Da “Che cosa
ci insegnano Mps e le altre” di Bruno Manfellotto, sul settimanale l’Espresso
del 30 di ottobre 2016: (…). In principio fu una clamorosa
sottovalutazione. Forse per dovere istituzionale o per spirito nazionale,
governi e authority hanno fatto a gara nel dirci che pericoli non ce n’erano,
anche fidando nel fatto che le banche italiane, a differenza di quelle
tedesche, non sono imbottite di titoli tossici. E così ogni intervento è stato
rimandato mentre gli altri correvano ai ripari: la Spagna con 52 miliardi di
euro, la Grecia con 40, l’Irlanda 42, la Germania 238... E la povera Italietta?
Non servono soldi, proclamò il premier Mario Monti. Orgoglio? Leggerezza?
Vincoli di bilancio? Come che sia, alla fine lo Stato tirò fuori appena un
miliardo. Poi però Mps si è mangiato da solo 15 miliardi di ricapitalizzazioni,
e ormai l’Europa ha provveduto a vietare aiuti di Stato. Su come stanno le cose
si è saputo qualcosa di più solo un anno fa, dopo il default di Banca Etruria e
delle casse di Marche, Ferrara e Chieti quando governo e partiti si sono
trovati ad affrontare le conseguenze del famigerato “bail in” che scarica su
obbligazionisti e anche i correntisti il peso del crac e che essi stessi
avevano avallato a Bruxelles nel 2014. E sono emerse le magagne. La prima è che
le autorità di vigilanza o non hanno fatto fino in fondo il loro dovere
(Consob), o non si sono spinte oltre la semplice denuncia formale (Banca
d’Italia). Poi Renzi ci ha messo il suo addebitando loro buona parte delle responsabilità.
L’altra verità è che il sistema bancario è appesantito da crediti incagliati,
cioè difficili o impossibili da riscuotere, per 350 miliardi. Né ci fanno
dormire sonni tranquilli le rassicurazioni del governatore della Banca d’Italia
secondo il quale le sofferenze vere, cioè non garantite da accantonamenti, non
arrivano a 90 miliardi. Perché al di là della cifra, pur sempre pari a
tre-quattro manovre finanziarie, la crisi ha rivelato un tessuto debolissimo di
piccole e medie imprese finite a gambe all’aria perché tenute in vita solo da
un sistema del credito schiavo del familismo finanziario, del capitalismo di
relazione e dei prestiti facili riservati agli amici degli amici. Così andavano
le cose anche a Siena, naturalmente, dove agli eccessi di campanilismo
creditizio si aggiunge pure il peccato originale di un incauto acquisto
favorito da Bankitalia, quello di Antonveneta, a carissimo prezzo, a debito, e
con l’ausilio di un complicato e oscuro prodotto finanziario dal nome di
dentifricio (Fresh) accreditato dall’autorevole timbro di Vittorio Grilli,
allora alto dirigente del Tesoro, oggi salvatore della patria come capo in
Italia della Jp Morgan chiamata a curare, a carissimo prezzo, l’aumento di
capitale del Monte. Corsi e ricorsi. Per non dire dell’«odor di massoneria»
evocato da Alessandro Profumo, uomo generalmente attento a pesare gesti e
parole. Che pasticcio. Anche in questo caso Renzi se n’è fatto carico in prima
persona, a costo di mettere il naso dove forse non doveva, convocando a Palazzo
Chigi gli uomini di Jp Morgan, disponendo rimozioni e nomine ai vertici di Mps,
annunciando e promettendo. Insomma, personalizzando. Del resto le vicende Banca
Etruria e Mps lo hanno segnato, coincidendo perfino con un punto di svolta
nella sua immagine di rottamatore e nei suoi rapporti con l’opinione pubblica.
Insomma, anche il “piano banche” lo vive in qualche modo come un referendum:
non c’entra la Costituzione, ma la fiducia nel sistema del credito e in chi lo
governa, sì.
Da “Banche,
la tempesta perfetta” di Massimo Giannini, sul quotidiano la Repubblica
dell’11 di dicembre 2016:
(…). "Risolveremo la questione bancaria
dopo il referendum, l'Italia è un Paese solido", aveva promesso Renzi
dieci giorni fa, nell'ultimo videoforum a Repubblica Tv. Il 3 settembre, a
Cernobbio, ai grandi del pianeta aveva garantito il contrario:
"Risolveremo tutto prima del 4 dicembre ". Ora, a "risolvere
tutto" sul serio, ci ha pensato la Bce. Non si conoscono le ragioni che
hanno spinto l'Eurotower a negare la proroga chiesta dal Montepaschi per
completare la ricapitalizzazione di 5 miliardi. Né quelle che hanno indotto la
Vigilanza guidata dalla francese Nouy a tacere, dando inopinatamente in pasto
ai mercati una semplice indiscrezione della Reuter. Ma si conoscono gli effetti
di questo diniego. Il salvataggio della banca più antica del mondo ora tocca
allo Stato italiano, che a Siena interviene per la terza volta in sei anni
(dopo i Tremonti Bond del 2010 e i Monti Bond del 2012). Il decreto salva-Mps
sarà dunque il primo atto del governo entrante. A dispetto delle malriposte speranze
del vertice di Rocca Salimbeni su una "soluzione privata", senza
denaro pubblico la banca fallisce, portandosi dietro un'altra decina di
istituti e trascinando nel baratro l'intero Paese. Almeno, nelle due precedenti
occasioni, Montepaschi ha restituito all'Erario i circa 8 miliardi avuto
"in prestito". Stavolta, vista la gravità della situazione, le
prospettive sono più incerte. Ma che questa fosse la fine della storia non era
prevedibile: era scontato. Forse solo l'ex premier, stupito dal "plebiscito
al contrario" di domenica scorsa, immaginava un esito diverso. È stato il
suo errore più grave: scommettere su un salvataggio "di mercato" che
fin dall'inizio appariva azzardato. E soprattutto giocarsi quella scommessa al
tavolo della partita referendaria. Possiamo cercare capri espiatori in giro per
il mondo. Possiamo prendercela con i perfidi diktat di Francoforte e con le
regole capestro di Bruxelles. Abbiamo qualche buona ragione per farlo. Ma resta
un fatto, incontrovertibile, che riguarda noi e nessun altro. L'intera politica
creditizia del governo è stata deludente. La gestione della direttiva europea
sul "bail in", con il costo dei salvataggi bancari scaricato sugli
azionisti e gli obbligazionisti subordinati, è avvenuta senza alcuna discussione
pubblica, che avrebbe aiutato a capire meglio la portata dei cambiamenti in
arrivo. Il decreto che ne ha recepito i principi nel novembre 2015, calandoli
come una mannaia sulla carne viva degli ignari clienti di Banca
Etruria-Marche-Cariferrara- Carichieti, è stato uno shock per il mondo del
risparmio. Costato inchieste, proteste e persino un suicidio (colpevolmente
ignorato dal potere). Oggi i rimborsi "automatici" liquidati sono
solo 20 (su 130 mila risparmiatori), mentre di quelli arbitrali non ne è stato
definito neanche uno. E se nella Toscana del Giglio Magico, che ha votato
compatta per il Sì al referendum, uno dei pochi comuni dove ha vinto il No è
stato proprio Laterina, dove risiede Maria Elena Boschi e il suo papà
Pierluigi, indagato per il dissesto di Etruria, qualche spiegazione deve pur
esserci. La gestione del dossier Mps è stata ancora più avventurosa. Il 22
gennaio, a "Porta a porta", Renzi annunciava: "Mps è risanato,
investire è un affare ": da allora i titoli hanno perso il 70%. Il 6 luglio,
a Palazzo Chigi, il premier riceveva il "ceo" di Jp Morgan, Jamie
Dimon e gli affidava chiavi in mano l'aumento di capitale da 5 miliardi, in
cambio di una maxi-commissione da 450 milioni. Il 7 settembre, da via XX
Settembre, il ministro Padoan ordinava al cda, in nome del presidente del
Consiglio, di cacciare l'amministratore delegato Viola e di sostituirlo con
Marco Morelli. Il piano Jp Morgan non è mai decollato (gli emiri del Qatar e i
fondi di Soros sono rimasti in finestra). Ed è stato costellato da operazioni
malfatte e omissioni sospette. Al primo tipo appartiene la conversione dei bond
in azioni, spacciata per "volontaria" ma imposta agli investitori
istituzionali, pena "l'applicazione immediata del bail in" o la sicura
cessazione della "continuità aziendale". Al secondo tipo appartiene
il decreto sul salvataggio pubblico, che secondo la puntuale ricostruzione di
Andrea Greco (non smentita) "era pronto da sei mesi, ma Renzi e la Boschi
lo bloccavano". Così come da giugno avevano bloccato il piano di
"ricapitalizzazione precauzionale" messa a punto da Viola, coerente
con la normativa Ue che consente l'intervento pubblico "temporaneo"
in caso di "rischio sistemico". Fermare la mano pubblica, anche in
presenza di un compromesso che allora la Commissione europea avrebbe accettato,
si è rivelato uno sbaglio fatale. Renzi non ha voluto azionare le leve del
Tesoro per due motivi. Il primo: evitare l'accusa, già bruciante su Etruria, di
salvare le banche e non i clienti. Il secondo: lasciare che sul mercato
finanziario, e su quello elettorale, la paura crescente di un default a catena
delle banche, come effetto di una vittoria del No al referendum, facesse da
spinta propulsiva per il Sì (vedi il "fumogeno" lanciato dal "
Financial Times", a una settimana dal 4 dicembre). Alla fine, anche questo
è stato un azzardo. L'incubo default non è bastato a far passare la riforma
costituzionale. E Mps andrà salvata comunque con i soldi dei contribuenti
(mettendo rigorosamente al riparo i circa 40 mila piccoli obbligazionisti). Ma
tutto questo avverrà in assoluta emergenza, dunque nelle condizioni peggiori. E
con il rischio che adesso, visto che in Italia finisce sempre per pagare
Pantalone, si fatichi ancora di più a trovare chi investe capitali non tanto su
Unicredit (che resta comunque una grande banca internazionale) quanto sulle due
venete Popolare di Vicenza e Veneto Banca (che il fondo Atlante 2, con le sue
sole risorse, non può certo sostenere). La crisi politica e la crisi bancaria
hanno finito per sovrapporsi. La tempesta perfetta, che si doveva e si poteva
evitare.
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