Ha scritto Gianluca Di Feo in “Il capitale disumano” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del
4 di maggio: (…). Politica e istituzioni continuano a sottovalutare il peso della
criminalità organizzata nella nostra economia. Bene, dove sta la
sostanza di tale rivelazione? La mala-politica ha sempre disdegnato di tagliare
i legami con la malavita. Anzi, del suo apporto se ne è valsa sempre per
raggiungere l’obiettivo primario, ovvero la conquista del potere. Conquista a
quali fini? Solamente per il successo del cosiddetto (Antonio Padellaro insegna)
“Partito
preso”, ovvero valutare e stimare fatti, persone ed avvenimenti a
seconda delle convenienze che ne derivino per i propri sostenitori. È la pasta marcia
propria della mala-politica, quel collante che è riuscito in più di una
occasione a mettere assieme le varie anime – senza timore o scorno alcuno - della
politica del Paese. Non una meraviglia è possibile quindi innanzi alla
rivelazione dell’illustre opinionista. Non per nulla sullo stesso quotidiano ed
alla medesima data in prima pagina di spalla Massimo Giannini in “E il capitano se la prende con i giudici” scrive
a proposito degli ultimi avvenimenti che vedono sempre come protagonista il
Salvini Matteo, ministro: (…). Scene di ordinaria follia nell'Italia
di oggi, dove Matteo Salvini recita ogni giorno la sua predica suprematista: la
vera barbarie da sconfiggere è quella dei migranti, l'unica emergenza da
fronteggiare è quella dei jihadisti. Una giagulatoria falsamente securitaria,
che confonde le reali priorità del Paese. La guerra alle macro-mafie, che si
combatte ogni giorno, palmo a palmo, sui territori dell'intera penisola (e non
solo un 25 aprile qualsiasi con una comparsata posticcia a Corleone,
improvvisata giusto per sconfessare la Liberazione dal nazi-fascismo). La lotta
alle micro-criminalità, che si dispiega con il presidio costante, capillare e
visibile dello Stato e delle forze dell'ordine (e non certo con la "difesa
sempre legittima" dei cittadini, chiamati ad armarsi e a tutelare se
stessi e i loro cari a colpi di pistola, nel nuovo Far West tricolore dove
regna per tutti la licenza di uccidere).
In Italia si delinque meno. L'ha ricordato il capo della Polizia Franco
Gabrielli, al 167esimo compleanno del Corpo. Nel 2018 i delitti sono calati del
4 per cento. Nei primi mesi di quest'anno le rapine risultano in calo del 7,7%,
i furti del 6,3 (compresi quelli in appartamento, ridotti del 3 per cento).
Questo non vuol dire che in Italia i fenomeni delittuosi non siano un problema.
Al contrario: a dispetto dei numeri, la percezione di insicurezza resta
elevatissima e cresce, seminata a piene mani da chi, intorno a
quell'insicurezza, raccoglie consenso. Contrastando solo a chiacchiere i
fenomeni criminali. E indicando falsi bersagli, primi tra tutti "gli
stranieri che ci invadono". (…). Dov'è Salvini, (…)? (…). …è in campagna
elettorale (dove invece si vede tantissimo, come certificano i comizi, le
conferenze stampa, i selfie e i baciamani in piazza con i quali delizia il suo
popolo adorante). E con chi se la prende Salvini, (…)? Con il tribunale di
Bologna, che riconosce il diritto all'iscrizione anagrafica ai richiedenti
asilo. I giudici che in nome di un sacrosanto principio costituzionale di
uguaglianza gli smontano il "giocattolo" del decreto sicurezza (con
il quale il ministro ha già abolito i permessi umanitari e smantellato gli
Sprar), sono "vergognosi". Ma non basta l'insulto, che è già
un'enormità perché pronunciato da un potere dello Stato contro un'istituzione
repubblicana. Salvini ci aggiunge l'aculeo del populismo giudiziario: "Se
vogliono fare politica e aiutare gli immigrati, si candidino con la
sinistra".
Di questo si preoccupa il vicepremier in evidente ricerca di rivincite dopo la sconfitta sul caso Siri, che lo vede per la prima volta stretto nella morsa di Conte e Di Maio. Dei neri, da discriminare e colpevolizzare (perché a questo servono, secondo la "dottrina di Visegrád"). Delle toghe, da politicizzare e delegittimare (perché indagano sui 49 milioni spariti dai conti della Lega, e ora anche su un suo sottosegretario sospettato di traffici con faccendieri e imprenditori vicini a Cosa Nostra). Salvini non ha interesse a risolvere concretamente il problema migratorio. Altrimenti all'Europarlamento la delegazione leghista non avrebbe disertato le 22 riunioni tecniche in cui si è discusso di riforma del regolamento di Dublino, non si sarebbe astenuta quando quella riforma è stata votata in aula, e lui stesso non avrebbe marinato 5 vertici su 6 convocati dai ministri dell'Interno della Ue per discutere di migranti. Allo stesso modo, Salvini non ha interesse a sbaragliare materialmente le macro e le micro-criminalità. Altrimenti passerebbe tutto il suo tempo in ufficio, o nelle prefetture, o dovunque ci sia da dimostrare che lo Stato è in campo davvero, con i suoi uomini e i suoi mezzi, a prevenire e a reprimere. A Salvini interessa altro. Diffondere la paura come veleno sociale, e poi concentrarla come strumento di dominio politico. Al servizio di un disegno autoritario e a-costituzionale. L'ha scritto Gustavo Zagrebelsky, su questo giornale: i regimi forti non si basano sulla forza, ma sulla paura, perché la paura invoca la forza e la rende non solo tollerabile, ma anche desiderabile. È un dispositivo infernale e virtuale, ma in tempo di crisi delle democrazie liberali funziona. Basta farsi fotografare con un mitra, il giorno di Pasqua, e aspettare le elezioni europee. Per vedere l'effetto che fa. Poiché di quei problemi di sottovalutazione accennati all’inizio ne ha fatto pur sempre una attenta analisi Gianluca Di Feo nel prosieguo del Suo scritto laddove sostiene che “da anni magistrati e ricercatori denunciano l'espansione del capitalismo mafioso (espansione avvenuta ad insaputa di “lor signori della mala-politica” e proprio nelle regioni più ricche del Paese, guarda caso amministrate per decenni con il concorso fattivo degli uomini della Lega n.d.r.): evocano le cosche come proprietarie di catene di ristorazione e supermercati, di società finanziarie e immobiliari, di cliniche e squadre sportive, di imprese attive persino in settori avanzati come l'energia eolica e solare. Adesso c'è un dato, concreto e impressionante, su cui riflettere: nel solo 2018 la Guardia di finanza ha chiesto il sequestro di patrimoni mafiosi per una cifra vicina ai 5 miliardi di euro. Si tratta di una somma enorme, superiore a quello 0,2 per cento del Pil che dovrebbe segnare la crescita complessiva dell'economia nazionale. Questo risultato è merito dell'attività delle Fiamme gialle, che dispongono di reparti altamente specializzati e contrastano - come ha dichiarato il comandante generale Giorgio Toschi - il tentativo di "inquinare o comunque condizionare il libero esercizio delle attività economiche". Allo stesso tempo c'è la certezza che il fatturato di camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra sia molto più alto. I clan accumulano ricchezze con il traffico di droga, mediando le importazioni di cocaina che invadono tutta Europa, e dominano le reti di spaccio al dettaglio, con un flusso infinito di denaro contante. In un Paese sull'orlo della recessione, con un tasso spaventoso di disoccupazione soprattutto nelle regioni meridionali, queste risorse fanno la differenza. Creano posti di lavoro e cementano quel consenso che serve alle famiglie criminali per prosperare sul territorio. Ma i boss non sanno gestire importi così consistenti: al massimo possono mandare avanti una pizzeria o una ditta di costruzioni. E affidano questi milioni a un ceto di professionisti senza scrupoli, una classe borghese e incensurata che opera per loro in tutta Italia e sempre più spesso al Nord, dove è più facile far fruttare gli investimenti. Un esempio? Nella sola Emilia Romagna lo scorso anno le Fiamme gialle hanno individuato patrimoni criminali per un valore di mezzo miliardo di euro. Questa ondata di denaro in nero sta intossicando il mercato e stravolgendo le regole della concorrenza, perché i broker delle mafie possono offrire di più e hanno disponibilità illimitate di fondi in nero. E grazie ai loro nuovi alleati insospettabili, i padrini riescono ad arrivare ovunque. Ormai non hanno più bisogno di sparare, perché possono comprare tutto e tutti: aziende, appalti e politici. Nel linguaggio tecnico la Guardia di finanza descrive "uno schema corruttivo più compatto e pervasivo rispetto al passato, costituito da colletti bianchi propensi a un interscambio di risorse su ogni versante e disponibili a entrare in relazione con altre e più aggressive realtà delinquenziali, tra cui quelle mafiose". Pensate allo scenario dell'inchiesta su Armando Siri. Vito Nicastri, figura leader nel settore eolico e solare, è accusato di essere in affari con Matteo Messina Denaro: il più importante capo di Cosa nostra ancora in libertà e ritenuto tra i mandanti dell'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I magistrati gli hanno sequestrato un impero da 1.200 milioni. E allora Nicastri diventa socio occulto del genovese Paolo Arata, ex parlamentare e consigliere per l'energia dei vertici della Lega, che va a incontrarlo pure agli arresti domiciliari. Arata a sua volta manovra per influire sulle nomine di governo e poi chiede al sottosegretario Siri una legge su misura per le sue attività siciliane. Tutti si sono dichiarati innocenti: la rilevanza penale di questi fatti dovrà essere valutata nei processi. Siamo però davanti alla radiografia di un meccanismo micidiale. Che non solo sta devastando la concorrenza imprenditoriale ma mette a rischio le regole della nostra democrazia.
Di questo si preoccupa il vicepremier in evidente ricerca di rivincite dopo la sconfitta sul caso Siri, che lo vede per la prima volta stretto nella morsa di Conte e Di Maio. Dei neri, da discriminare e colpevolizzare (perché a questo servono, secondo la "dottrina di Visegrád"). Delle toghe, da politicizzare e delegittimare (perché indagano sui 49 milioni spariti dai conti della Lega, e ora anche su un suo sottosegretario sospettato di traffici con faccendieri e imprenditori vicini a Cosa Nostra). Salvini non ha interesse a risolvere concretamente il problema migratorio. Altrimenti all'Europarlamento la delegazione leghista non avrebbe disertato le 22 riunioni tecniche in cui si è discusso di riforma del regolamento di Dublino, non si sarebbe astenuta quando quella riforma è stata votata in aula, e lui stesso non avrebbe marinato 5 vertici su 6 convocati dai ministri dell'Interno della Ue per discutere di migranti. Allo stesso modo, Salvini non ha interesse a sbaragliare materialmente le macro e le micro-criminalità. Altrimenti passerebbe tutto il suo tempo in ufficio, o nelle prefetture, o dovunque ci sia da dimostrare che lo Stato è in campo davvero, con i suoi uomini e i suoi mezzi, a prevenire e a reprimere. A Salvini interessa altro. Diffondere la paura come veleno sociale, e poi concentrarla come strumento di dominio politico. Al servizio di un disegno autoritario e a-costituzionale. L'ha scritto Gustavo Zagrebelsky, su questo giornale: i regimi forti non si basano sulla forza, ma sulla paura, perché la paura invoca la forza e la rende non solo tollerabile, ma anche desiderabile. È un dispositivo infernale e virtuale, ma in tempo di crisi delle democrazie liberali funziona. Basta farsi fotografare con un mitra, il giorno di Pasqua, e aspettare le elezioni europee. Per vedere l'effetto che fa. Poiché di quei problemi di sottovalutazione accennati all’inizio ne ha fatto pur sempre una attenta analisi Gianluca Di Feo nel prosieguo del Suo scritto laddove sostiene che “da anni magistrati e ricercatori denunciano l'espansione del capitalismo mafioso (espansione avvenuta ad insaputa di “lor signori della mala-politica” e proprio nelle regioni più ricche del Paese, guarda caso amministrate per decenni con il concorso fattivo degli uomini della Lega n.d.r.): evocano le cosche come proprietarie di catene di ristorazione e supermercati, di società finanziarie e immobiliari, di cliniche e squadre sportive, di imprese attive persino in settori avanzati come l'energia eolica e solare. Adesso c'è un dato, concreto e impressionante, su cui riflettere: nel solo 2018 la Guardia di finanza ha chiesto il sequestro di patrimoni mafiosi per una cifra vicina ai 5 miliardi di euro. Si tratta di una somma enorme, superiore a quello 0,2 per cento del Pil che dovrebbe segnare la crescita complessiva dell'economia nazionale. Questo risultato è merito dell'attività delle Fiamme gialle, che dispongono di reparti altamente specializzati e contrastano - come ha dichiarato il comandante generale Giorgio Toschi - il tentativo di "inquinare o comunque condizionare il libero esercizio delle attività economiche". Allo stesso tempo c'è la certezza che il fatturato di camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra sia molto più alto. I clan accumulano ricchezze con il traffico di droga, mediando le importazioni di cocaina che invadono tutta Europa, e dominano le reti di spaccio al dettaglio, con un flusso infinito di denaro contante. In un Paese sull'orlo della recessione, con un tasso spaventoso di disoccupazione soprattutto nelle regioni meridionali, queste risorse fanno la differenza. Creano posti di lavoro e cementano quel consenso che serve alle famiglie criminali per prosperare sul territorio. Ma i boss non sanno gestire importi così consistenti: al massimo possono mandare avanti una pizzeria o una ditta di costruzioni. E affidano questi milioni a un ceto di professionisti senza scrupoli, una classe borghese e incensurata che opera per loro in tutta Italia e sempre più spesso al Nord, dove è più facile far fruttare gli investimenti. Un esempio? Nella sola Emilia Romagna lo scorso anno le Fiamme gialle hanno individuato patrimoni criminali per un valore di mezzo miliardo di euro. Questa ondata di denaro in nero sta intossicando il mercato e stravolgendo le regole della concorrenza, perché i broker delle mafie possono offrire di più e hanno disponibilità illimitate di fondi in nero. E grazie ai loro nuovi alleati insospettabili, i padrini riescono ad arrivare ovunque. Ormai non hanno più bisogno di sparare, perché possono comprare tutto e tutti: aziende, appalti e politici. Nel linguaggio tecnico la Guardia di finanza descrive "uno schema corruttivo più compatto e pervasivo rispetto al passato, costituito da colletti bianchi propensi a un interscambio di risorse su ogni versante e disponibili a entrare in relazione con altre e più aggressive realtà delinquenziali, tra cui quelle mafiose". Pensate allo scenario dell'inchiesta su Armando Siri. Vito Nicastri, figura leader nel settore eolico e solare, è accusato di essere in affari con Matteo Messina Denaro: il più importante capo di Cosa nostra ancora in libertà e ritenuto tra i mandanti dell'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. I magistrati gli hanno sequestrato un impero da 1.200 milioni. E allora Nicastri diventa socio occulto del genovese Paolo Arata, ex parlamentare e consigliere per l'energia dei vertici della Lega, che va a incontrarlo pure agli arresti domiciliari. Arata a sua volta manovra per influire sulle nomine di governo e poi chiede al sottosegretario Siri una legge su misura per le sue attività siciliane. Tutti si sono dichiarati innocenti: la rilevanza penale di questi fatti dovrà essere valutata nei processi. Siamo però davanti alla radiografia di un meccanismo micidiale. Che non solo sta devastando la concorrenza imprenditoriale ma mette a rischio le regole della nostra democrazia.
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