Tratto da “I fotografi da cerimonia” di Giacomo Papi, pubblicato sul
settimanale “D” del 10 di marzo dell’anno 2012: Uno era zoppo. Si presentava alle
sessioni di laurea con la macchina fotografica a tracolla e scattava, discreto
come un falco. Un altro aveva il codino. Si vedeva che aveva avuto sogni rock,
invece si guadagnava da vivere in provincia con i matrimoni. Alle giostre, da
bambino, ce n'era uno grasso. Forse è lo stesso che nel 1971 mi ha fotografato a
cavallo di un pony in bianco e nero. Avere una foto triste sul pony è uno dei
pochi diritti universali rimasti. Apparivano ovunque i fotografi di
professione. D'estate battevano le spiagge, d'inverno immortalavano la buona
società in abito da sera a teatro. Qualche giorno dopo gli scatti comparivano
nelle vetrine dei foto-ottica. Per più di cent'anni i fotografi hanno avuto la
funzione di fissare i momenti importanti della vita - battesimi, comunioni,
foto di classe, lunapark, giostre, lauree, funerali - appostandosi nei luoghi
in cui gli istante potevano diventare memorabili. All'ultima festa a cui sono
stato, i fotografi professionali non erano stati invitati. In compenso c'erano
tantissime macchine digitali e un'infinità di telefonini. Era in maschera, tema
anni 30-40, c'erano parrucche e cappellini, velette, tirabaci e labbra a
cuoricino, baffi posticci e marinaretti, ma si ballavano i Village People e
Raffaella Carrà (quando passerà di moda che la discomusic anni 70?) e si fotografava
a man bassa. "Come mi annoia chi si diverte", scrisse nel 1955, dopo
una festa, Gafyn Llawgoch, l'anarchico gallese, all'amico poeta Kawasaki.
All'ultima festa, però, a divertirsi nessuno sembrava nemmeno provarci. Ho
osservato due single quarantenni del tutto impermeabili ai maschi che non hanno
fatto altro per tutta la sera che fotografarsi a vicenda, oppure insieme, le
teste vicine, le facce deformate da un'allegria in posa. Nessuno si baciava,
strusciava e corteggiava.
Tutti parevano impegnati soprattutto ad apparire allegri nelle foto che postavano con i telefonini, perché la festa apparisse divertente agli amici dei social network. Si trattava di una specie di recita collettiva a beneficio di Twitter e Facebook. L'umanità assente, l'umanità altrove, appariva molto più influente di quella presente in carne e ossa, e per di più in costume. Perché? Grazie a Internet, oggi, un pubblico non si nega a nessuno. Così tutti mettono in scena la cronaca mondana di se stessi. È un'ipnosi collettiva grazie alla quale ognuno può fingersi famoso e gli altri possono fingere di credergli. A patto di essere ricambiati. La soddisfazione trasloca altrove. Accade spesso, ormai: per esempio, quando si commenta la tv su Twitter, preferendo alle battute di chi ti sta vicino quelle di uno sconosciuto che scrive chissà dove. Ma la distanza è una droga che dilaga e vanifica il momento presente. È un'onda inarrestabile iniziata decenni fa, quando il telefono diventò lo strumento per parlare, quando i turisti iniziarono a fotografare i paesaggi invece di vederli e in sala parto comparvero padri con la videocamera per registrare la nascita dei figli invece di viverla. L'idea è che l'emozione in corso sia meglio archiviarla per goderne in futuro, al momento giusto, seduti in poltrona, oppure incassarla all'istante, mostrandola alla propria community perché tutti si rendano conto di quanto sappiamo essere allegri o arguti. Ogni momento, così, appare memorabile. Anche se non viene vissuto. Perché se il presente esiste per essere fotografato, pubblicato e commentato, arretra a teatro di posa. La felicità è sempre stata un orizzonte. È sempre stata irraggiungibile. Per millenni ha abitato dopo la morte, in Paradiso. Poi, hanno detto che stava alla fine della Storia, nella società giusta. Oggi è il "Mi piace" di Facebook. Si è trasferita al di là del touch screen, sui social network dove tutti sembrano così desiderosi di convincere gli altri di avere una vita piena da svuotare, istante dopo istante, quella che stanno vivendo.
Tutti parevano impegnati soprattutto ad apparire allegri nelle foto che postavano con i telefonini, perché la festa apparisse divertente agli amici dei social network. Si trattava di una specie di recita collettiva a beneficio di Twitter e Facebook. L'umanità assente, l'umanità altrove, appariva molto più influente di quella presente in carne e ossa, e per di più in costume. Perché? Grazie a Internet, oggi, un pubblico non si nega a nessuno. Così tutti mettono in scena la cronaca mondana di se stessi. È un'ipnosi collettiva grazie alla quale ognuno può fingersi famoso e gli altri possono fingere di credergli. A patto di essere ricambiati. La soddisfazione trasloca altrove. Accade spesso, ormai: per esempio, quando si commenta la tv su Twitter, preferendo alle battute di chi ti sta vicino quelle di uno sconosciuto che scrive chissà dove. Ma la distanza è una droga che dilaga e vanifica il momento presente. È un'onda inarrestabile iniziata decenni fa, quando il telefono diventò lo strumento per parlare, quando i turisti iniziarono a fotografare i paesaggi invece di vederli e in sala parto comparvero padri con la videocamera per registrare la nascita dei figli invece di viverla. L'idea è che l'emozione in corso sia meglio archiviarla per goderne in futuro, al momento giusto, seduti in poltrona, oppure incassarla all'istante, mostrandola alla propria community perché tutti si rendano conto di quanto sappiamo essere allegri o arguti. Ogni momento, così, appare memorabile. Anche se non viene vissuto. Perché se il presente esiste per essere fotografato, pubblicato e commentato, arretra a teatro di posa. La felicità è sempre stata un orizzonte. È sempre stata irraggiungibile. Per millenni ha abitato dopo la morte, in Paradiso. Poi, hanno detto che stava alla fine della Storia, nella società giusta. Oggi è il "Mi piace" di Facebook. Si è trasferita al di là del touch screen, sui social network dove tutti sembrano così desiderosi di convincere gli altri di avere una vita piena da svuotare, istante dopo istante, quella che stanno vivendo.
Nessun commento:
Posta un commento