Tratto da “Che
cosa tocca alla sinistra” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 2 di marzo dell’anno 2018: Quanto è grande l’area antisistema? (…). …la
vera domanda che dobbiamo farci è proprio questa, per capire cosa cova sotto la
pelle del Paese, dove ribolle nel profondo il risentimento italiano, non più
arginato, mediato e tradotto dalle grandi culture dei partiti storici ma
trasportato direttamente in politica, anzi trasformato in contro-politica. Non
è un passaggio da poco, perché cambia la natura del Paese, il suo sentimento
prevalente, potremmo dire il suo carattere nazionale.
Da Paese democristiano, mediatore, conciliante e compromissorio, però unito sui suoi valori di fondo e sul cammino in Europa e in Occidente, siamo diventati in questi anni un insieme di radicalità sparse, senza punti di riferimento condivisi, senza una bussola comune, senza più la capacità di scambiarci un riconoscimento reciproco nel quadro delle istituzioni repubblicane. Colpa della cattiva politica, senza dubbio. Ma colpa anche di un incattivimento spontaneo e autonomo della società. Che sentendosi investita dall’onda lunga della globalizzazione, dove tutto è frantumato, disperso e portato in alto mare, tende a chiudersi davanti ai nuovi fenomeni invece di provare a governarli. Nella chiusura di porte e finestre, come sotto l’uragano, ognuno pensa per sé e raduna le sue cose, spezza il filo che dal privato porta al pubblico, guarda il mondo dallo spioncino, e lo trova soltanto minaccioso o ostile. La metamorfosi sociale cambia anche la domanda che rivolgiamo alla politica. Invece di chiedere garanzie per l’espansione dei nostri diritti chiediamo sicurezza per le nostre paure, figlie dell’epoca, invece di pretendere un cambiamento nel discorso pubblico domandiamo tutela per i nostri egoismi privati: rovesciamo il welfare, da strumento di solidarietà a elemento di gelosia, mutiliamo l’idea di cittadinanza, declinandola solo per escludere. Tutto questo porta inevitabilmente a una riduzione dello spazio concettuale della politica e per conseguenza a una contrazione del linguaggio. Ogni nozione diventa basica, ogni espressione si fa povera: e naturalmente tanto più aggressiva quanto più povera, tanto più feroce quanto più basica. Il populismo sovranista cresce e prospera così, semplicemente catalogando le paure invece di risolverle, capovolgendo la politica da soluzione a coltivazione dei problemi. Per farlo ha bisogno di cercare i suoi riferimenti fuori dalla storia, in un “fascioleghismo” di nuovissimo conio che sta prendendo il posto del “forzaleghismo” individuato anni fa da Ilvo Diamanti, cercando parentele fuori dalla cultura occidentale classica (come ieri con Marine Le Pen) e sui bordi dell’Europa, come rivelano oggi le strette di mano tra Giorgia Meloni e Victor Orbán. L’altro populismo nazionale, quello grillino, segue lo stesso percorso cambiando soltanto il bersaglio: al posto della globalizzazione e degli immigrati, il sistema politico e i partiti, trasformati in regime senza appello e soprattutto senza distinzione, facendo di tutto un fascio, mentre è evidente che la libertà di decidere del cittadino comincia proprio dalla sua capacità di distinguere e di scegliere. Se il sistema è un regime, è per forza di cose condannato in blocco, non serve più la politica per trasformarlo ma la rivoluzione per rovesciarlo, non si va in Parlamento per correggerlo ma per ribaltarlo, così come le istituzioni non vanno conquistate, ma spodestate. Come nel sovranismo si punta sulla paura, qui si fa leva sul risentimento. Due istinti sono così diventati i motori distinti ma paralleli della politica italiana, che si muove sulla base di pulsioni, emozioni, impulsi, sensazioni, fuori da ogni cornice culturale, fuori dalla vicenda repubblicana del dopoguerra, fuori dal sistema, condannato a marcire. Si capisce che a questo punto la ferocia del linguaggio fascioleghista venga scambiata per autenticità, così come l’incompetenza dei grillini viene rivendicata come estraneità a tutto ciò che è castale, sistemico, istituzionale: il sapere, l’esperienza, la conoscenza. Le due rassicurazioni che i due populismi trasmettono al cittadino disorientato vengono da mondi opposti.
Da Paese democristiano, mediatore, conciliante e compromissorio, però unito sui suoi valori di fondo e sul cammino in Europa e in Occidente, siamo diventati in questi anni un insieme di radicalità sparse, senza punti di riferimento condivisi, senza una bussola comune, senza più la capacità di scambiarci un riconoscimento reciproco nel quadro delle istituzioni repubblicane. Colpa della cattiva politica, senza dubbio. Ma colpa anche di un incattivimento spontaneo e autonomo della società. Che sentendosi investita dall’onda lunga della globalizzazione, dove tutto è frantumato, disperso e portato in alto mare, tende a chiudersi davanti ai nuovi fenomeni invece di provare a governarli. Nella chiusura di porte e finestre, come sotto l’uragano, ognuno pensa per sé e raduna le sue cose, spezza il filo che dal privato porta al pubblico, guarda il mondo dallo spioncino, e lo trova soltanto minaccioso o ostile. La metamorfosi sociale cambia anche la domanda che rivolgiamo alla politica. Invece di chiedere garanzie per l’espansione dei nostri diritti chiediamo sicurezza per le nostre paure, figlie dell’epoca, invece di pretendere un cambiamento nel discorso pubblico domandiamo tutela per i nostri egoismi privati: rovesciamo il welfare, da strumento di solidarietà a elemento di gelosia, mutiliamo l’idea di cittadinanza, declinandola solo per escludere. Tutto questo porta inevitabilmente a una riduzione dello spazio concettuale della politica e per conseguenza a una contrazione del linguaggio. Ogni nozione diventa basica, ogni espressione si fa povera: e naturalmente tanto più aggressiva quanto più povera, tanto più feroce quanto più basica. Il populismo sovranista cresce e prospera così, semplicemente catalogando le paure invece di risolverle, capovolgendo la politica da soluzione a coltivazione dei problemi. Per farlo ha bisogno di cercare i suoi riferimenti fuori dalla storia, in un “fascioleghismo” di nuovissimo conio che sta prendendo il posto del “forzaleghismo” individuato anni fa da Ilvo Diamanti, cercando parentele fuori dalla cultura occidentale classica (come ieri con Marine Le Pen) e sui bordi dell’Europa, come rivelano oggi le strette di mano tra Giorgia Meloni e Victor Orbán. L’altro populismo nazionale, quello grillino, segue lo stesso percorso cambiando soltanto il bersaglio: al posto della globalizzazione e degli immigrati, il sistema politico e i partiti, trasformati in regime senza appello e soprattutto senza distinzione, facendo di tutto un fascio, mentre è evidente che la libertà di decidere del cittadino comincia proprio dalla sua capacità di distinguere e di scegliere. Se il sistema è un regime, è per forza di cose condannato in blocco, non serve più la politica per trasformarlo ma la rivoluzione per rovesciarlo, non si va in Parlamento per correggerlo ma per ribaltarlo, così come le istituzioni non vanno conquistate, ma spodestate. Come nel sovranismo si punta sulla paura, qui si fa leva sul risentimento. Due istinti sono così diventati i motori distinti ma paralleli della politica italiana, che si muove sulla base di pulsioni, emozioni, impulsi, sensazioni, fuori da ogni cornice culturale, fuori dalla vicenda repubblicana del dopoguerra, fuori dal sistema, condannato a marcire. Si capisce che a questo punto la ferocia del linguaggio fascioleghista venga scambiata per autenticità, così come l’incompetenza dei grillini viene rivendicata come estraneità a tutto ciò che è castale, sistemico, istituzionale: il sapere, l’esperienza, la conoscenza. Le due rassicurazioni che i due populismi trasmettono al cittadino disorientato vengono da mondi opposti.
L’universo “indigeno” per il fascioleghismo, fatto di
terra, sangue, confini, colore della pelle e infine la croce: ma per evocare il
Dio degli eserciti e non il Signore della misericordia, quindi un Dio molto
poco italiano. E la mitologia dell’”altrove” per i Cinque Stelle, un habitat
virtuale incontaminato e chiuso in sé, dove la debolezza della politica dovrà
consegnarsi ai dilettanti che trasformano in ribellismo autocentrato modesti
curriculum personali di destra, itinerari confusi: senza mai scegliere sui temi
cruciali, trasformando l’onestà da necessaria precondizione a unica cifra della
politica, predicando trasparenza per gli altri e adorando paganamente in
proprio un blog e una società informatica che nessuno ha eletto e di cui
nessuno sa niente. (…). I due immaginari separati e distinti compongono un
mondo, l’antisistema, dove l’unica moneta è l’antipolitica, dove si sta in
parlamento da antagonisti, dove il nemico comune è il meccanismo democratico
europeo e il sistema di valori dell’Occidente. Aggiungiamo pure Berlusconi, che
mentre cercava l’amnistia ha trovato per strada l’amnesia degli italiani e si
spaccia per Cavour, ma in realtà ha scosso per primo i muri maestri del sistema
con la legislazione ad personam, il conflitto di interessi, la compravendita di
parlamentari, la confisca totale del mercato televisivo del consenso. Avremo un
perimetro completo dell’antisistema, che ci porta a un inevitabile paradosso
democratico: anche se non lo sa, tocca alla sinistra di governo difendere il
pensiero liberale, vero nemico dei due populismi.
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