
(…). …mi sono venute in mente tre parole. La prima è "nostalgia". Un termine che è stato coniato nel 1688 da uno studente di medicina, Johannes Hofer, che compose due parole greche: nóstos (ritorno) e álgos (dolore): il dolore che deriva dalla lontananza dalla propria terra e dalla voglia di tornare. La psichiatria adottò questo termine come una variante della malinconia, che colpiva i militari in terra straniera e le ragazze al servizio di famiglie lontane dalla propria terra. L'interesse della psichiatria fu dovuto al fatto che non pochi militari e non poche ragazze, per nostalgia, si suicidavano. (…). …la nostalgia ci segnala che quando l'anima è rapita dal passato e dalla terra lontana, il presente si scolora, e una demotivazione strisciante ci porta a dire, come spesso capitava a Bruce Chatwin: «Che ci faccio qui?». (…). …la seconda parola che mi viene in mente è "esilio", dove non si va solo per ragioni politiche (…). A questo punto la nostalgia diventa rabbia: contro l'ignavia dei politici che non hanno mai affrontato seriamente i problemi del Sud? Certamente. Ma anche contro l'ignavia di una popolazione che non ha creduto in se stessa e nella sua voglia di riscatto da una sudditanza passivamente accettata, costringendo i suoi giovani ad affermarsi altrove, in esilio, appunto. Quando si è in esilio, la condizione che si vive, e qui siamo alla terza parola, è quella dello "straniero", afflitto da quell'insolubile contraddizione per cui: se si assimila troppo alla gente del luogo, perde le sue radici, e con le radici la sua identità. Se invece le conserva e le custodisce come basi irrinunciabili, diventa "estraneo" a quelli del luogo e va incontro a un vissuto di solitudine. Questa contraddizione è insolubile e la sofferenza che produce la si può compensare solo con la forza d'animo, che riconferma la propria scelta e la determinazione di raggiungere, a livelli di eccellenza, gli scopi per cui quella scelta, al momento dolorosa, è stata fatta. (…). …posso confermare che solo chi ha lasciato la sua terra, che sia del Sud o del Nord, ha allargato i suoi orizzonti e ha capito in anticipo che se il proprio paese non offre futuro, non resta che migrare, non solo da una regione all'altra, ma anche da una nazione all'altra. E questo i giovani più avveduti già lo fanno, perché la nostalgia della propria terra lontana è pur sempre una sofferenza minore della depressione che può generare la mancanza di futuro nella propria terra.
(…). …mi sono venute in mente tre parole. La prima è "nostalgia". Un termine che è stato coniato nel 1688 da uno studente di medicina, Johannes Hofer, che compose due parole greche: nóstos (ritorno) e álgos (dolore): il dolore che deriva dalla lontananza dalla propria terra e dalla voglia di tornare. La psichiatria adottò questo termine come una variante della malinconia, che colpiva i militari in terra straniera e le ragazze al servizio di famiglie lontane dalla propria terra. L'interesse della psichiatria fu dovuto al fatto che non pochi militari e non poche ragazze, per nostalgia, si suicidavano. (…). …la nostalgia ci segnala che quando l'anima è rapita dal passato e dalla terra lontana, il presente si scolora, e una demotivazione strisciante ci porta a dire, come spesso capitava a Bruce Chatwin: «Che ci faccio qui?». (…). …la seconda parola che mi viene in mente è "esilio", dove non si va solo per ragioni politiche (…). A questo punto la nostalgia diventa rabbia: contro l'ignavia dei politici che non hanno mai affrontato seriamente i problemi del Sud? Certamente. Ma anche contro l'ignavia di una popolazione che non ha creduto in se stessa e nella sua voglia di riscatto da una sudditanza passivamente accettata, costringendo i suoi giovani ad affermarsi altrove, in esilio, appunto. Quando si è in esilio, la condizione che si vive, e qui siamo alla terza parola, è quella dello "straniero", afflitto da quell'insolubile contraddizione per cui: se si assimila troppo alla gente del luogo, perde le sue radici, e con le radici la sua identità. Se invece le conserva e le custodisce come basi irrinunciabili, diventa "estraneo" a quelli del luogo e va incontro a un vissuto di solitudine. Questa contraddizione è insolubile e la sofferenza che produce la si può compensare solo con la forza d'animo, che riconferma la propria scelta e la determinazione di raggiungere, a livelli di eccellenza, gli scopi per cui quella scelta, al momento dolorosa, è stata fatta. (…). …posso confermare che solo chi ha lasciato la sua terra, che sia del Sud o del Nord, ha allargato i suoi orizzonti e ha capito in anticipo che se il proprio paese non offre futuro, non resta che migrare, non solo da una regione all'altra, ma anche da una nazione all'altra. E questo i giovani più avveduti già lo fanno, perché la nostalgia della propria terra lontana è pur sempre una sofferenza minore della depressione che può generare la mancanza di futuro nella propria terra.
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