Tratto da “Dollari
& Petrolio: perché l’America azzanna Caracas” di Pino Arlacchi,
pubblicato su "il Fatto Quotidiano" del 9 di marzo 2019: (…). Secondo
l’ex Direttore dell’ FBI, McCabe, Trump ha dichiarato nel 2017 che era venuto
il tempo di muovere guerra al Venezuela. E non per soccorrere il suo popolo
affamato dal malgoverno comunista, ma perché “è pieno di tutto quel petrolio e
sta nel nostro cortile di casa”. Lo stesso Trump aveva criticato Obama nel 2011
perché si era fatto fregare a non pretendere metà del petrolio libico in cambio
della collaborazione degli USA al rovesciamento di Gheddafi. Il fattore
petrolio convince più di quello “comunista” per spiegare la foga
antivenezuelana dello Zio Sam. Essa si sarebbe scatenata anche contro un
governo di colore politico diverso, se risoluto ad esercitare la sua piena
sovranità sulle proprie risorse naturali. Ma il quadro va completato mettendo
in luce un ulteriore, poco conosciuta, matrice di ostilità: la sfida all’egemonia
del dollaro lanciata da Chavez-Maduro proprio all’alba di un processo di de-dollarizzazione
dell’economia mondiale. La decisione del Venezuela di evitare l’uso del dollaro
nelle compravendite di petrolio, e di creare un sistema di scambi con l’estero,
il Sucre, basato su una criptomoneta, il Petro, garantita dal suo petrolio e da
altre risorse, ha toccato il nervo scoperto della finanza americana. E ne ha
scatenato la collera. Il dollaro, infatti, è l’ultimo pilastro della potenza
americana visto che l’altro, il possesso della forza armata più temibile del
pianeta, ha fatto fiasco quasi ovunque dal Vietnam in poi ed è diventato fonte
di indebitamento e di discordia con alleati e clienti. L’ipersensibilità del
capitale finanziario che domina gli Stati Uniti verso ogni minaccia, anche in
fieri, al suo sistema nervoso centrale composto di biglietti verdi, è
comprensibile. E ciò perché il dollaro - nonostante sembri godere di ottima salute,
rimanendo il mezzo di pagamento e il bene rifugio di gran lunga più importante
del mondo - è insidiato ogni giorno di più da una sfida che ha iniziato ad
animare le relazioni internazionali.
L’attacco alla sua centralità è palese da parte russa e iraniana, semi-coperta da parte della Cina e del gruppo dei paesi BRICS, ed è sottintesa nel caso dell’Unione europea, titolare dell’ unica alternativa matura al biglietto verde: l’euro. E per questo sorvegliata a vista dagli Stati Uniti. Wall Street, Tesoro e governo USA sono consapevoli che i tempi del tramonto del loro impero dipendono da quelli dell’egemonia del dollaro, e sono pronti ad usare ogni arma per preservarla. Non importa, perciò, quanta strada avrebbe fatto la decisione di Saddam Hussein di usare l’euro invece del dollaro nelle transazioni del petrolio iracheno. O quanto fosse fondato il progetto di Gheddafi di creare una moneta africana per lo stesso scopo. E neppure conta la modestia del volume attuale degli scambi non-dollarizzati tra Cina, Iran, Russia, India e adesso anche Turchia ed Unione Europea. La de-dollarizzazione è un pericolo mortale. I suoi segnali vanno soffocati sul nascere. Come? Nel caso di paesi relativamente marginali e non dotati di armi atomiche, perché disarmati in precedenza dall’ ONU come l’Irak o convinti ad abbandonare i programmi nucleari come la Libia, si può andare per le spicce. L’Irak è stato invaso perché non aveva l’atomica. Nel caso dell’Iran - potenza di medio rango in via di de-dollarizzazione che produce petrolio senza dipenderne integralmente e in grado di acquisire in tempi brevi l’ atomica – occorre più cautela. L’ideale è spingere il paese a disarmare e poi colpirlo e ri-dollarizzarlo. Come si tenta di fare adesso, sempre dal lato USA, ma con il disaccordo del resto del mondo. Contro Russia e Cina c’è poco da fare. Soprattutto ora, dopo che i due paesi hanno sviluppato un’intesa commerciale, politica e militare che rende la somma delle loro “capabilities” (territorio, popolazione, industria, armamenti e tecnologie) superiore a quella degli USA. Ma entrambi sono ancora deboli dal lato finanziario, e non hanno ancora deciso di lanciare una sfida al dollaro congiunta e a tutto campo. La strategia qui consiste nell’isolarli il più possibile, ritardando la nascita di un ordine mondiale multimonetario, dove la valuta americana non può più essere usata come un arma di dominio globale. Quanto all’Unione europea, la minaccia euro alla supremazia del dollaro si è sgonfiata poco dopo la creazione della moneta unica. Il suo peso nelle transazioni globali è sceso dal 30% delle origini al 20% attuale. Per i padroni della finanza mondiale è sufficiente mantenere l’attuale frattura tra UE e Russia perché l’euro resti dove si trova. Questo scenario aiuta a spiegare perché gli Stati Uniti si sono avviati verso la soluzione finale contro un paese che ha avuto l’ardire di sfidarli su tutto, valuta inclusa. Valuta che viene avvolta oggi intorno al collo del Venezuela perché tutti sappiano che dopo la Libia, l’Irak e l’Iran, chi di dollaro ferisce di dollaro rischia di morire.
L’attacco alla sua centralità è palese da parte russa e iraniana, semi-coperta da parte della Cina e del gruppo dei paesi BRICS, ed è sottintesa nel caso dell’Unione europea, titolare dell’ unica alternativa matura al biglietto verde: l’euro. E per questo sorvegliata a vista dagli Stati Uniti. Wall Street, Tesoro e governo USA sono consapevoli che i tempi del tramonto del loro impero dipendono da quelli dell’egemonia del dollaro, e sono pronti ad usare ogni arma per preservarla. Non importa, perciò, quanta strada avrebbe fatto la decisione di Saddam Hussein di usare l’euro invece del dollaro nelle transazioni del petrolio iracheno. O quanto fosse fondato il progetto di Gheddafi di creare una moneta africana per lo stesso scopo. E neppure conta la modestia del volume attuale degli scambi non-dollarizzati tra Cina, Iran, Russia, India e adesso anche Turchia ed Unione Europea. La de-dollarizzazione è un pericolo mortale. I suoi segnali vanno soffocati sul nascere. Come? Nel caso di paesi relativamente marginali e non dotati di armi atomiche, perché disarmati in precedenza dall’ ONU come l’Irak o convinti ad abbandonare i programmi nucleari come la Libia, si può andare per le spicce. L’Irak è stato invaso perché non aveva l’atomica. Nel caso dell’Iran - potenza di medio rango in via di de-dollarizzazione che produce petrolio senza dipenderne integralmente e in grado di acquisire in tempi brevi l’ atomica – occorre più cautela. L’ideale è spingere il paese a disarmare e poi colpirlo e ri-dollarizzarlo. Come si tenta di fare adesso, sempre dal lato USA, ma con il disaccordo del resto del mondo. Contro Russia e Cina c’è poco da fare. Soprattutto ora, dopo che i due paesi hanno sviluppato un’intesa commerciale, politica e militare che rende la somma delle loro “capabilities” (territorio, popolazione, industria, armamenti e tecnologie) superiore a quella degli USA. Ma entrambi sono ancora deboli dal lato finanziario, e non hanno ancora deciso di lanciare una sfida al dollaro congiunta e a tutto campo. La strategia qui consiste nell’isolarli il più possibile, ritardando la nascita di un ordine mondiale multimonetario, dove la valuta americana non può più essere usata come un arma di dominio globale. Quanto all’Unione europea, la minaccia euro alla supremazia del dollaro si è sgonfiata poco dopo la creazione della moneta unica. Il suo peso nelle transazioni globali è sceso dal 30% delle origini al 20% attuale. Per i padroni della finanza mondiale è sufficiente mantenere l’attuale frattura tra UE e Russia perché l’euro resti dove si trova. Questo scenario aiuta a spiegare perché gli Stati Uniti si sono avviati verso la soluzione finale contro un paese che ha avuto l’ardire di sfidarli su tutto, valuta inclusa. Valuta che viene avvolta oggi intorno al collo del Venezuela perché tutti sappiano che dopo la Libia, l’Irak e l’Iran, chi di dollaro ferisce di dollaro rischia di morire.
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