A lato. Milano, 23 di marzo 1919, piazza San Sepolcro: adunata per la fondazione dei Fasci di combattimento.
Tratto da “Il
fascismo è ancora vivo dentro di noi” di Antonio Scurati, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 23 di marzo 2019: Noi siamo stati fascisti. Gli
italiani sono stati fascisti. Il genus italico ha generato il fascismo. Di più:
il fascismo è stato una delle potenti invenzioni (o innovazioni, se preferite)
italiane del Ventesimo secolo, che dall’Italia si è propagata in Europa e nel
mondo. Non suonino come provocazione queste parole. So bene che non tutti gli
italiani sono stati fascisti e che molti – non moltissimi, purtroppo – sono
stati antifascisti anche durante il ventennio.
La mia affermazione è perentoria perché, in anni di studio e scrittura sull’argomento, mi sono convinto che sia giunto il tempo di un allargamento della coscienza civile, di una nuova, più ampia, più consapevole, più veritiera narrazione dell’identità nazionale. (…). L’identità nazionale italiana repubblicana si è fondata su una narrazione edificante, su un meccanismo d’identificazione positiva, su una memoria della gloriosa Resistenza antifascista (della realtà e del suo mito). Per cinquant’anni ci siamo raccontati di discendere dai partigiani della montagna. È stato giusto che così fosse, è stato necessario. Non a caso, la festa di questa identificazione positiva è sempre stata - e dovrà continuare a essere - il 25 aprile, giorno della Liberazione. Questa narrazione ha, però, comportato una rimozione: la nostra discendenza dal fascismo è stata parzialmente obliata, il lato oscuro della forza è stato proiettato ai margini della nostra coscienza storica. Per questo motivo la data fatidica del 23 marzo, (…), è stata cancellata dalla memoria collettiva. La rimozione si è spinta fino a inghiottire la toponomastica, fino all’abrasione dei marmi che segnalano i nomi delle strade d’Italia. In piazza San Sepolcro a Milano, tabelloni didattici ricordano che fu foro romano e luogo di culto cristiano ma non un solo segno indica che in quella piazza elegante e sonnacchiosa nacque il fascismo. Ebbene, cento anni dopo è giunto il tempo di togliere l’interdizione alla narrazione del fascismo, di completare la coscienza nazionale con la consapevolezza di essere stati fascisti. Dobbiamo ricordare che esattamente cento anni fa in Piazza San Sepolcro a Milano, di fronte a una platea di pochi, deliranti partecipanti, un politico sbandato alla ricerca di una strada fondò i Fasci di combattimento. Dobbiamo conoscere la storia di quella piccola accozzaglia di reduci, facinorosi, delinquenti, sindacalisti incendiari e gazzettieri disperati, professionisti della violenza e artisti, i quali – guidati da un leader pronto a ogni tradimento, a ogni nefandezza, pronto a scommettere sul peggio e a vincere la scommessa, pur partendo da un numero infimo e da una devastante sconfitta elettorale – nell’arco di soli tre anni conquistarono il potere. Gli italiani devono sapere che - contrariamente alla leggenda nostalgica secondo cui il fascismo sarebbe precipitato nell’abiezione soltanto alla fine della sua traiettoria, con le leggi razziali e la guerra - quegli uomini fecero sistematicamente uso di una violenza brutale come strumento di lotta politica fin dal principio, che quella del fascismo è storia di sopraffazione, ma devono anche sapere che quei violenti poterono prevalere grazie all’ignavia di molti, al bieco calcolo opportunistico dei liberali e di una monarchia indegna, alla voracità di una classe politica sfinita, alla visionaria inconsistenza dei dirigenti socialisti. Infine, ma soprattutto, dobbiamo conoscere, e saper riconoscere quando si ripresenti, l’innovazione dirompente nel linguaggio della politica che il fascismo rappresentò, la seduzione potente che esercitò sul rancore diffuso nella piccola borghesia che, a torto o a ragione, si sentiva delusa dalle promesse della storia, tradita dalla casta politica, declassata dalle conseguenze di una crisi epocale, minacciata nelle sue poche certezze e nei suoi piccoli possedimenti da un “invasore” straniero (i socialisti dipinti dalla propaganda fascista come portatori della “peste asiatica” perché seguaci della rivoluzione russa). Sto proponendo una riabilitazione, una revisione, una memoria condivisa? Al contrario. Sto affermando che, se nel dopoguerra fu necessaria la narrazione edificante e ideologica della Resistenza, oggi lo è poter raccontare Mussolini e il fascismo senza pregiudiziale ideologica, senza remore e senza sconti (per nessuno). Questa maturità intellettuale deve oggi essere raggiunta, non solo da pochi storici di professione, ma da tutti noi. Dobbiamo maturare fino al punto di poter riconoscere che i fascisti delle origini furono affascinanti e sciagurati, che Benito Mussolini creò l’archetipo del leader che guida un popolo non precedendolo verso mete elevate ma seguendone gli umori più cupi, capace di prosperare su passioni tristi, sul caos, sullo smarrimento, capace di fare leva su ottime ragioni ma convertendole sistematicamente in torti. Dobbiamo fare questo salto di coscienza civile per rinnovare le ragioni dell’antifascismo, che sono, semplicemente, quelle della democrazia, del progresso, dell’uguaglianza, della convivenza civile. Oggi, cento anni dopo, possiamo riappropriarci della storia del fascismo come segno del fatto che non le apparteniamo più. Non nel timore che si ripeta, perché non si ripeterà. È vano – talvolta anche un po’ ridicolo – inalberare quotidianamente la bandiera dell’antifascismo militante. Molto più utile, e serio, tenere ben alta la bandiera di una matura democrazia, addestrandosi a riconoscere le continue metamorfosi storiche della pulsione antidemocratica.
La mia affermazione è perentoria perché, in anni di studio e scrittura sull’argomento, mi sono convinto che sia giunto il tempo di un allargamento della coscienza civile, di una nuova, più ampia, più consapevole, più veritiera narrazione dell’identità nazionale. (…). L’identità nazionale italiana repubblicana si è fondata su una narrazione edificante, su un meccanismo d’identificazione positiva, su una memoria della gloriosa Resistenza antifascista (della realtà e del suo mito). Per cinquant’anni ci siamo raccontati di discendere dai partigiani della montagna. È stato giusto che così fosse, è stato necessario. Non a caso, la festa di questa identificazione positiva è sempre stata - e dovrà continuare a essere - il 25 aprile, giorno della Liberazione. Questa narrazione ha, però, comportato una rimozione: la nostra discendenza dal fascismo è stata parzialmente obliata, il lato oscuro della forza è stato proiettato ai margini della nostra coscienza storica. Per questo motivo la data fatidica del 23 marzo, (…), è stata cancellata dalla memoria collettiva. La rimozione si è spinta fino a inghiottire la toponomastica, fino all’abrasione dei marmi che segnalano i nomi delle strade d’Italia. In piazza San Sepolcro a Milano, tabelloni didattici ricordano che fu foro romano e luogo di culto cristiano ma non un solo segno indica che in quella piazza elegante e sonnacchiosa nacque il fascismo. Ebbene, cento anni dopo è giunto il tempo di togliere l’interdizione alla narrazione del fascismo, di completare la coscienza nazionale con la consapevolezza di essere stati fascisti. Dobbiamo ricordare che esattamente cento anni fa in Piazza San Sepolcro a Milano, di fronte a una platea di pochi, deliranti partecipanti, un politico sbandato alla ricerca di una strada fondò i Fasci di combattimento. Dobbiamo conoscere la storia di quella piccola accozzaglia di reduci, facinorosi, delinquenti, sindacalisti incendiari e gazzettieri disperati, professionisti della violenza e artisti, i quali – guidati da un leader pronto a ogni tradimento, a ogni nefandezza, pronto a scommettere sul peggio e a vincere la scommessa, pur partendo da un numero infimo e da una devastante sconfitta elettorale – nell’arco di soli tre anni conquistarono il potere. Gli italiani devono sapere che - contrariamente alla leggenda nostalgica secondo cui il fascismo sarebbe precipitato nell’abiezione soltanto alla fine della sua traiettoria, con le leggi razziali e la guerra - quegli uomini fecero sistematicamente uso di una violenza brutale come strumento di lotta politica fin dal principio, che quella del fascismo è storia di sopraffazione, ma devono anche sapere che quei violenti poterono prevalere grazie all’ignavia di molti, al bieco calcolo opportunistico dei liberali e di una monarchia indegna, alla voracità di una classe politica sfinita, alla visionaria inconsistenza dei dirigenti socialisti. Infine, ma soprattutto, dobbiamo conoscere, e saper riconoscere quando si ripresenti, l’innovazione dirompente nel linguaggio della politica che il fascismo rappresentò, la seduzione potente che esercitò sul rancore diffuso nella piccola borghesia che, a torto o a ragione, si sentiva delusa dalle promesse della storia, tradita dalla casta politica, declassata dalle conseguenze di una crisi epocale, minacciata nelle sue poche certezze e nei suoi piccoli possedimenti da un “invasore” straniero (i socialisti dipinti dalla propaganda fascista come portatori della “peste asiatica” perché seguaci della rivoluzione russa). Sto proponendo una riabilitazione, una revisione, una memoria condivisa? Al contrario. Sto affermando che, se nel dopoguerra fu necessaria la narrazione edificante e ideologica della Resistenza, oggi lo è poter raccontare Mussolini e il fascismo senza pregiudiziale ideologica, senza remore e senza sconti (per nessuno). Questa maturità intellettuale deve oggi essere raggiunta, non solo da pochi storici di professione, ma da tutti noi. Dobbiamo maturare fino al punto di poter riconoscere che i fascisti delle origini furono affascinanti e sciagurati, che Benito Mussolini creò l’archetipo del leader che guida un popolo non precedendolo verso mete elevate ma seguendone gli umori più cupi, capace di prosperare su passioni tristi, sul caos, sullo smarrimento, capace di fare leva su ottime ragioni ma convertendole sistematicamente in torti. Dobbiamo fare questo salto di coscienza civile per rinnovare le ragioni dell’antifascismo, che sono, semplicemente, quelle della democrazia, del progresso, dell’uguaglianza, della convivenza civile. Oggi, cento anni dopo, possiamo riappropriarci della storia del fascismo come segno del fatto che non le apparteniamo più. Non nel timore che si ripeta, perché non si ripeterà. È vano – talvolta anche un po’ ridicolo – inalberare quotidianamente la bandiera dell’antifascismo militante. Molto più utile, e serio, tenere ben alta la bandiera di una matura democrazia, addestrandosi a riconoscere le continue metamorfosi storiche della pulsione antidemocratica.
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