Tratto
da “Chi non ha fede dubita di Dio chi
crede dubita di se stesso”, intervista al pastore Valdese Paolo Ricca (Torre
Pellice, 19 gennaio 1936) a cura di Antonio Gnoli pubblicata sul quotidiano “la
Repubblica” del 30 di marzo dell’anno 2014: (…). Da dove nasce la fede? «Non
nasce dalla paura della morte né dall’incertezza del futuro. La fede è un
viaggio che non si conclude nell’arco di una vita. Quando inizia la fede
comincia anche l’inquietudine. La fede rende inquieti ma non dubbiosi»
Che differenza c’è? «Il dubbio è un interrogativo
rivolto a Dio. L’inquietudine è dubitare di se stessi, di ciò che si sta
facendo, di quale società si intenda costruire, quale eredità lasciare ai
propri figli. Da questo punto di vista, Dio diventa certezza. E non si sa
perché».
Dio chiama, misteriosamente, come sperimenta Abramo.
«E lui non può che rispondere. Perché la chiamata di Dio è più forte di tutte
le obiezioni possibili».
Ammetterà che il comportamento di Abramo può essere visto come un caso di psichiatria. «Non lo nego. In fondo, non c’è nessuna evidenza di Dio e quindi il suo agire può effettivamente essere scambiato non solo per quello di un folle, ma addirittura come qualcosa di diabolico».
La non evidenza di Dio cosa comporta? «Che la fede è
un salto. Ma non nel buio. Bensì nella parola che vince perché convince».
Siate astuti come serpenti e puri come colombe, mi
pare dica Gesù. Non trova che i due piani confliggano? «Astuzia nel senso di
un’esortazione al credente a essere intelligente. Mentre la purezza è non
pensare male dell’altro».
Può la fede essere inutile? «Non è detto che se non
ci fosse la fede il mondo sarebbe peggiore. Ma neanche migliore. Gesù ha
invitato i suoi discepoli a essere servitori inutili. Quindi anche la fede può
essere inutile. Ma Dio non è inutile, la fede in lui, sì, può esserla».
Non capisco la differenza. «Con la mia fede, più o
meno vacillante, posso non servire a nulla. È irrilevante ciò che potrei fare.
Ma Dio è l’altra possibilità. È l’altro mondo per questo mondo. L’altra umanità
per questa umanità. È necessario che non identifichi il mondo, e l’altro, con me
stesso. Che non faccia di ciò che mi circonda la proiezione del mio Io, come
fossi un piccolo Dio. Dio è utile perché è l’altro da me».
Erano le posizioni del teologo Karl Barth «Nella
prima fase del suo pensiero effettivamente Barth sostenne che l’Altro è Dio e
non è uomo. Poi, negli anni in cui lo conobbi, attenuò questa tesi».
Lo ha conosciuto dove? «Seguii le sue lezioni a
Basilea negli anni Cinquanta. Barth, nonostante la grandezza dei suoi studi, fu
un uomo profondamente umile. Dotato di un’autoironia e una coscienza del limite
che mi sorpresero. Ma il suo commento alla Lettera ai romani è pura dinamite».
Parlando di grandi teologi protestanti non si può
non fare anche il nome di Dietrich Bonhoeffer. «Bonhoeffer fu un luterano,
mentre Barth era vicino a Calvino e Zwingli. Entrambi però antihitleriani
convinti».
Ci fu una compromissione dei protestanti con il
regime nazista? «La Chiesa evangelica, in buona parte, si nazificò. E fu contro
l’obbedienza alle direttive del regime che, nel 1934 durante il sinodo di
Barmen, nacque una Chiesa confessante che in larga parte si oppose prima ai
cristiani tedeschi e successivamente alla Germania hitleriana. Fu Karl Barth a
prendere posizione contro il nazismo, e questo provocò il suo allontanamento
dall’università di Gottinga e il rientro in Svizzera».
E Bonhoeffer? «Cospirò contro il regime partecipando
all’attentato del 20 luglio del 1944. La bomba scoppiò ma Hitler ne uscì quasi
incolume. Bonhoeffer fu arrestato e impiccato l’anno dopo».
Era giusto che un teologo, un pastore, condividesse
un gesto di così estrema violenza? «Bonhoeffer non ha mai rivendicato un
modello di comportamento. Ha solo applicato il detto luterano: pecca fortemente
ma ancora più fortemente gioisci in Cristo. Fu un grande profeta del cristianesimo
di domani che interpretò come un impegno per gli altri. Il suo insegnamento fu
per me di grande aiuto. Ho compreso cosa significhi la pienezza della fede in
un mondo secolarizzato».
Sono parole molto belle: la parola che vince perché
convince, ha detto più sopra. Ma oltre la parola cosa c’è? Con quale gesto,
decisione, contenuto la riempie? «Fin dall’inizio del mio ministero è stato il
lavoro per la pace a coinvolgermi. Ossia la predicazione della non violenza
come impegno sociale e culturale».
Mi scusi, ma siamo ancora sul piano della parole. «Le
racconto una piccola storia. Conobbi anni fa e in modo del tutto casuale un
monaco buddista. Era partito in pellegrinaggio da Auschwitz e per raggiungere
Hiroshima. Viaggiava solo. Lo vidi nella piazza San Pietro. Seduto in terra.
Batteva il tamburo e cantava le sue litanie. Le guardie lo allontanarono. Il
monaco si spostò oltre il colonnato. Ma anche lì gli venne ingiunto di
andarsene. Infastidiva i fedeli, dissero le guardie».
E cosa accadde? «Mi avvicinai e gli dissi che se
avesse voluto avrebbe potuto recitare le sue preghiere davanti alla nostra
chiesa valdese, e che lì nessuno lo avrebbe disturbato. Poi gli chiesi dove
avrebbe dormito. Mi rispose che la strada era il suo giaciglio. Lo invitai a
casa. Si alzava tutte le mattine alle sei e scendeva in strada per le sue
litanie. Quasi tutto il tempo digiunò. Solo alla fine riprese a mangiare e a
bere. E un giorno mi annunciò la partenza. Ci inchinammo in silenzio. E
officiammo insieme, nella chiesa, un culto per la pace».
Era un uomo profondamente religioso «Era un uomo
giusto. Chiesi dove era diretto. Mi rispose sul Monte Sinai. Disse che da Bari avrebbe
preso un traghetto per Patrasso. Gli domandai se lì c’era qualcuno che lo
aspettava. Sì, concluse, c’è Dio che mi aspetta. Per un breve momento ho avuto
la benedizione di affiancare quel monaco di cui nessuno sapeva nulla e a
nessuno interessava. Fu una lezione straordinaria».
È una storia bella che le invidio. Ma al tempo
stesso penso che occorra una grandissima fede per credere che Dio fosse lì ad
attenderlo. Quante volte è stato detto: Dio non c’era o dov’era quando accadeva
qualcosa di terribile. Dov’era Dio quando Auschwitz esplose in tutta la sua efferata
tragedia? «Dio non è responsabile dell’accaduto e nessuno può impedirgli di
essere libero».
È vero. Ma se Dio c’è e tace, è il suo silenzio che
interroghiamo e che ci opprime. «Quel silenzio a volte l’ho subito e ripenso
all’esperienza di Giobbe, segnata prima dal silenzio di Dio, e dagli amici di
Giobbe che, insopportabilmente, lo giustificano. Poi, quando Dio parla, non risponde
alla domanda di Giobbe: perché colpisci un innocente e ti comporti come un Dio
ingiusto? È la fede che viene scossa. E non c’è una spiegazione esauriente
dell’infinita sofferenza del mondo».
E nonostante ciò Giobbe continua a credere. «La sua
preghiera diventa protesta ma non negazione di Dio. Mi viene in mente il
racconto di un ebreo che, dopo la distruzione del ghetto di Varsavia, rivolge a
Dio un’ultima preghiera: “Dio, hai fatto tutto quello che potevi affinché non
ti amassi più. Sono morti i miei cari, gli amici, la moglie e i figli. Tra poco
morirò anch’io. Hai provato di tutto pur di farmi perdere la fede. Ma io ti amo
lo stesso”».
Si può chiamare eroismo della fede? «È il sovrumano
nell’umano. La speranza che non muore. Davanti alla malattia mi chiedevo: come mi
comporterò? Sono stato testimone di che cosa? Ho pensato agli ultimi giorni di
Bonhoeffer. Prima di essere giustiziato tenne un culto con le poche persone con
cui condivise la cella del carcere. Era solo un rito commiserevole? Non credo.
Era il modo più profondo di ristabilire la pace tra gli uomini fin dentro il
sacrificio estremo della morte»
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