Ora che l’”epopea” obamiana volge al termine è il
caso di cercare di tirare le cosiddette somme di un’epoca che sinistramente e
con presagi poco rassicuranti si sta chiudendo. E ritorna così spontaneo alla
memoria ricordare come tra i pochi amici ed ancor più tra i pochissimi
conoscenti ci si sia impegnati, all’alba di quella “epopea”, a stroncarne gli
entusiasmi suscitati da quella elezione americana. Poiché si aveva sin d’allora
la certezza che la “sovrastruttura” – marxianamente parlando - di quella società
avrebbe imbrigliato l’azione dell’eletto, condizionandone i progetti e
limitandone la portata qualora essi – i progetti della nuova amministrazione - non
rientrassero negli schemi ultraliberisti che avevano incendiato il mondo in
quegli anni che nel nostro Paese venivano definiti – con riferimento all’azione
dei socialisti d’allora, Craxi in testa – come anni “da bere”. Poiché tutti i
mali odierni derivano da quell’abbaglio che condusse la politica – anche della
cosiddetta “sinistra” – ad uniformarsi al nuovo dogma, ritenendolo inevitabile
ed accettandolo come un ineludibile “destino”. Ci si ritrova così ad aver
supinamente accettato un capitalismo scarsamente manifatturiero a fronte di un
montante capitalismo finanziario senza obblighi sociali. Non un’azione di contrasto,
non un’azione di re-indirizzo. Ha scritto Federico Rampini sul settimanale “D”
del 17 dicembre ultimo – “Ricordi dei magnifici
anni ottanta” -: “Il modello veniva dall’America di Ronald
Reagan, che aveva riabilitato i ricchi, l’ostentazione del lusso. Il consumismo
era eticamente benedetto da una teoria economica e perfino come strategia
geopolitica: al termine di quel decennio l’Occidente sconfisse l’Impero del
male (l’Unione sovietica) non solo in virtù dei suoi ideali ma anche perché noi
non ci facevamo mancare niente”. Furono quelli gli anni “da
bere”, in Italia come nel resto del mondo occidentale; indebitamento collettivo
pubblico e privato ed il miraggio di potersi arricchire rapidamente e facilmente
speculando sul denaro, mezzo del e per vivere affascinante ed al contempo
diabolico. Poiché sin da quegli anni era evidente che l’”epopea” obamiana
avrebbe dovuto piegarsi alla “sovrastruttura”, docile e
sonnacchiosa in apparenza ma vigile per indirizzare l’azione dei governi per il
trionfo, alfine realizzato, della “globalizzazione” e della speculazione
finanziaria, la cui azione ha sovrastato e sovrasta i governi resisi ad essa remissivi
ed in ultima analisi storicamente complici. Ed oggi Trump. Ed il “trumpismo”,
che tende a dispiegare le sue ali sull’intero mondo dell’Occidente. Aggiunge ancora
Federico Rampini nel Suo scritto: “Donald Trump è la riscossa degli anni
Ottanta. Fin nei minimi dettagli, i più kitsch, insopportabilmente volgari”. Poiché
Trump viene da quel mondo, mondo che nel corso dell’”epopea” che sta per
chiudersi ha morso il freno, preparando sotterra, ma non tanto, il ritorno a
quello spirito che, seppur apparentemente sconfitto, viveva nelle viscere di
quel mondo aspettando il momento magico per quell’appuntamento che ora si è
realizzato. Conclude Rampini: “Prepariamoci dunque a dover convivere con
gli anni Ottanta. In tutti i sensi. Impossibile dimenticare che è proprio nelle
politiche economiche di quegli anni – meno tasse sui ricchi, libertà di
speculazione finanziaria – che tutti i mali del nostro tempo affondano le
radici”. Sta tutto qui il male creato dalla “sinistra politica”; essersi
seduta, quale disperato convitato di pietra, ad un banchetto nel quale i resti,
se non i rifiuti, di un certo mondo, le venivano generosamente offerti in
cambio della sua acquiescenza se non del tradimento della sua Storia.
Interessante a questo proposito è la lettura del testo di Ferdinando Giugliano pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 23 di novembre ultimo scorso. Scrive Ferdinando Giugliano in “Il fascino del protezionismo. Ma crea solo più povertà”: (…). Il legame tra globalizzazione e miglioramenti delle condizioni di vita nei Paesi più poveri ha base teoriche solide: con l’apertura delle frontiere, le aziende possono delocalizzare parti della loro produzione nei Paesi dove la manodopera costa meno, creandovi occupazione. L’emigrazione permette ai cittadini delle economie emergenti di accedere a quella che l’economista Branko Milanovic della City University di New York ha chiamato la «rendita di cittadinanza», ovvero il diritto a guadagnare di più semplicemente grazie alla ricchezza dello Stato in cui si svolge una determinata professione, indipendentemente da quale essa sia. I risultati sono stati impressionanti: secondo il rapporto “Taking On Inequality” pubblicato ad ottobre dalla Banca Mondiale, nel 2013 c’erano circa 1,1 miliardi di persone che vivevano in condizioni di estrema povertà in meno rispetto al 1990, nonostante la popolazione mondiale fosse aumentata allo stesso tempo di 1,9 miliardi di individui. Questa riduzione si è intensificata tra il 2002 e il 2013, quando una media di 75 milioni di persone all’anno sono uscite dalle condizioni di indigenza — più o meno la popolazione di Germania o Turchia. La percentuale di poveri nel mondo nel 2013 era al 10,7%, rispetto al 35% di 26 anni fa. L’altro grande successo riguarda la disuguaglianza mondiale che, sempre secondo la Banca Mondiale, negli ultimi 25 anni è calata per la prima volta dalla rivoluzione industriale in poi. L’indice di Gini globale, un indicatore delle disparità, si è ridotto da 69,7 nel 1988 a 62,5 nel 2013. «Questo è coinciso con un periodo di rapida globalizzazione e di forte crescita dei Paesi poveri più popolosi come Cina e India », hanno scritto gli autori del rapporto. Gran parte di questa riduzione è dovuta all’assottigliamento delle differenze fra Paesi, mentre le disparità all’interno dello stesso Stato sono, in media, cresciute. Tuttavia, negli anni della crisi, anche questo trend negativo si è fermato: in quegli anni 3,5 miliardi di persone, circa il 65% della popolazione mondiale, vivevano in Paesi in cui la crescita dei redditi per il 40% più povero è stata più rapida rispetto al 60% più ricco. Oltre al miglioramento delle condizioni di vita per i più poveri, queste cifre mostrano il declino della classe media nei Paesi più ricchi. Milanovic l’ha rappresentata in maniera molto eloquente in un diagramma del 2012 che è stato ribattezzato, a causa della sua forma, “il grafico elefante”. Questa linea mostra come tra il 1988 e il 2008, i maggiori aumenti di reddito siano avvenuti per il 65% più povero della popolazione mondiale (ad eccezione dei poverissimi) e per i super-ricchi, mentre per gli altri i guadagni sono stati praticamente zero. Possono le ricette di Trump aiutare la classe media americana? Ci sono ragioni per essere scettici. Il think tank Peterson Institute ha calcolato che le politiche commerciali di Trump potrebbero innescare una guerra commerciale che costerebbe agli Usa 4,8 milioni di posti di lavoro. Per un nazionalista economico, può comunque valere la pena prendersi il rischio ed appoggiare ricette come quelle di Trump. Per chi ha invece a cuore il welfare globale, le ragioni anche illusorie per confidare nel protezionismo sono invece molto più difficili da trovare.
Interessante a questo proposito è la lettura del testo di Ferdinando Giugliano pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 23 di novembre ultimo scorso. Scrive Ferdinando Giugliano in “Il fascino del protezionismo. Ma crea solo più povertà”: (…). Il legame tra globalizzazione e miglioramenti delle condizioni di vita nei Paesi più poveri ha base teoriche solide: con l’apertura delle frontiere, le aziende possono delocalizzare parti della loro produzione nei Paesi dove la manodopera costa meno, creandovi occupazione. L’emigrazione permette ai cittadini delle economie emergenti di accedere a quella che l’economista Branko Milanovic della City University di New York ha chiamato la «rendita di cittadinanza», ovvero il diritto a guadagnare di più semplicemente grazie alla ricchezza dello Stato in cui si svolge una determinata professione, indipendentemente da quale essa sia. I risultati sono stati impressionanti: secondo il rapporto “Taking On Inequality” pubblicato ad ottobre dalla Banca Mondiale, nel 2013 c’erano circa 1,1 miliardi di persone che vivevano in condizioni di estrema povertà in meno rispetto al 1990, nonostante la popolazione mondiale fosse aumentata allo stesso tempo di 1,9 miliardi di individui. Questa riduzione si è intensificata tra il 2002 e il 2013, quando una media di 75 milioni di persone all’anno sono uscite dalle condizioni di indigenza — più o meno la popolazione di Germania o Turchia. La percentuale di poveri nel mondo nel 2013 era al 10,7%, rispetto al 35% di 26 anni fa. L’altro grande successo riguarda la disuguaglianza mondiale che, sempre secondo la Banca Mondiale, negli ultimi 25 anni è calata per la prima volta dalla rivoluzione industriale in poi. L’indice di Gini globale, un indicatore delle disparità, si è ridotto da 69,7 nel 1988 a 62,5 nel 2013. «Questo è coinciso con un periodo di rapida globalizzazione e di forte crescita dei Paesi poveri più popolosi come Cina e India », hanno scritto gli autori del rapporto. Gran parte di questa riduzione è dovuta all’assottigliamento delle differenze fra Paesi, mentre le disparità all’interno dello stesso Stato sono, in media, cresciute. Tuttavia, negli anni della crisi, anche questo trend negativo si è fermato: in quegli anni 3,5 miliardi di persone, circa il 65% della popolazione mondiale, vivevano in Paesi in cui la crescita dei redditi per il 40% più povero è stata più rapida rispetto al 60% più ricco. Oltre al miglioramento delle condizioni di vita per i più poveri, queste cifre mostrano il declino della classe media nei Paesi più ricchi. Milanovic l’ha rappresentata in maniera molto eloquente in un diagramma del 2012 che è stato ribattezzato, a causa della sua forma, “il grafico elefante”. Questa linea mostra come tra il 1988 e il 2008, i maggiori aumenti di reddito siano avvenuti per il 65% più povero della popolazione mondiale (ad eccezione dei poverissimi) e per i super-ricchi, mentre per gli altri i guadagni sono stati praticamente zero. Possono le ricette di Trump aiutare la classe media americana? Ci sono ragioni per essere scettici. Il think tank Peterson Institute ha calcolato che le politiche commerciali di Trump potrebbero innescare una guerra commerciale che costerebbe agli Usa 4,8 milioni di posti di lavoro. Per un nazionalista economico, può comunque valere la pena prendersi il rischio ed appoggiare ricette come quelle di Trump. Per chi ha invece a cuore il welfare globale, le ragioni anche illusorie per confidare nel protezionismo sono invece molto più difficili da trovare.
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