Scriveva Michele Prospero in “La libertà difesa dalle regole” – sul
quotidiano l’Unità del 2 di dicembre dell’anno 2012 - sull’essenza che avrebbero dovuto avere – e
non hanno - le “primarie”: (…). Il popolo, nelle culture liberali, non è
mai una entità naturale, esso si configura sempre, lo suggerisce Kelsen, come
una puntuale e artificiale costruzione giuridica. E quindi il popolo o
cittadinanza che può votare alle primarie è da intendersi non già qualunque
corpo pretenda di infilare la scheda nell’urna, ma solo quella precisa entità
giuridica la cui estensione è definita dalle regole sovrane che la coalizione
ha deciso di darsi. Il popolo dei gazebo non è insomma una entità naturalistica
o moltitudine, con il lessico di Hobbes, da accogliere in maniera
indiscriminata, ma è una precisa entità giuridico-formale costruita con regole
e forme valide che per tutti sono vincolanti. (…). La libertà
costituzionalmente tutelata non è mai quella di tutti di partecipare
indiscriminatamente alla vita di tutti i partiti, anche di quello che si
avversa. (…). Le primarie hanno un senso solo perché sono di «parte». Se la
demarcazione in parti distinte e tra loro in contesa cade esiste solo un unico
metapartito che supera ogni differenza. Questa nostalgia per una democrazia in
salsa popolare-giacobina, in cui le società parziali sono bandite e il
conflitto tra le parti è visto come una malattia degenerativa, è però un incubo
che la sinistra lascia volentieri ai media della borghesia italiana. Il
pluralismo che esige il rispetto di ogni differenza ideale come un bene
intangibile e di «parte» garantito dalla Costituzione. È su questo
rispetto formale delle regole riconosciute ed accettate che faceva leva la
“particolarità” propria di quelli che un tempo costituivano la cosiddetta
“sinistra” politica. Poiché quella accettazione concorreva a creare quel
riconoscimento e quella solidarietà che sono alla base di qualsivoglia nucleo
umano. Demistificata quella accettazione del rispetto delle regole costituite
ne è derivata una “poltiglia” politica che nell’indistinguibile ha la sua cifra
caratteristica. Un’accozzaglia, per dirla secondo l’uomo venuto da Rignano
sull’Arno al momento rispedito alla cura della sua formazione politica. Cura
che, nella sua concezione di “una democrazia in salsa popolare-giacobina”
che sfrontatamente non si perita di dissimulare o quanto meno ammantare
di una parvenza di rispetto delle regole, induce i tanti, prima appartenuti a
quella formazione politica, ad abbandonarne le sedi preposte alle attività
decisionali e di partecipazione con grande nocumento alla vita politica
generale. Tutto torna nel conto, ovvero nello svuotamento della partecipazione
della gente alle cose della vita politica per demandarne ad una “casta”
professionalizzata tutto l’onere e gli onori conseguenti, sempreché non
intervenga quel corpo dello Stato che è la giustizia per ripulirne le file
divenute sempre più impresentabili. Ne ha dato contezza nei giorni trascorsi,
all’indomani dei risultati referendari del 4 di dicembre, il senatore del Pd
Walter Tocci – unico senatore di quella parte politica ad aver votato in aula
contro la riforma - in un Suo accorato appello postato sul Suo blog col titolo “L'astuzia della Costituzione”:
Pubblico qui il testo del discorso che avevo
scritto per il mio intervento alla Direzione nazionale del PD (del 7 di
dicembre n.d.r.), che non mi è stato
consentito di fare per dubbie ragioni di orario. La direzione era stata convocata (…) alle 15,
ed è poi stata spostata alle 17.30 a causa degli impegni del Senato. Il voto di
fiducia al Senato, però, è terminato alle 14.30. Ci sarebbe stato ampiamente
tempo per qualche ora di dibattito sulle cause, gli esiti e le responsabilità
nel post-referendum tra la fine del voto e la salita al Quirinale del Presidente
Renzi. Invece si è evitata qualsiasi discussione politica. Lascio quindi che
sia il testo a parlare per me. Non è più
tempo di scagliare le pietre; è tempo di raccogliere le pietre per consolidare
ciò che è duraturo. Nell'Italia spaesata e divisa si erge la Costituzione come
unica certezza. Dovremmo curarne la condivisione nel cuore e nelle menti degli
italiani. Anche compiendo gesti semplici, prendendo l'abitudine magari di
aprire qualsiasi nostra assemblea leggendo un articolo della Carta. Nei dibattiti
leggevo l'articolo 36, secondo il quale la retribuzione del lavoratore dovrebbe
essere "sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera
e dignitosa". Cento milioni di voucher sono in contrasto con la
Costituzione! I suoi principi non sono reliquie da conservare in una teca, ma
un'eredità vivente e una promessa per l'avvenire. Così l'avvertono i ceti
popolari: istintivamente sentono che la Carta è dalla loro parte, è un
sentimento radicato nella storia repubblicana, ma le attuali classi dirigenti
non riescono più a comprenderlo, perché hanno smarrito la "competenza
della vita", come la chiamava Martinazzoli. Anche i giovani hanno votato
per conservare la Carta, al di là del merito della revisione. Nelle burrasche
del mare globalizzato cercano un'àncora nel capolavoro italiano del Novecento.
Seguono l'esempio dei nonni per sopperire alla penuria educativa dei padri,
come i millennials di Sanders. Ci sono queste correnti profonde nel risultato
referendario. Sbaglieremmo a vedere solo le correnti superficiali degli
schieramenti partitici. C'è un'astuzia della Costituzione - come l'astuzia
della Ragione hegeliana - che per resistere ai ripetuti assalti, di volta in
volta si serve delle diverse forze che trova sul campo, della sinistra nel 2006
e della destra e ancora una parte della sinistra dieci anni dopo. Per noi del
PD sarebbe meglio valorizzare le correnti profonde piuttosto che quelle
superficiali. Le seconde ci hanno diviso, mentre le prime uniscono il Si e il
No nel comune impegno: attuare la Costituzione, la prima e la seconda parte.
Potrei dimostrare che si possono realizzare molti obiettivi del SI con il testo
vigente. Si possono dimezzare da subito il numero e la lunghezza delle leggi,
delegando e controllando la pubblica amministrazione negli adempimenti, e
ottenendo un bicameralismo più rapido, efficace e trasparente. Le limitazioni
ai decreti legge e le leggi a data certa sono in parte già in vigore e debbono
essere solo rispettate. I poteri governativi di surroga contro la malasanità
sono già previsti nel vecchio Titolo V e non sono mai stati applicati dal
ministero. La riduzione delle poltrone è stato un argomento miserabile che non
poteva fondare un patto costituente, ma la riduzione dei costi della politica è
da fare subito con legge ordinaria; si convochi un'assemblea straordinaria dei
gruppi parlamentari e regionali del Pd per assumere precisi impegni nelle
rispettive assemblee. A mio avviso, questa legislatura doveva terminare nel
2014, approvando una buona legge elettorale, e senza avventurarsi nella
revisione costituzionale. Si proseguì promettendo faville. Oggi non si può
sentire “dopo di me non c'è nessuno”. I conservatori inglesi, dopo la Brexit,
hanno sostituito Cameron con la signora May e hanno ripreso a governare. Anche
noi possiamo esprimere un premier autorevole tra gli attuali ministri. Non
abbiamo bisogno di governi tecnici, che già hanno combinato guai in passato. Ci
vuole un esecutivo a guida Pd per risolvere i problemi urgenti dell'economia,
per proseguire le cose buone e la politica europea sui migranti, ma anche per
correggere gli errori compiuti - ad esempio su lavoro e scuola - con uno stile
di governo non rissoso, e che anzi riporti serenità in un Paese già troppo
lacerato. Nel frattempo, il Parlamento può approvare la legge elettorale senza
intromissioni del governo. Andare subito alle elezioni significa dichiarare che
il leader sconfitto è insostituibile. È lo stesso autolesionismo che ha portato
a un plebiscito personale sul cambiamento costituzionale. Senza quel cupio
dissolvi oggi ci sarebbe ancora il governo Renzi, e forse avremmo visto
approvata anche la legge Boschi. Il demone della disfatta referendaria è ancora
al lavoro per la sconfitta alle elezioni anticipate. Chi può fermarlo si faccia
sentire in questa sala, prima che sia troppo tardi. Invece delle elezioni
bisogna anticipare il congresso in primavera. Mentre governa, il PD deve curare
sé stesso. Per dieci anni abbiamo pensato solo al leader e non ci siamo mai
occupati del resto: un'idea del Paese, una cultura politica per il nuovo
secolo, un'organizzazione innovativa, una selezione dei dirigenti. Il PD che
non abbiamo ancora conosciuto è il compito del congresso. Il primo passo è
riconciliare il PD con l’Ulivo, inteso come vasto campo di cultura, etica,
cittadinanza attiva e forze sociali. Per non ripetere i riti del passato la
minoranza deve uscire dal guscio e la maggioranza deve riconoscere onestamente
i suoi insuccessi. Per creare un clima più sereno si dovrebbe affidare la guida
del partito fino alla primavera a una personalità autorevole e stimata. Sarebbe
utile per tutti un passo indietro del segretario, e aiuterebbe anche lui a
prepararsi meglio al congresso. L'ordine del giorno dell'assise è l'attuazione
dell'articolo 49 della Costituzione. L'Italia ha bisogno di moderni partiti
popolari che governino con ampio consenso, non solo con il premio di
maggioranza. Riformare il PD è la principale riforma istituzionale che possiamo
realizzare. Non dipende dalle leggi e dai referendum, ma vive nella passione e
nell'intelligenza di milioni di militanti e di elettori. Se guadagneremo la
loro stima, molti torneranno a dare una mano per la vittoria.
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