Tratto da “Liberi
dagli istinti dobbiamo inventarci la vita” di Umberto Galimberti,
pubblicato sul settimanale “D” del 28 di maggio dell’anno 2016: La
differenza tra gli uomini e gli animali non è l'anima. È la necessità di creare
un ambiente adatto a noi. Perché non c'è un posto prestabilito che ci spetti,
sulla Terra. Da dove venga l'uomo non lo so. Quel che so è che non può essere
definito un "animale ragionevole" perché non possiede la
caratteristica tipica di tutti gli animali, cioè l'istinto. Questo infatti, è
una risposta "rigida" agli stimoli, per cui se per esempio offro
della carne a un erbivoro, questi non la percepisce come cibo. Lo stesso
"istinto sessuale" nell'uomo è così poco "istintivo" che
può esprimersi nelle più svariate perversioni (cosa che non sembra concessa
agli animali), o, come dice Freud, si può "sublimare" in espressioni
non sessuali, come una creazione poetica o artistica. Nel Protagora, Platone ci
racconta che Zeus aveva dato a Epimeteo l'incarico di consegnare a tutti i
viventi le loro qualità, ma Epimeteo, il cui nome significa "colui che
pensa dopo, l'improvvido", essendo stato troppo generoso nella distribuzione,
giunto all'uomo non aveva più nulla da dare. Allora Zeus incaricò il fratello
di Epimeteo, Prometeo (il cui nome significa "colui che pensa in
anticipo") di dare all'uomo, oltre al fuoco e alle tecniche, la virtù di
prevedere per quel che è possibile il futuro e quindi provvedervi. Il motivo è
ripreso da Hobbes là dove dice che mentre gli animali mangiano quando hanno
fame, «l'uomo è affamato anche dalla fame futura», per cui, anche a stomaco
pieno, provvede a procurarsi il necessario per quando avrà fame. Che l'uomo non
abbia istinti è una tesi sostenuta, oltre che da Platone, da Tommaso d'Aquino,
Kant, Herder, Nietzsche e persino da Freud, che nel corso degli anni abbandona
l'espressione tedesca Istinkt, per sostituirla con Trieb, che, a differenza dell'istinto
diretto a una meta, è una semplice "spinta" o una "pulsione a
meta indeterminata".
Nel secolo scorso Arnold Gehlen chiarì come l'uomo sia un «essere manchevole» che, inadatto alla vita in un ambiente naturale, non avrebbe potuto sopravvivere se non si fosse creato una seconda natura artificiale per compensare il suo deficiente equipaggiamento organico. Questa seconda vita si chiama "cultura" e comprende in primo luogo tutte le azioni riuscite, a cui l'uomo è giunto per prove ed errori, e che, una volta acquisite, vengono trasmesse da generazione a generazione, creando la riserva di memoria che si chiama "tradizione". In secondo luogo comprende le istituzioni, che con le leggi e le punizioni regolano i comportamenti non regolati dagli istinti. La stessa "libertà" di cui l'uomo si vanta rispetto all'animale non ha altra origine se non nell'indeterminatezza in cui esso viene a trovarsi per mancanza di percorsi prestabiliti dall'ordine istintuale. Questa è anche la ragione per cui l'animale può vivere solo nel suo ambiente, che è poi quello adatto alla specializzazione del suo istinto, mentre l'uomo è aperto al mondo e all'esperienza del mondo. E questa è la ragione per cui, scrive Ghelen: «lo vediamo vivere dappertutto, a differenza di tutti gli animali specializzati, i cui habitat sono geograficamente ben circoscritti». Apertura al mondo e plasticità nell'adattamento fanno dell'uomo un essere la cui vita dipende dalla "costruzione" che egli ne fa, attraverso quelle procedure di selezione e stabilizzazione con cui raggiunge "culturalmente" quella selettività e stabilità che l'animale, grazie all'istinto, ha per natura. Perché le cose siano andate così non lo sappiamo, ma che le cose stanno così lo constatiamo ogni giorno, non perché l'uomo, a differenza dell'animale, abbia lo "spirito", ma perché non essendo condizionato dall'istinto, per non estinguersi ha dovuto costruirsi quella seconda natura che chiamiamo "cultura", fatta di tecnica che ne assicura l'esistenza, e di istituzioni che ne regolano la condotta. Il problema è che la tecnica non diventi a tal punto egemone da ridurre l'uomo a semplice funzionario dei suoi apparati, e le istituzioni così impotenti da non essere in grado di impedirlo.
Nel secolo scorso Arnold Gehlen chiarì come l'uomo sia un «essere manchevole» che, inadatto alla vita in un ambiente naturale, non avrebbe potuto sopravvivere se non si fosse creato una seconda natura artificiale per compensare il suo deficiente equipaggiamento organico. Questa seconda vita si chiama "cultura" e comprende in primo luogo tutte le azioni riuscite, a cui l'uomo è giunto per prove ed errori, e che, una volta acquisite, vengono trasmesse da generazione a generazione, creando la riserva di memoria che si chiama "tradizione". In secondo luogo comprende le istituzioni, che con le leggi e le punizioni regolano i comportamenti non regolati dagli istinti. La stessa "libertà" di cui l'uomo si vanta rispetto all'animale non ha altra origine se non nell'indeterminatezza in cui esso viene a trovarsi per mancanza di percorsi prestabiliti dall'ordine istintuale. Questa è anche la ragione per cui l'animale può vivere solo nel suo ambiente, che è poi quello adatto alla specializzazione del suo istinto, mentre l'uomo è aperto al mondo e all'esperienza del mondo. E questa è la ragione per cui, scrive Ghelen: «lo vediamo vivere dappertutto, a differenza di tutti gli animali specializzati, i cui habitat sono geograficamente ben circoscritti». Apertura al mondo e plasticità nell'adattamento fanno dell'uomo un essere la cui vita dipende dalla "costruzione" che egli ne fa, attraverso quelle procedure di selezione e stabilizzazione con cui raggiunge "culturalmente" quella selettività e stabilità che l'animale, grazie all'istinto, ha per natura. Perché le cose siano andate così non lo sappiamo, ma che le cose stanno così lo constatiamo ogni giorno, non perché l'uomo, a differenza dell'animale, abbia lo "spirito", ma perché non essendo condizionato dall'istinto, per non estinguersi ha dovuto costruirsi quella seconda natura che chiamiamo "cultura", fatta di tecnica che ne assicura l'esistenza, e di istituzioni che ne regolano la condotta. Il problema è che la tecnica non diventi a tal punto egemone da ridurre l'uomo a semplice funzionario dei suoi apparati, e le istituzioni così impotenti da non essere in grado di impedirlo.
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