Correva l’anno… Correva l’anno
2006, giusto un decennio addietro. Ed in quell’anno lì, nel mese di giugno
proprio, si teneva un referendum nei giorni all’uopo destinati del 25 e del 26 sulla
grande riforma costituzionale inventata dai “quattro saggi” in quel
di Lorenzago del Cadore. I quattro saggi “costituzionalisti”, ovvero i molto
onorevoli Andrea Pastore (Fi), Francesco D'Onofrio (Udc), Roberto Calderoli
(Lega), Domenico Nania (An). Sotto l’illuminata regia del signore venuto da
Arcore, mentore del signore venuto da Rignano sull’Arno un decennio dopo. Ripassatevi
bene le generalità dei “quattro saggi”: riconoscete in essi
illustri studiosi costituzionalisti? Di certo tornerà alla memoria vostra
solamente quel Giulio Tremonti, inventore della “finanza creativa”, che
sovrintendeva all’allegra brigata di buontemponi come padrone di casa ed
organizzatore con il beneplacito del’uomo venuto da Arcore. Vi sembrerà
impossibile che una riforma costituzionale fosse elaborata esclusivamente con l’apporto
di quei quattro bontemponi? Allora il gergo corrente della politica non utilizzava
termini quali “rottamazione”, “gufi”, “rosiconi”, “professoroni”
etc. etc. Erano certamente altri tempi, ma l’insegnamento ed il lascito di quei
tempi sono stati ripresi diligentemente allorquando l’Europa provvide a
sbaraccare quella masnada al governo. Avevate di già rimosso quegli
avvenimenti? 10 anni sono troppi da tenere alla memoria? Rinvenite tra quei “quattro
saggi” di Lorenzago del Cadore un qualcuno che all’epoca appartenesse
alla opposizione? Eppure si riformava la “Carta”, ovvero quelle regole che
avrebbero dovuto dare la dritta per la legislazione nel bel paese
indipendentemente dalle maggioranze politiche del momento. Avveniva invece tutto
nel silenzio odoroso – forse – ed ombroso di una discreta baita di montagna. Lavorarono
così bene quei “quattro saggi” – si fa per dire - di Lorenzago del Cadore che
al referendum del 25 e del 26 di giugno di quell’anno il “popolo sovrano” – con inattesa
resipiscenza - spazzò via quella riforma costituzionale che sapeva di grappa, lardo
e polenta e di niente altro. Ed il 24 di giugno di quell’anno che è stato santo
davvero, al sabato precedente il referendum e prima ancora che “spirasse”
questo blog nelle oscurità infinite della rete, postavo un “Appello per il referendum del 25
e 26 di giugno” che portava per titolo “Che popolo immagina la
Costituzione della destra” a firma di Gustavo Zagrebelsky,
scritto che era stato pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” giusto il 23 di giugno e che ora ripropongo in questa “sfogliatura”
referendaria. Ravvisate analogie con quanto sta accadendo ai nostri giorni? Scriveva
allora il professor Zagrebelsky:
(…). Quali sono dunque le pulsioni profonde
che la riforma costituzionale viene a solleticare o lusingare? a)
Innanzitutto la servilità. Un popolo è servile se si rallegra di poter
scegliere, ogni cinque anni, un capo al quale conferire poteri illimitati. Non
sembri una sintesi esagerata. Questo nuovo capo è denominato "primo
ministro", ma il potere personale che questo nome innocente indica è tale
da far paura. Egli dispone dei ministri a suo piacimento, nominandoli quando
gli sono graditi e revocandoli quando gli diventano sgraditi. A suo piacimento
dispone anche dei rappresentanti del popolo perché ogni dissenso nei suoi
confronti si può concludere con il loro licenziamento, lo scioglimento della Camera
e nuove elezioni: il diritto di critica è dunque ammesso, ma chi lo
eserciterebbe, quando il prezzo è il suicidio? Non può invece accadere il
contrario, cioè che siano i rappresentanti del popolo a licenziare il capo e a
sostituirlo con un altro. Questa ipotesi è bensì prevista, ma come pura ipotesi
di fantasia: occorrerebbe un voto a maggioranza assoluta dell´Assemblea, senza
l´apporto dell´opposizione, cioè da parte della stessa compatta compagine che
fino ad allora è stata al seguito del capo. Il che è quanto dire che non
potrebbe realizzarsi mai. Si dirà: prima di parlare di regime autoritario, si
noti almeno che questo capo è pur sempre scelto con un´elezione, ogni cinque
anni. Ma ciò significa solo che quel popolo che se ne rallegrasse, lo farebbe
perché trova gioia nel ripetersi, cioè nell´insistere nella sua servilità.
Varrebbero le parole che Rousseau indirizzava al popolo inglese del suo tempo:
«pensa di essere libero, ma si sbaglia di grosso. Non lo è che durante
l´elezione dei membri dei Parlamento. Appena sono eletti, è schiavo, non è
nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, per l´uso che ne fa merita di
perderla» (Contratto sociale, libro III, c. XV). b) In secondo luogo,
l´insicurezza e l´aggressività, degli uni verso gli altri. Ogni elezione di
capo dai poteri illimitati tramite un´investitura popolare trasformerebbe
l´elezione in conflitto in cui ciascuno avrebbe tutto da sperare ma anche tutto
da temere, a seconda dell´esito. La propria sopravvivenza sarebbe legata alla
soccombenza degli avversari e così l´insicurezza si esprimerebbe in
aggressione. L´ultima tornata elettorale cui abbiamo assistito sgomenti già ci
ammonisce come una sia pur parziale primizia. Gli strumenti dello scontro
sarebbero i più rozzi, irrazionali e semplicistici: amore-odio, bene-male,
amici-nemici. Ecrasez l´infame! potrebbe diventare la parola d´ordine dei due
schieramenti che si demonizzano reciprocamente. Né potrebbe farsi troppo conto
sulle istituzioni di controllo, per mitigare i poteri del vincitore e, con ciò
stesso, l´asprezza del confronto. Questo accade in effetti in diversi regimi,
dove pure i cittadini eleggono il capo del loro governo. Ma lì esistono pesi e
contrappesi, tradizioni e cultura politica che ne bilanciano il potere. E da
noi? Il Presidente della Repubblica è reso dalla riforma una figura marginale. La Corte costituzionale, con
una modifica della sua composizione, viene allineata alla maggioranza politica.
La magistratura, al di là delle riforme che la riguardano, sarebbe intimorita
da una concentrazione di potere politico, collegata all´investitura popolare
diretta, sconosciuta negli altri Paesi che si dicono democratici. L´uguaglianza
di fronte alla legge, che già non è propriamente il punto di forza delle nostre
istituzioni, si ridurrebbe a principio-beffa. Il Parlamento, infine, abbiamo
già visto essere reso nullo nella sua funzione, che è sempre stata la sua
essenziale, di garanzia contro gli abusi del governo. Quando gli assurdi
rapporti tra Camera e Senato previsti dalla riforma glielo consentissero,
legifererebbe, ma sempre e solo agli ordini del capo del governo. Ogni
appuntamento elettorale, data l´enormità della posta in gioco, si risolverebbe
in dramma o in tragedia. Più che la Gran Bretagna, la Francia o la Spagna, ci darebbero il
benvenuto taluni Paesi del Sud America o dell´ex-blocco sovietico. c) Lo
spirito cortigiano. La riforma promette un´alternanza tra lo scontro elettorale
e il ruere in servitium, a cose fatte. Si potrà deplorare la disposizione a
cambiare casacca a seconda del momento ma, d´altra parte, che cosa si può
pretendere quando il vincitore può tutto, da lui dipendono la fortuna o la
rovina della tua azienda, della tua banca, del tuo giornale, della tua casa
editrice, della tua carriera? Se e fino a quando sei nelle sue mani, cercherai
di ingraziartelo, almeno fino al momento in cui, pensando che stia per cadere
in disgrazia, non hai più nulla da ottenere o da temere da lui. Quando nuovi
capi sono all´orizzonte, i cortigiani che ti hanno adulato diventano serpenti
velenosi. d) L´atteggiamento impolitico e qualunquista. Nessun Parlamento al
mondo è tanto umiliato quanto quello che deriverebbe dalla riforma. Non
controlla ma è controllato; se legifera, lo fa per conto altrui; se si permette
di dissentire, è sciolto. Data la sua marginalità, potrebbe anche essere
soppresso o sostituito da un´astratta attribuzione di millesimi, come nei
condomini, a ciascuna delle parti in campo. Se non lo è, forse è perché esso
rappresenta ancora un´immagine potente e carica di storia della libertà
politica ed eliminarlo sarebbe stato un po´ troppo forte; o, forse, è anche
perché, ridotto in questa umiliazione, simboleggia come un trofeo la vittoria
delle forze e delle mentalità antiparlamentari: quella vittoria già iscritta
nell´attuale, recente legge elettorale, che ha trasformato in molti casi i
rappresentanti del popolo in ignote propaggini di dosaggi di potere, clientele
e familismi di partito. Non sono pochi, del resto, coloro che intendono
l´annunciata diminuzione del numero dei parlamentari, operativa – se mai lo
sarà – solo tra molti anni, come un ammiccamento all´eterno qualunquismo
latente nel nostro Paese. e) Il provincialismo pessimista e ripiegato su se
stesso. "A casa mia": è il motto di chi crede a quella cosa che la
riforma definisce federalismo (il federalismo è l´apertura della piccola patria
a una patria più grande) ed è invece ripiegamento su se stessi, timore per
l´ignoto, aggressività verso chi viene creduto diverso, comunitarismo organico:
l´esatto contrario del federalismo. I giuristi hanno ripetutamente spiegato che
nelle norme della cosiddetta devolution c´è molto più centralismo che non
federalismo. Diverse competenze sono state ritrasferite al centro e il
"federalismo fiscale" è reso una beffa dalla norma che vieta "in
tutti i casi" all´autonomia impositiva delle Regioni (e degli enti locali)
di determinare incrementi della pressione fiscale complessiva. Anche le
competenze regionali "esclusive" - assistenza e organizzazione
sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di
formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse
specifico della Regione e polizia amministrativa regionale e locale - devono
pur sempre coesistere con le competenze statali, anch´esse "esclusive",
circa i livelli essenziali delle prestazioni in campo sanitario, le norme
generali sull´istruzione e la tutela della salute, nonché l´ordine pubblico e
la sicurezza. Ma, evidentemente, quello che conta, in questo caso, non è la
realtà giuridica ma è il messaggio "culturale" di chiusura e ostilità
verso il diverso. Della nostra salute, della istruzione dei nostri figli, della
nostra sicurezza ci occupiamo noi perché, per l´appunto sono cose di casa
nostra. La violenza concreta di questo atteggiamento, tuttavia, non tarderebbe
poi a farsi sentire, ben al di là di quel che le norme costituzionali (per ora)
contengono. (…).
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