È interessante osservare e ricordare alcuni dati
scaturiti all’indomani del referendum del 4 di dicembre, dati che la dicono
lunga su quali motivazioni i 19milioni e passa di italiani hanno buttato a mare
la “riforma” boschian-verdinian-renziana. Ne viene fuori una geografia del
Paese che avrebbe dovuto attrarre l’attenzione massima dell’uomo solo al
governo e dei corpi legislativi nel loro insieme. Ed invece, il nulla. La mappa
disegna confini certi di arretratezza sempre più marcata tra le diverse parti
del Paese e di una povertà in rimonta che penalizza soprattutto quella parte
del Paese che, chiamata alle urne per ben altri motivi, ha scaricato tensioni e
delusioni con un voto inequivocabile. Abruzzo: 64,4% di NO; Lazio: 63,3%
di NO; Molise: 60,8% di No;
Campania: 68,5% di No; Puglia: 67,1% di NO; Sardegna: 72,2% di NO; Basilicata: 65,90% di NO; Calabria: 67% di NO; Sicilia: 71,6% di NO. Cifre percentuali che
evidenziano quel cordone di sofferenze e povertà che l’uomo al governo ha
voluto ignorare per coltivare il suo hobby preferito dello “storytelling”, ovvero
dell’affabulazione falsa ed insensata. Mal gliene incolse. Poiché anche quell’Eugenio
nazionale – al secolo Eugenio Scalfari – ebbe ad affermare che “Il Mezzogiorno è povero ma c'è. Il governo
invece non c'è”, pubblicando sul quotidiano la Repubblica del 27 di
dicembre dell’anno 2015 uno dei suoi soliti pistolotti che avrebbero dovuto
mettere in allarme chi della responsabilità di governo si era impadronito con
“manu militari”. Ma gli interessi erano altrove, allora come oggi, imperscrutabili
ma non tanto, ma sempre interessi che non avevano nulla da condividere con il
disagio dichiarato e venuto forte dalle elezioni referendarie. È da leggere oggi
– alla luce proprio di quei risultati - quel testo dell’Eugenio, dimenticando
se possibile le sue successive piroette e quell’aiutino che di certo non
illustrerà la sua pur generosa carriera giornalistica. Non tanto per il suo
annunciato SI, legittimo se consequenziale alle cose pensate e dette
insistentemente prima, quanto per gli inutili arzigogolii con i quali ha
cercato di dare, a quella sua inattesa resipiscenza, l’autorevolezza e la
credibilità che non possedeva. Scriveva allora, con un interessante percorso storico-politico,
che
(…).
Gaetano Salvemini, anni dopo quando la guerra vera e propria era terminata ma
gli eminenti locali e le organizzazioni mafiose erano in pieno rigoglio, li
chiamò "ascari di Giolitti" che era allora il capo della politica
italiana. In parte sbagliò ed in parte aveva ragione, Salvemini. Erano più di
ascari, in gran parte delle campagne erano i capi delle clientele pronti a
votare per il leader nazionale. Purché gli avesse lasciato campo libero per il
loro potere locale. Questo ricatto ebbe luogo fino al 1910 quando questi capi
appoggiarono le pretese dell'Italia verso la sua prima colonia mediterranea in
Libia. Poi il ricatto diminuì o addirittura scomparve perché Giolitti aveva
trovato l'appoggio dei cattolici di Gentiloni e la simpatia dei socialisti
riformisti di Turati, di Anna Kulišëva, di Treves e di Bissolati. Ma il
dibattito sulla questione meridionale continuò, anzi prese un tono molto più
ampio di studi, di cultura, di misure economiche e sociali portate avanti da
Giustino Fortunato, Sacchetti, Spaventa, Croce e molti altri a cominciare da
Giovanni Amendola, Matilde Serao, Adolfo Omodeo, Piero Gobetti, Antonio
Gramsci, Di Vittorio, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna e Danilo Dolci. Ma
negli ultimi trent'anni - con rare eccezioni - è calato il silenzio. Al suo
posto è nata la questione settentrionale la quale al suo primo sorgere fu
giudicata dal ceto colto italiano come un'uscita politica demagogica, priva di
qualunque significato. Invece non era così, anche se fu presto determinata
dall'uso politico che ne fu fatto dalla Lega di Bossi ma divenne anche uno strumento
nelle mani di Berlusconi che era nato alla politica con idee molto prossime a
quelle leghiste. La questione settentrionale, quella seria, ha colto la povertà
strutturale di alcune regioni padane tra le quali predominava allora il Veneto.
Ma colse anche quel fenomeno - molto positivo da un lato e molto negativo
dall'altro - che fu la piccola e piccolissima industria che ebbe grande
espansione dagli anni Settanta e si impiantò in un gruppo di regioni
estremamente importanti nella geopolitica italiana (il Veneto, la Lombardia
centrosettentrionale fino alla foce del Po) e compose quella specie di
triangolo industriale che fu il nord da Treviso al sud di Ferrara sconfinando
poi con Ancona e Pescara. (…). Le due questioni contrapposte denunciano
l'esistenza da secoli di un Paese duale. Duale in tutto, nella sua storia, la
sua economia, la sua cultura, la sua politica e perfino la sua etnia. Non è il
solo in Europa e nel mondo, ma è stato quello che più ne ha risentito. Ho letto
sul Corriere della Sera del 21 dicembre scorso un articolo di Ernesto Galli
della Loggia intitolato "Il Mezzogiorno datato". Cito una frase di
quell'articolo che traccia un crudele ma importante racconto: "Mi chiedo
se al nostro presidente del Consiglio (oggi ex presidente del consiglio
n.d.r.) è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città
dell'Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese, se
ha mai visto il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di
Palermo, se ha mai dato un'occhiata all'ininterrotta conurbazione napoletana
che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O magari per avere un esempio, ha
provato a farsi fare una tac in un ospedale calabrese. L'addio al Mezzogiorno,
prima che culturale è stato ideologico e politico". La citazione è lunga
ma assai pertinente. (…). …nel 1963 l'Espresso effettuò un'inchiesta in varie
puntate, affidata ai nostri più egregi redattori e collaboratori, con un titolo
portante che diceva: "L'Africa in casa". Fu molto seguita a
quell'epoca (oltre mezzo secolo fa). Descriveva la miseria del cibo, la
presenza in tutte le case di topi, pidocchi e scarafaggi, le morti molto
numerose di neonati e di bambini e infine la fame, diffusa fino agli ultimi
giorni dell'esistenza. Fece molto chiasso quell'inchiesta e determinò anche
qualche svolta politica, i cui prodotti furono non a caso chiamate cattedrali
nel deserto e recarono semmai qualche beneficio all'economia del Nord: profitti
alle banche e alle imprese, depositi bancari che affluivano agli istituti settentrionali,
anche se il benessere del Sud non si spostò e le sue classi non si integrarono.
Le cattedrali le costruiva lo Stato e quindi i fedeli (lavoratori) non avevano
alcun dono ma i benefici del buon Dio andavano semmai riservati al Nord e/o
alle già robuste organizzazioni mafiose. Se paragoniamo il reddito del Sud di
oggi a quello di allora esso è certamente molto aumentato; ma se lo
confrontiamo con quello del Nord il dislivello è enormemente aumentato. La
questione meridionale non ha dunque fatto un solo passo avanti in tema di
dualismo, cioè di diseguaglianza non solo tra i ceti ma tra le regioni. Gli
ascari e gli emiri ci sono sempre, anzi sono cresciuti di numero; le
organizzazioni mafiose hanno ancora al Sud il comando strategico, ma il grosso
degli affiliati e dei loro comandanti in loco ormai si sono spostati a Torino,
a Milano, in Emilia, in Veneto, ad Amburgo e a Marsiglia, e nel frattempo hanno
intrecciato contatti di solidarietà con le mafie della Bolivia, degli Usa, del
Kosovo, del Montenegro e infine della Turchia, della Russia e del Giappone.
Questa esportazione è dunque ormai mondiale, il Mezzogiorno italiano ne è una
delle centrali principali. L'Italia in cento anni ha guadagnato in termini di
profitto e di benessere ma il Mezzogiorno ha perduto in denaro e in prestigio.
È una terra nella quale vegetano milioni di persone perbene ma sono come anime
morte: il potere ce l'hanno i truffatori e i capi delle clientele. (…). Per il
Mezzogiorno qualcosa sarà fatto, ma il renzismo governa da tre anni e finora
non si era neppure accorto di quell'Italia che comincia a Frosinone e continua
a Pescara, a Taranto, a Cassino, a Gaeta, a Lampedusa, ad Agrigento, a Trapani,
a Reggio Calabria, a Cagliari, a Sassari, all'Asinara e a Porto Empedocle. Adesso
finalmente hanno capito che c'è, anzi finora l'Italia è stata soltanto quella
che precede Bologna. Governeranno fino al 2028 (sic!, auspicio o
iattura dell’Eugenio? n.d.r.), dunque un piano lo faranno e gli daranno
anche inizio. Direi quindi che gli anni disponibili alla realizzazione degli
obiettivi saranno quindici. Di solito però i loro annunci tardano tre anni
prima di attuarsi, anche perché adesso sono in tutt'altre faccende
affaccendati. È lecito dunque aspettarsi che l'annuncio inizierà la sua esecuzione
nell'anno 2017. Undici anni per attuarlo, sperando che non sia ripetuto quanto
avvenne tra Salerno e Reggio Calabria, progettata trent'anni fa e ancora in
corso d'esser completata. Per risolvere la questione meridionale non ce la fece
la destra di Ricasoli né la sinistra di Depretis, né Giolitti, né Mussolini, né
Craxi. Di Berlusconi non ne parliamo. Ce la faranno Covello e Delrio? Speriamo.
(…). Lo storytelling dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno si è
fortunatamente interrotto il 4 di dicembre. Ora piomberanno, soprattutto sui
più deboli, i reali, incancreniti problemi del Paese. Si pone in pari tempo un
dilemma epocale – tanto per abusare di un’aggettivazione senza significato -:
ma quei 19milioni e passa di italiani devono proprio amare tanto la loro Carta?
Ché se fosse così si spiegherebbe con grandissima soddisfazione il fenomeno di
rigetto che a dieci anni di distanza ha visto la cancellazione della “riforma”
boschian-verdinian-renziana come allora (2006) venne bocciata la riforma dei
quattro saggi di Lorenzago del Cadore. Ma è proprio così? O molto più
semplicemente quei 19milioni e passa non ne potevano più di un istrione solo al
comando come non ne poterono più di quell’altro istrione i milioni di italiani
che bocciarono la riforma nel 2006. In quali termini sta il dilemma? L’amore
per la Carta o lo schifo provato? #statesempresereni. Amen.
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