Tratto da “Marx
non è morto”, colloquio di Wlodek Goldkorn con Donatella Di Cesare –
docente di Filosofia teoretica presso l’Università La Sapienza di Roma – pubblicato
sul settimanale L’Espresso del 24 di febbraio 2019: (…). Cominciamo dall'inizio. A
trent'anni dalla caduta del socialismo reale Marx è tomato. «Nel corso degli
anni Ottanta e Novanta gli scritti di Marx non erano del tutto dimenticati; se
ne occupavano, però, soprattutto gli specialisti. Oggi viene riscoperto perché
siamo rimasti per decenni ostaggio di un discorso che non permetteva di vedere
il capitalismo da "fuori", prigionieri della logica per cui il
capitalismo è il capitolo definitivo della storia senza possibilità di appello,
e senza la capacità di immaginarsi altro che il perpetrarsi dello status quo.
Marx può aiutarci a guardare oltre il capitalismo. Mi piace parlare in tal
senso di un Marx quasi profetico, un profeta ultramoderno».
Era profetico, eppure ossessivamente seguiva la politica quotidiana. Scriveva commenti e corrispondenze su "New York Daily Tribune" (più tardi "Herald Tribune"). Commentava le elezioni inglesi, appoggiava i polacchi nella lotta contro i russi, si appassionava alla Guerra di Crimea. In quegli articoli si mostrava come un osservatore molto pragmatico della vita politica. «Sì, ma la dimensione pragmatica dei suoi scritti è sempre intrecciata con la dimensione speculativa-filosofica».
Di questa dimensione concreta resta qualcosa
di importante, o dobbiamo constatare che lo faceva per guadagnare denaro, per
non essere interamente dipendente dall'aiuto finanziario di Engels? «Delle
analisi contingenti non resta poi troppo. Resta invece la sua analisi sulla
misera condizione dei lavoratori, una miseria non solo economica, ma anche
umana. Marx punta l'indice contro l'infamia del capitale che riduce tutto a
merce e rende estraneo l'essere umano persino alla sua umanità. II denaro
divinizzato diventa l'anima del mondo. Parlando dell attualità di Marx vorrei
dire che fino a pochi decenni fa era visto
come il pensatore che, insieme ad Engels, aveva posto le fondamenta di
quello che si suole chiamare `socialismo scientifico"».
Una definizione sovietica, che cercava di
costruire un'ortodossia, togliendo ogni elemento tragico. «Non parlerei di "tragico" a
proposito di Marx, che è invece un pensatore apocalittico. Nelle sue analisi
risuona il fragore di una catastrofe apocalittica che è perciò anche
rigenerativa. Detto questo: nell'idea del "socialismo scientifico"
era insita la convinzione per cui, un giorno, ineluttabilmente, il proletariato
avrebbe conquistato il potere e i rapporti di produzione capitalistici
sarebbero stati superati. Era un modo deterministico di vedere la storia,
concepita come Storia del progresso. Marx veniva letto con le lenti
progressiste. E questo perché era egemone il mito del progresso appunto, un
mito che abbiamo interiorizzato. Eravamo convinti che le condizioni
dell'umanità andavano migliorando. E in quest'ottica leggevamo Marx».
E invece... «Invece, la questione è più
complessa. Certo, Marx che, non si deve dimenticare, era allievo di Hegel,
guardava alla storia nel suo andamento dialettico. Però, nel suo pensiero è
fondamentale il rifiuto di un concetto che definirei come "progressismo
lineare", ingenuo, che considera ogni stadio della civiltà superiore a
quello precedente. A Marx non sfugge invece il carattere contraddittorio del
progresso. Per molti versi l'operaio che lavora in fabbrica vive molto peggio
del contadino nella vecchia comune rurale. Il che non significa essere
nostalgici di quellepoca, ma guardare criticamente la "civiltà". Per
Marx la storia non è un cammino rettilineo, bensì un processo pieno di
improvvise svolte, interruzioni, retromarce. Noi oggi non possiamo non
riconoscerlo. Basti un solo esempio: il cambiamento dimatico, risultato dello
sviluppo capitalistico-industriale, mostra con evidenza che il mito del
progresso, come si poteva intendere qualche decennio fa, non regge più».
Sta dicendo che Marx è sopravvissuto al
crollo del mito del progresso? E il suo pensiero ha una valenza enorme proprio
perché noi tutti siamo dei sopravvissuti alla fine di un mondo? «Sì. Ma
attenzione, Marx è rimasto sempre sullo sfondo. E ora, mentre dobbiamo
constatare che la storia non va come credevamo, lo riscopriamo».
Marx ci piace perché non era un
socialdemocratico? «Questo però è un altro discorso. Magari lo riprenderò se
avremo modo di parlare di Walter Benjamin. Marx pensava a un balzo, un salto
messianico su un abisso altrimenti inspiegabile. E l'impossibile che irrompe
nella storia per mutarne il corso. Un'idea ebraica, quella dell'interruzione
del tempo. Questo ce lo fa sentire così affascinante oggi, ai tempi della
dittatura del reale, del concreto, del contingente».
Alla dittatura del contingente, torneremo.
Intanto, il grande teorico della letteratura George Steiner disse una volta che
Marx era interprete di un ebraismo impaziente. Non aveva cioè la pazienza di
attendere l'avvento del Messia. Ora il Messia, nell'ebraismo è anche una figura
politica e Marx era discendente dei rabbini, seppur di una famiglia convertita
al cristianesimo. «Certo, c'è un'impazienza messianica in Marx. Nel suo
ossessivo interesse per la politica guarda alle condizioni per la rivoluzione.
Speranza e delusione si alternano, in particolare prima per gli eventi del
1848».
In Francia finì, anziché con la
rigenerazione, con il colpo di Stato autoritario, su cui aveva scritto "Il
18 brumaio di Luigi Bonaparte". In quel pamphlet dice che gli uomini fanno
la storia con i materiali che trovano, in maschere del passato, e anche che
nessuna Costituzione può garantire la libertà quando un leader si rivolge
direttamente al popolo. «Ma sempre in Francia, la Comune di Parigi del 1871 è
per Marx un evento chiave. ?Analizza con perspicacia la vicenda, esalta quello
che lui chiama l'autogoverno dei produttori", ammira la costituzione
comunarda che rende superfluo lo Stato, un'escrescenza parassitaria. Potrei
dire che in quell'occasione emerge un Marx vicino a Bakunin, un Marx anarchico.
Di fronte alla Comune, entusiasta, proclama: «Questo è comunismo, "impossibile"
comunismo». Vale la pena qui sottolineare che per Marx il comunismo è, e resta,
un concetto filosofico, legato al comune, alla comunanza, alla comunità, un
concetto imprescindibile e incancellabile da qualsiasi realizzazione politica.
Dopo l'eccidio dei comunardi giunse l'ennesima delusione. Ma lui, nelle sue
fumose stanze londinesi, seguendo gli eventi politici in tutti i paesi,
leggendoli con il suo occhio apocalittico, continuò a scrutare nella
irragionevolezza della storia per scoprire anzitempo i segnali che avrebbero
portato sino all'ultimo salto, nel regno della libertà. Ecco l'impazienza
messianica».
Possiamo introdurre un altro elemento? Ha
parlato di Walter Benjamin, a cui accenna nel suo libro "Sulla vocazione
politica della filosofia", interprete di un Marx eretico, paradossalmente
eretico a se stesso e al mito del progresso. Per Benjamin il passato non è mai
un capitolo chiuso, ma può essere riaperto. Nel pensiero rabbinico esiste il
concetto della Teshuvah, il pentimento sincero, in grade di riaprire e
modificare il passato. Aggiungiamo che oggi abbiamo l'impressione che il tempo
sia stato abolito e viviamo in un eterno presente. «Il capitalismo ci condanna
alla reiterazione del presente, un presente che si dilata, cancella il passato
e chiude il futuro. La chiusura al futuro è un fatto politico decisivo ed è il
risultato del discredito in cui il liberalismo ha gettato l'utopia, perché
l'utopia porterebbe sempre al totalitarismo. Così, non appena si tenti di
guardare oltre il liberalismo, si viene tacciati di essere totalitari».
Per Benjamin la razionalità non basta per
rovesciare la logica del capitalismo. E poi, resta inevasa la domanda su come
riaprire il passato. «Per Benjamin viviamo in una sorta di sonnambulismo in cui
ci vengono dettati anche i sogni, che però si rivelano incubi. È per questo che
Benjamin sostiene l'esigenza del risveglio. Ma risveglio in che senso?
Risveglio della ragione, come direbbe un illuminista? No. La ragione è quella
che ha portato al predominio della tecnica e, in fin dei conti, ad Auschwitz.
Certo, Benjamin muore nel 1940, suicida ben prima di questo epilogo, ma avverte
già l'incombere dello sterminio. Il risveglio a cui fa appello è il risveglio
ai sogni dimenticati, rimossi, cancellati. A cominciare dai sogni del passato
sognati dagli sconfitti della storia, dalle nostre madri e dai nostri padri.
Dalle generazioni che attendono un riscatto. Perciò Benjamin dice che noi siamo
attesi nella storia che a ciascuno di noi spetta un potenziale messianico che
non dobbiamo dissipare. Abbiamo bisogno del riscatto del passato, guardando al
futuro».
I sogni dimenticati ci aiutano a resistere? «Sì.
Ma anche quelli che Benjamin chiama "Denkbilder", non semplici
fantasticherie, ma immagini utopiche, ideali critici che mirano a trasfigurare
l'immaturità del reale. Potremmo dire che queste immagini, che scaturiscono dal
dolore per un ordine insensato risvegliano la nostalgia per ciò che è giusto. È
questa la lezione di Benjamin come interprete di Marx. Prima lei faceva riferimento
alla socialdemocrazia. Ecco, Benjamin definisce la socialdemocrazia "un
brutto poema primaverile", il prodotto di un ottimismo da dilettanti, di
un riformismo liberale che rimuove il tratto apocalittico della storia. E
invece è importante il pessimismo, il pessimismo organizzato. La sinistra ha
per Benjamin il compito di organizzare il pessimismo»
Zygmunt Bauman diceva che viviamo in un mondo
in frammenti. Compito quin Un ritratto di Karl Marx di della sinistra è
rimettere insieme i cocci, ridare un senso? «È decisiva l'idea della
ricomposizione. C'è una bella parola ebraica, Tikkùn, che significa riparazione
del mondo. Non può esserci mutamento nel futuro senza questa ricomposizione,
questo riscatto del passato».
Torniamo all'attualità, per modo di dire.
Marx ragionava in termini di un mondo globale, un quadro che ci viene invece
precluso dalla narrazione sovranista dominante. «Non solo Marx. Tutta la
tradizione della sinistra ha sempre analizzato gli eventi in un'ottica
mondiale, di raro nazionale, o peggio, nazionalistica. L'idea che debba
prevalere l'interesse di un proletariato nazionale, francese o italiano, non è
mai stata di sinistra. La sinistra è internazionalista o non è».
E il proletariato cosa è diventato oggi? II
migrante? «Per Marx il proletariato è una classe "con catene
radicali", un ceto su cui viene esercitata non una"ingiustizia
particolare", bensì "l'ingiustizia senz'altro", la completa
perdita dell'umanità. I suoi dolori sono universali, universale è il ruolo che
può svolgere. Sarebbe sbagliato vedere nel proletariato solo la massa concreta
dei proletari, perché è piuttosto una forza storica. Questo punto è molto
importante oggi che l'aristocrazia operaia di una volta quasi non esiste più.
Quali sono allora i protagonisti del cambiamento? Coloro a cui è affidata
l'organizzazione del pessimismo? Sul migrante si esercitano due discriminazioni
che si saldano in modo inedito, quella di «razza» e quella di «classe». Non è
un nemico, è un alleato. L’alleanza degli sconfitti è ampia: comprende i
calpestati, gli infimi, i disoccupati, i senza-stato, i rifugiati, le scorie
della globalizzazione, le donne. Guardiamo allora con fiducia a un
essere-insieme per la giustizia, questo vuol dire etimologicamente sindacato,
("sin", in greco insieme, e "dike" giustizia) di questa
alleanza che deve essere articolata e stretta».
Nessun commento:
Posta un commento