Questa “memoria” risale al
martedì dell’8 di marzo dell’anno 2011. A quel tempo il tristissimo fenomeno
denominato tempo dopo dai media “femminicidio” non toccava le
aberranti dimensioni numeriche di cui oggi siamo annichiliti testimoni. Un imbarbarimento
dei costumi di questi tristissimi tempi che ci sono dati da vivere del quale
riesce difficile dare una esaustiva spiegazione. Non che a quel tempo di morti
violente delle donne non se ne registrassero, ma oggi sembra che la misoginia
sia divenuta una terribile malattia sociale, legata probabilmente anche a
quella evoluzione dei rapporti sociali e personali avviata e consolidata dalla
diffusione del web come mezzo di conoscenza.
Certamente non basterà questa mia molto banale intuizione a dare comprensione del tristissimo fenomeno, sprovvista com’è la mia intuizione di dati scientifici che la avvalorino. E così ci si ritrova – ancora una volta stancamente e più disorientati che mai - a questo 8 di marzo 2019. Scrivevo a quel tempo: Oggi è l’otto di marzo. Come di consueto, stancamente, si festeggiano le donne. Mi chiedo: ma cosa spinge a festeggiare? Sono state le donne - sono e saranno, per quanto tempo ancora non è facile saperlo e dirlo - l’anello debole dei vincoli sociali. A tutte le latitudini. Scriveva giorni addietro Vittorio Zucconi sul quotidiano “la Repubblica” che è di questi giorni la notizia delle riconosciute identità di alcune di quelle povere donne che il 25 di marzo dell’anno 1911 perirono in un immane incendio della fabbrica di camicie "Triangle Shirtwaist" presso la quale erano sfruttate. Si pensi che erano state rinchiuse, dall’esterno, negli angusti ambienti di lavoro e sfruttamento. Due delle donne alle quali è stata restituita in questi giorni una identità precisa erano due sorelle di origine siciliana. Scrive Vittorio Zucconi nel Suo articolo che ha per titolo “L’ultimo rogo delle donne”: (…). La vittima numero 85 sarebbe risultata essere la sorella di una giovane di diciassette anni sepolta in un altro cimitero, sotto una lapide che ricorda misteriosamente «la sorella uccisa», senza altre indicazioni. Da quella tomba, Hirsch (storico ed appassionato di genealogia, che ha condotto le ultime ricerche per una definitiva individuazione della identità di quelle povere ed innocenti vittime n.d.r.) sarebbe risalito a una pronipote ottuagenaria, pensionata in Arizona. Da lei, dai suoi confusi ricordi personali di prozie perdute all'inizio del Novecento, avrebbe scalato l'albero della loro storia e trovato un nome, nell'elenco delle impiegate della Camiceria Triangolo, una scomparsa dopo il 25 marzo 1911. E da lì sarebbe risalito alla tomba del cimitero di Brooklyn, finalmente dando un nome a quei resti: Maria Giuseppina Lauletti. Siciliana di vent' anni. (…). Ed ancora scrive Zucconi: (…) Non c'erano salari fissi né contratti sindacali. Un dollaro, due al giorno, mai di più, per restare entro i costi previsti dai due proprietari della azienda: diciotto dollari ogni dodici camicie, un dollaro e mezzo a camicia. Poche di loro, in quel palazzo di dieci piani a pochi passi da Washington Square, nel cuore del Village, chiamato Asch Building, parlavano inglese e capirono che cosa significasse l'urlo che risuonò alle quattro e quarantacinque di un pomeriggio di primavera 1911, il 25 marzo: «Fire! Fire!». Non che la comprensione immediata dell'allarme avrebbe potuto fare molta differenza per le donne e gli uomini che tagliavano, cucivano, lavavano, stiravano e stendevano le camicie. Lo sweathshop, la fabbrica del sudore, occupava tre piani, tra l'ottavo e il decimo, e l'ottavo era bloccato. Tutte le porte erano chiuse dall'esterno e le lavoranti controllate una per una alla fine del turno, perché non rubassero utensili, forbici, aghi, filo o pezze di prezioso cotone. Il secchio d'acqua che un impiegato della contabilità, William Bernstein, tentò di rovesciare sul focolaio acceso, attingendo all'unico rubinetto funzionante nello stanzone, non avrebbe potuto nulla contro un incendio che trovò, forse per una cicca accesa, nei mucchi di scampoli accatastati sul pavimento, nelle camicie stese ai fili e già asciutte, nel legno del pavimento e dei tavoli, il combustibile ideale.(…).Ecco perché mi domando, angosciato, cosa ci sia da festeggiare per “l’altra metà del cielo”. Da quel 25 di marzo i roghi hanno continuato a bruciare. A bruciare sempre le donne. Se non nella loro fisicità tragica, nel continuo asservimento delle donne in quanto lavoratrici, madri ed amanti. Multifacenti. A quando il prossimo rogo? Che la sostanza delle cose non abbia subito mutamenti significativi e su larga scala ce lo ricorda la graffiante scrittura di Claudia De Lillo, in arte “Elasti”, nella ultima Sua bellissima nota apparsa sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che ha per titolo "Sono una redundancy", nota che di seguito trascrivo nella sua interezza. A nudo, in quella nota, viene messa la condizione delle donne nostre nell’era della finanziarizzazione forzata della economia e della globalizzazione più selvaggia. A meno che non si indossi il prescritto “tubino” d’ordinanza, e praticare la “lap dance”, una miseria morale alla quale tante donne sono destinate per sottrarsi alla miseria globalizzata che si estende come un’incombente assai ombra nera: Ci incontriamo ai giardinetti, sedute casualmente sulla stessa panchina, un pomeriggio, dopo la scuola. Vittime dello sfinente rito all'aria aperta, abbiamo il tipico sguardo della madre afflitta, fisso su un'immonda sabbiera, mentre i nostri figli, lontani dal nostro campo visivo, pendono a testa in giù dallo scivolo. - Piacere. Quanti anni hanno i tuoi bambini? Dove abiti? Che cosa fai, a parte pascolare la prole al parco dalle 16,30 alle 18? -. Sorride, arrossisce, si guarda le scarpe impolverate dalla sabbia dei giardini. Lavora in una multinazionale, spiega, ma soltanto per due settimane ancora. Poi basta. - Mi occupo, anzi mi occupavo dei sistemi informatici. Adesso sono una redundancy -. - Cosa sei? - - Una redundancy, un esubero. Sai, c'è la delocalizzazione e hanno trasferito il mio ufficio -. Per conservare il lavoro avrebbe dovuto spostarsi a Lisbona. Ha due figli, un marito, una casa qui, proprio a due passi dai giardini. - Ho rifiutato il trasferimento e mi hanno licenziata. L'ho saputo oggi -. Sospira, rassegnata. Dice che è normale, che è colpa della crisi, che succede a tanti e che si inventerà qualcosa. Ci salutiamo e, guardandola allontanarsi, mi accorgo che non so come si chiama: presentandosi si è limitata a definire se stessa una redundancy e io, ipnotizzata da quel sostantivo ruvido e crudele, non ho chiesto altro. Ultimamente c'è chi sostiene con crescente insistenza che le donne, creature dotate di inventiva e sfrenata fantasia, con la maternità diventino ancor più creative e feconde. In questi tempi bui c'è chi ci invita a trasformarci in imprenditrici di noi stesse ‘perché così sareste più felici, flessibili e persino più ricche’. Sarà. All'ingresso della scuola elementare, la rappresentante della classe di mio figlio ci comunica, con fare cospiratorio, che il papà di un bambino della seconda B, che chiama genericamente Giovanni anche se non è il suo vero nome, ha perso il lavoro. - Giovanni non potrà più partecipare alle attività scolastiche a pagamento -, annuncia. Già, perché in una scuola in cui mancano carta igienica e maestre, capita che i genitori si tassino per consentire ai bambini di andare in gita al museo di Scienze naturali, o partecipare a un laboratorio di pittura o di musica. Capita che i genitori scelgano il pubblico ma raccolgano 30 euro a testa per arricchire un'offerta didattica squattrinata. Capita anche che i genitori di Giovanni, di Simona o di Andrea quei 30 euro non possano pagarli, perché sono troppi e perché le priorità familiari sono altre e più urgenti. La rappresentante propone di fare una colletta tra i genitori della classe per consentire a Giovanni di partecipare alle gite e ai laboratori. - Fermi tutti! Siamo proprio sicuri? Qualcuno ha chiamato la società in cui lavorava il padre di Giovanni per verificare l'effettivo licenziamento? -, domanda una mamma. - E il modello Isee? E il 730? Qualcuno ha visionato il 730 del papà di Giovanni? Il mondo è pieno di furbi. E io non mi faccio infinocchiare dal papà di un Giovanni qualunque -, prosegue, un fiume in piena, livorosa e diffidente, come un cattivo di un film o una vittima di tempi miseri. Un padre si indigna, una madre annuisce in silenzio. È la crisi, pare. Per colpa della crisi incontri ai giardini una come te, con le scarpe impolverate e lo sguardo perso in una sabbiera, che tende la mano e dice - Piacere, sono una ridondanza -, perché improvvisamente tutto il resto è diventato accessorio, anche il nome. Per colpa della crisi c'è chi non partecipa a una colletta perché ‘no, io, senza una dichiarazione ufficiale di indigenza, i miei due euro non li do a nessuno’, nemmeno a Giovanni che ha sette anni e fa la seconda B. Per colpa della crisi inciampiamo, sempre più spesso, nelle miserie nostre e in quelle altrui.
Certamente non basterà questa mia molto banale intuizione a dare comprensione del tristissimo fenomeno, sprovvista com’è la mia intuizione di dati scientifici che la avvalorino. E così ci si ritrova – ancora una volta stancamente e più disorientati che mai - a questo 8 di marzo 2019. Scrivevo a quel tempo: Oggi è l’otto di marzo. Come di consueto, stancamente, si festeggiano le donne. Mi chiedo: ma cosa spinge a festeggiare? Sono state le donne - sono e saranno, per quanto tempo ancora non è facile saperlo e dirlo - l’anello debole dei vincoli sociali. A tutte le latitudini. Scriveva giorni addietro Vittorio Zucconi sul quotidiano “la Repubblica” che è di questi giorni la notizia delle riconosciute identità di alcune di quelle povere donne che il 25 di marzo dell’anno 1911 perirono in un immane incendio della fabbrica di camicie "Triangle Shirtwaist" presso la quale erano sfruttate. Si pensi che erano state rinchiuse, dall’esterno, negli angusti ambienti di lavoro e sfruttamento. Due delle donne alle quali è stata restituita in questi giorni una identità precisa erano due sorelle di origine siciliana. Scrive Vittorio Zucconi nel Suo articolo che ha per titolo “L’ultimo rogo delle donne”: (…). La vittima numero 85 sarebbe risultata essere la sorella di una giovane di diciassette anni sepolta in un altro cimitero, sotto una lapide che ricorda misteriosamente «la sorella uccisa», senza altre indicazioni. Da quella tomba, Hirsch (storico ed appassionato di genealogia, che ha condotto le ultime ricerche per una definitiva individuazione della identità di quelle povere ed innocenti vittime n.d.r.) sarebbe risalito a una pronipote ottuagenaria, pensionata in Arizona. Da lei, dai suoi confusi ricordi personali di prozie perdute all'inizio del Novecento, avrebbe scalato l'albero della loro storia e trovato un nome, nell'elenco delle impiegate della Camiceria Triangolo, una scomparsa dopo il 25 marzo 1911. E da lì sarebbe risalito alla tomba del cimitero di Brooklyn, finalmente dando un nome a quei resti: Maria Giuseppina Lauletti. Siciliana di vent' anni. (…). Ed ancora scrive Zucconi: (…) Non c'erano salari fissi né contratti sindacali. Un dollaro, due al giorno, mai di più, per restare entro i costi previsti dai due proprietari della azienda: diciotto dollari ogni dodici camicie, un dollaro e mezzo a camicia. Poche di loro, in quel palazzo di dieci piani a pochi passi da Washington Square, nel cuore del Village, chiamato Asch Building, parlavano inglese e capirono che cosa significasse l'urlo che risuonò alle quattro e quarantacinque di un pomeriggio di primavera 1911, il 25 marzo: «Fire! Fire!». Non che la comprensione immediata dell'allarme avrebbe potuto fare molta differenza per le donne e gli uomini che tagliavano, cucivano, lavavano, stiravano e stendevano le camicie. Lo sweathshop, la fabbrica del sudore, occupava tre piani, tra l'ottavo e il decimo, e l'ottavo era bloccato. Tutte le porte erano chiuse dall'esterno e le lavoranti controllate una per una alla fine del turno, perché non rubassero utensili, forbici, aghi, filo o pezze di prezioso cotone. Il secchio d'acqua che un impiegato della contabilità, William Bernstein, tentò di rovesciare sul focolaio acceso, attingendo all'unico rubinetto funzionante nello stanzone, non avrebbe potuto nulla contro un incendio che trovò, forse per una cicca accesa, nei mucchi di scampoli accatastati sul pavimento, nelle camicie stese ai fili e già asciutte, nel legno del pavimento e dei tavoli, il combustibile ideale.(…).Ecco perché mi domando, angosciato, cosa ci sia da festeggiare per “l’altra metà del cielo”. Da quel 25 di marzo i roghi hanno continuato a bruciare. A bruciare sempre le donne. Se non nella loro fisicità tragica, nel continuo asservimento delle donne in quanto lavoratrici, madri ed amanti. Multifacenti. A quando il prossimo rogo? Che la sostanza delle cose non abbia subito mutamenti significativi e su larga scala ce lo ricorda la graffiante scrittura di Claudia De Lillo, in arte “Elasti”, nella ultima Sua bellissima nota apparsa sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che ha per titolo "Sono una redundancy", nota che di seguito trascrivo nella sua interezza. A nudo, in quella nota, viene messa la condizione delle donne nostre nell’era della finanziarizzazione forzata della economia e della globalizzazione più selvaggia. A meno che non si indossi il prescritto “tubino” d’ordinanza, e praticare la “lap dance”, una miseria morale alla quale tante donne sono destinate per sottrarsi alla miseria globalizzata che si estende come un’incombente assai ombra nera: Ci incontriamo ai giardinetti, sedute casualmente sulla stessa panchina, un pomeriggio, dopo la scuola. Vittime dello sfinente rito all'aria aperta, abbiamo il tipico sguardo della madre afflitta, fisso su un'immonda sabbiera, mentre i nostri figli, lontani dal nostro campo visivo, pendono a testa in giù dallo scivolo. - Piacere. Quanti anni hanno i tuoi bambini? Dove abiti? Che cosa fai, a parte pascolare la prole al parco dalle 16,30 alle 18? -. Sorride, arrossisce, si guarda le scarpe impolverate dalla sabbia dei giardini. Lavora in una multinazionale, spiega, ma soltanto per due settimane ancora. Poi basta. - Mi occupo, anzi mi occupavo dei sistemi informatici. Adesso sono una redundancy -. - Cosa sei? - - Una redundancy, un esubero. Sai, c'è la delocalizzazione e hanno trasferito il mio ufficio -. Per conservare il lavoro avrebbe dovuto spostarsi a Lisbona. Ha due figli, un marito, una casa qui, proprio a due passi dai giardini. - Ho rifiutato il trasferimento e mi hanno licenziata. L'ho saputo oggi -. Sospira, rassegnata. Dice che è normale, che è colpa della crisi, che succede a tanti e che si inventerà qualcosa. Ci salutiamo e, guardandola allontanarsi, mi accorgo che non so come si chiama: presentandosi si è limitata a definire se stessa una redundancy e io, ipnotizzata da quel sostantivo ruvido e crudele, non ho chiesto altro. Ultimamente c'è chi sostiene con crescente insistenza che le donne, creature dotate di inventiva e sfrenata fantasia, con la maternità diventino ancor più creative e feconde. In questi tempi bui c'è chi ci invita a trasformarci in imprenditrici di noi stesse ‘perché così sareste più felici, flessibili e persino più ricche’. Sarà. All'ingresso della scuola elementare, la rappresentante della classe di mio figlio ci comunica, con fare cospiratorio, che il papà di un bambino della seconda B, che chiama genericamente Giovanni anche se non è il suo vero nome, ha perso il lavoro. - Giovanni non potrà più partecipare alle attività scolastiche a pagamento -, annuncia. Già, perché in una scuola in cui mancano carta igienica e maestre, capita che i genitori si tassino per consentire ai bambini di andare in gita al museo di Scienze naturali, o partecipare a un laboratorio di pittura o di musica. Capita che i genitori scelgano il pubblico ma raccolgano 30 euro a testa per arricchire un'offerta didattica squattrinata. Capita anche che i genitori di Giovanni, di Simona o di Andrea quei 30 euro non possano pagarli, perché sono troppi e perché le priorità familiari sono altre e più urgenti. La rappresentante propone di fare una colletta tra i genitori della classe per consentire a Giovanni di partecipare alle gite e ai laboratori. - Fermi tutti! Siamo proprio sicuri? Qualcuno ha chiamato la società in cui lavorava il padre di Giovanni per verificare l'effettivo licenziamento? -, domanda una mamma. - E il modello Isee? E il 730? Qualcuno ha visionato il 730 del papà di Giovanni? Il mondo è pieno di furbi. E io non mi faccio infinocchiare dal papà di un Giovanni qualunque -, prosegue, un fiume in piena, livorosa e diffidente, come un cattivo di un film o una vittima di tempi miseri. Un padre si indigna, una madre annuisce in silenzio. È la crisi, pare. Per colpa della crisi incontri ai giardini una come te, con le scarpe impolverate e lo sguardo perso in una sabbiera, che tende la mano e dice - Piacere, sono una ridondanza -, perché improvvisamente tutto il resto è diventato accessorio, anche il nome. Per colpa della crisi c'è chi non partecipa a una colletta perché ‘no, io, senza una dichiarazione ufficiale di indigenza, i miei due euro non li do a nessuno’, nemmeno a Giovanni che ha sette anni e fa la seconda B. Per colpa della crisi inciampiamo, sempre più spesso, nelle miserie nostre e in quelle altrui.
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