Tratto da “Quell’idea
dominante” di Franco Cordero, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del
18 di marzo dell’anno 2015: Corre voce che l’Italia, soggetto politico,
goda d’una stella fortunosamente buona. Adolf Hitler la nomina domenica 7
dicembre 1941 nella Tana del Lupo: fallita l’offensiva su Mosca, l’aggressore
rischia un’irrimediabile disfatta; l’umore è cupo tra i commensali ma a
mezzanotte irrompe l’addetto stampa Heinz Lorenz; una radio americana ha
annunciato l’attacco giapponese a Pearl Harbour. «The turning point», la
svolta, esclama il Führer (in tedesco, è monoglotta), e uscendo dal Bunker nel
gelo della foresta, porta la notizia ai tirapiedi Keitel e Jodl (morranno
impiccati a Norimberga). Ormai è impossibile perdere questa guerra. Il Reich ha
due alleati: in tremila anni il Sol Levante non ha mai subito sconfitte; e
l’Italia le incassa sistematicamente ma alla fine siede tra i vincitori (David
Irving, Hitler’s War 1939-4-2, Macmillan, London 1977, 352). Tale massima
trovava conferme nella storia otto-novecentesca. Le Parche diranno fin dove
viga ancora. Non è motivo d’orgoglio che gli ultimi ventun anni abbiano la figura
egemone in un titano d’arti fraudolente: solo lui e pochi intimi sanno
l’origine dei primi miliardi; poi favori venali gli portano un impero
mediatico; monopolista delle televisioni commerciali, plagia le platee
corrompendo pensiero, sentimenti, gusto (un’epidemia italiana, cinque secoli
dopo i morbi ispanico e gallico). Caduti i protettori, raccoglie l’eredità
fingendosi uomo nuovo. La sua fortuna sta negli avversari dalle ginocchia
molli: avendo vinto (aprile 1996), gli garantiscono sotto banco le aziende,
arnesi d’un colossale conflitto d’interessi, e lo riqualificano come partner
d’una commissione chiamata a rifondare lo Stato nelle norme fondamentali; muore
ignobilmente sabotato ab intra un secondo governo del centrosinistra, 1996-98.
Ha dalla sua il Quirinale: Giorgio Napolitano predica «larghe intese», ossia
apporti subalterni alla politica governativa; e gli presta manforte nella
ricerca d’una impensabile immunità giudiziaria. Qui l’astrologo vede influssi
celesti: saremmo una monarchia caraibica se l’Olonese, stravinte le elezioni
(aprile 2008), non portasse l’Italia a due dita dalla bancarotta, costretto
quindi a dimettersi (novembre 2011); e sarebbe sparito se fossero sciolte le
Camere, come la congiuntura richiede, senonché Neapolitanus Rex lo salva
ibernandole; aperte finalmente le urne (febbraio 2013), il redivivo sfiora una
quarta vittoria. Moltiplicano l’effetto intrighi notturni nei Ds: l’assemblea
unanime acclama Romano Prodi, candidato al Quirinale; Deo gratias ma 101
elettori ipocriti gli negano il voto; e risale al Colle il patrono delle
«larghe intese», nel segno d’una parentela (Enrico Letta, premier transigente
Ds, è nipote dell’omonimo Gianni, plenipotenziario nei supremi affari
berlusconiani). Le stelle decidono diversamente: arriva in Cassazione uno dei
processi dai quali usciva indenne perdendo tempo, affinché il delitto
s’estinguesse (s’era abbreviato i termini): frode fiscale, quattro anni
inflitti dalla corte d’Appello milanese; e passando in giudicato la condanna,
decade dal Senato. Berlusco furiosus pretende la grazia su due piedi e comanda
ai suoi d’uscire dal governo: stavolta qualcuno disubbidisce invocando
interessi superiori; rinsavito, espia la pena nei servizi sociali. Intanto
sopravviene una mutazione in casa Ds. Malato cronico, perdeva voti ogni volta,
sottomesso al pirata, e dopo avvilenti esperienze era prevedibile che alle
primarie (essendo in palio la direzione politica) il giovane sindaco fiorentino
sbaragliasse vecchi oligarchi nonché juniores professionisti d’una squallida
politica (non basta chiamarsi «giovani turchi»).
Era parola d’ordine disfarsi dei rottami. Dalla segreteria l’occupante critica il governo in pose tra Savonarola e Robespierre: viene dai boy-scouts, campione d’oratorio e politicante precoce; inter alia vanta un ragguardevole successo alla Ruota della Fortuna, ordalia televisiva su Canale 5. Punta alla premiership e la via giusta sarebbe sciogliere le Camere, in cerca d’uno schieramento elettorale meno diviso, ma è dogma quirinalesco che restino quali sono, imponendo accordi a destra. Matteo Renzi presidente del Consiglio sceglie a colpo sicuro il partner d’un programma governativo: confabula con Berlusco Magnus nel Nazareno, santuario Ds; e spira «profonda sintonia». Non ha ripulsioni ideologiche né etiche: da allora il Sire d’Arcore fornisce voti al governo; ed è presumibile che il legame empatico includa interessi Mediaset. S’è formata una quasi diarchia. Saltano agli occhi profonde differenze ma non è pura fantasia che l’ex boy-scout capti l’elettorato sul quale sinora regnava divus Berlusco, ormai fallito nel sogno del partito unico. Emergono due punti: primo, il disinganno tra quanti investivano fiducia nel sindaco fiorentino contro le mummie transigenti; secondo, che almeno altrettanti lo guardino dall’area moderata, ma conversioni simili implicano il patronato d’interessi incompatibili con un partito vagamente orientato a sinistra. Sinora il funambolo evitava scelte traumatiche (appariva dubbio il senso dell’avere virtuosamente sostenuto la candidatura Mattarella: contro, complottavano esponenti della minoranza Ds; ed era certamente malvista dai berluscones). La conclusione suona ovvia: l’Italia sarebbe affossata da un partito dominante che lasci le cose quali sono; modificarle significa colpire corruttori, corrotti, parassiti, evasori fiscali, una criminalità infiltrata nello Stato. Partita ardua. (…).
Era parola d’ordine disfarsi dei rottami. Dalla segreteria l’occupante critica il governo in pose tra Savonarola e Robespierre: viene dai boy-scouts, campione d’oratorio e politicante precoce; inter alia vanta un ragguardevole successo alla Ruota della Fortuna, ordalia televisiva su Canale 5. Punta alla premiership e la via giusta sarebbe sciogliere le Camere, in cerca d’uno schieramento elettorale meno diviso, ma è dogma quirinalesco che restino quali sono, imponendo accordi a destra. Matteo Renzi presidente del Consiglio sceglie a colpo sicuro il partner d’un programma governativo: confabula con Berlusco Magnus nel Nazareno, santuario Ds; e spira «profonda sintonia». Non ha ripulsioni ideologiche né etiche: da allora il Sire d’Arcore fornisce voti al governo; ed è presumibile che il legame empatico includa interessi Mediaset. S’è formata una quasi diarchia. Saltano agli occhi profonde differenze ma non è pura fantasia che l’ex boy-scout capti l’elettorato sul quale sinora regnava divus Berlusco, ormai fallito nel sogno del partito unico. Emergono due punti: primo, il disinganno tra quanti investivano fiducia nel sindaco fiorentino contro le mummie transigenti; secondo, che almeno altrettanti lo guardino dall’area moderata, ma conversioni simili implicano il patronato d’interessi incompatibili con un partito vagamente orientato a sinistra. Sinora il funambolo evitava scelte traumatiche (appariva dubbio il senso dell’avere virtuosamente sostenuto la candidatura Mattarella: contro, complottavano esponenti della minoranza Ds; ed era certamente malvista dai berluscones). La conclusione suona ovvia: l’Italia sarebbe affossata da un partito dominante che lasci le cose quali sono; modificarle significa colpire corruttori, corrotti, parassiti, evasori fiscali, una criminalità infiltrata nello Stato. Partita ardua. (…).
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