“Doveravatetutti”. È d’obbligo, per un
ritorno, considerati i tempi referendari che siamo chiamati a vivere, con l’assonanza
perfetta che gli stessi hanno con i decenni politici trascorsi. È che, quando il
giovane Paolo Di Paolo (Roma, 1983) diede alle stampe il Suo pregevole “Dove eravate tutti” – Feltrinelli editore
(2011), pagg. 219, € 15 –, aveva ben altri riferimenti pubblici e politici ai
quali attingere per il Suo lavoro editoriale. Scrive infatti il Suo recensore editoriale
alla terza di copertina: “Dove eravate tutti. Dov’erano i padri,
soprattutto. Dentro il declino civile di un paese, così risuona l’essere giovani
contro l’età adulta, contro l’assenza, contro il silenzio. Italo Tramontana (il
protagonista del romanzo n.d.r.) archivia la memoria degli ultimi vent’anni,
quelli familiari e quelli pubblici, come se la sequenza delle prime pagine dei
giornali dispiegasse l’evidenza della sua storia, con la caduta di Bettino
Craxi, l’interminabile seconda repubblica, l’attentato alle Torri Gemelle e l’elezione
di Barack Obama. (…)”. Ha scritto Paolo Di Paolo del “declino
civile di un paese”, dell’“assenza”, del “silenzio”, “assenza”
e “silenzio” che caratterizzarono quel tempo e che caratterizzano
tutt’oggi la nostra vita politica e sociale. Si era a quel tempo sotto l’imperio
dell’uomo venuto da Arcore, oggigiorno, con fatale continuità, si è sotto l’imperio
dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno. L’“assenza” ed il “silenzio” di allora
assordano la vita presente. Fu allora che Paolo Di Paolo volle affidare alla “memoria
scritta” il Suo vissuto al tempo dell’uomo venuto da Arcore. I riferimenti politici
e sociali odierni, per un altro cronista del tempo che sarà che ne volesse
cantare la sostanza, sono in una straordinaria continuità con quelli che hanno
ispirato quel pregevole lavoro editoriale. Oggigiorno manca un qualsivoglia riferimento
verso il quale indirizzare speranze ed illusioni per una fuoruscita da quel pozzo
profondo che sembra abbia inghiottito le nostre vite. Ma c’è stato un tempo in
cui altri hanno tentato, invano, di allertare le coscienze ammorbate dai decenni
trascorsi. Poiché c’è pur stato chi quell’allarme ha sentito di suonare, nella
generale indifferenza, stanti l’“assenza” ed il “silenzio” che ininterrottamente
assordano la nostra vita pubblica e sociale. Lo faceva, come oggi che è il 14
di giugno ma dell’anno 2014 – al sabato di allora-, il professor Salvatore
Settis in un’intervista rilasciata ad Antonello Caporale su “il Fatto
Quotidiano” - “La svolta decisionista. «Renzi
è un figlio padrone»”. Un’intervista che con l’allarme suonato metteva in “guardia”
le coscienze che avessero avuto la determinazione e voluto di non essere
assenti e colpevolmente silenziose:
- Matteo Renzi appartiene alla schiera dei
“figli-padroni”. Un figlio-padrone fa più simpatia di un padre-padrone, non è
mica Andreotti? È giovane, teorico di quella che si chiama la grande sveltezza.
È infatti sveglio e svelto, ma resta che simpaticamente comanda come un padrone
-.
Un renziano le risponderebbe così: Salvatore
Settis è pura archeologia, è il simbolo della sinistra chic, elitaria e
perdente. - Ho dispiacere di non apprezzare la speranza che cova in così tanti
animi. Purtroppo quando guardo alla sostanza delle cose mi convinco che la mia
diffidenza affonda in un terreno fertile. Iniziamo allora a dire che il
continuo, insopportabile richiamo alla volontà popolare è il frutto di una
possente alterazione della realtà. Ha lo stesso stampo del trucco berlusconiano
sul mandato del popolo. Ho fatto due conti: il 40,8 per cento degli italiani ha
votato Pd. E pure ammesso che siano tutti voti per Renzi, dal primo all’ultimo,
verifico che il primo partito è di chi si è rifiutato di votare: ha il 41,32
per cento. Se aggiungo astenuti e nulle, assisto al miracolo rovesciato. Renzi
ha ottenuto il 40,8 per cento del 50 per cento che ha votato. Dunque possiede
tra le sue mani il favore del 20,62 per cento degli italiani. È questo venti
per cento una maggioranza strabiliante? Una moltitudine senza pari? A me appare
molto più drammatico per la democrazia che la maggioranza degli italiani si sia
rifiutata di consegnarsi a questa politica -.
Nonostante i suoi calcoli siano corretti le
si potrebbe opporre che la cifra assoluta è comunque elevatissima, mai toccata
finora. - Resta che in termini reali non raggiunge il 21 per cento. E resta che
questa concezione dell’investitura come di un mandato a fare quel che si vuole
è la limpida proiezione dell’idea berlusconiana del comando -.
Salviamo qualcosa a questo Renzi. - Ottimo
comunicatore, ha l’anagrafe davanti a sé. Ma con tutto il rispetto la giovane
età non sembra coniugata a una competenza straordinaria. E da quel che vedo
anche i suoi collaboratori, malgrado l’anagrafe, non paiono godere di
conoscenze particolari, non mostrano attitudini portentose -.
E dove mette la speranza, il governo della
speranza, la possibilità che questo giovane premier cambi l’Italia e lo faccia
per il meglio? - Invidio chi ha speranza e chi la ripone in lui. Trovo che sia
poco per costruire tutto questo palazzone di fiducia. Trovo che finora i fatti
non esistano, ma solo slogan. Che i problemi più duri per l’Italia, la
corruzione e l’evasione fiscale, siano lì nella loro dolorosa integrità. Penso
che questo consenso trasversale non sia un esclusivo merito di Renzi quanto il
frutto della nullità dei suoi antagonisti. Il premier è veloce e scattante. E
qui mi fermo. Siamo alla teoria della grande sveltezza, dizione molto
appropriata -.
Anche molto determinato il premier. Ha visto
come ha fatto fuori i dissidenti del Senato? – (…). …di nuovo siamo al concetto
berlusconiano dell’investitura popolare. Mi hanno votato e faccio come mi pare.
Un falso doppio -.
Il Pd sembra vicino al suo premier. - Lei
dice? A me pare di no. Magari lo teme. È un atteggiamento silente, non un
sostegno convinto, né noto una condivisione della strategia. La sinistra
dovrebbe fare quel che non ha mai fatto: autocritica vera e dura. Dalla caduta
del muro di Berlino in poi ha sbagliato ogni previsione. Ed è stata dentro alla
cultura del ventennio berlusconiano. Ricordiamoci gli otto inutili anni del
governo di centrosinistra. Ha mai sentito un pensiero autocritico? Una
riflessione su quel che è successo? Nulla -.
Adesso hanno vinto - Infatti dicono soltanto
questo: ma Renzi ci fa vincere! E che te ne fai di una vittoria se non hai idee
da promuovere, uno stile da affermare, una visione della vita da illustrare? -.
Dove eravate tutti? Cosa porterete un giorno a
vostra discolpa? Figli o nipoti, un giorno, vi chiederanno allibiti: “dove
eravate voi?”. Ma i conti cominciano a non tornare. Lo “zoccolo duro” che è
stato, quello non ingannabile e non ricattabile, abbandona i mistificatori che
sono all’opera. Ha scritto Marco Travaglio - “Brigate Parioli” – su “il Fatto Quotidiano” del 12 di giugno u.s.:
(…).
Torna in mente un leggendario titolo di Repubblica dopo il trionfo di Renzi
alle Europee 2014: “Parioli, il quartiere più rosso”. Ma soprattutto le
frustate di Leo Longanesi: “Le rivoluzioni cominciano in piazza e finiscono a
tavola”. E di Ennio Flaiano: “Comunista io? Mi spiace, non me lo posso
permettere. Per nulla allarmato dal tracollo suo e del suo partito (all’indomani
delle recentissime elezioni amministrative del 5 di giugno n.d.r.) nelle
zone più popolari (ma anche più popolose) della Capitale, Roberto Giachetti
punta tutte le chance di rimonta sul terrore che dovrebbe attanagliare i
cittadini romani all’idea che Virginia Raggi faccia perdere alla città la
storica occasione delle Olimpiadi del 2024. Come se esistesse un solo romano
sano di mente che, mentre fa lo slalom fra le buche e le montagne di rifiuti
sparse per le strade, scansando le pantegane di dimensioni ormai giurassiche,
sogna a occhi aperti i Giochi olimpici, con annesse colate di cemento e
voragini di bilancio. Bobo Giachetti, anzi Giochetti, è impegnatissimo nella
rincorsa dei voti “di sinistra”, dunque ha pensato bene di attirarli battendosi
come un sol uomo con i compagni Luca di Montezemolo, Giovanni Malagò e
Francesco Gaetano Caltagirone, notoriamente popolarissimi tra i disoccupati e i
diseredati, tutti ansiosi di gareggiare in una nuova disciplina olimpica dopo
il salto in alto, il salto in lungo e il salto con l’asta: il salto del pasto.
L’altra scena madre della sinistra 2.0 è un passaggio del faccia a faccia su
Sky tra Piero Fassino e Chiara Appendino. A un certo punto la Appendino,
esponente di quell’orrendo movimento di destra che – a leggere i giornaloni – è
ormai un tutt’uno con la Lega, pronuncia una parola brutta, diciamo pure una
parolaccia, di quelle che non si dovrebbero mai usare tra galantuomini, a tradimento:
“Povertà”. Già, nella Torino del miracolo olimpico del 2006, seconda città più
indebitata d’Europa, ci sono molti poveri. Troppi. Incuranti delle cronache di
regime che dipingono Torino come la capitale del buongoverno e del regno di
Saturno grazie alla “sinistra” che la governa da 15 anni prima con Chiamparino
(ora presidente della Regione e prima banchiere della Compagnia di San Paolo) e
poi con Fassino, i quartieri popolari un tempo appannaggio della sinistra hanno
premiato i 5Stelle, anziché il Pd. Che, negli anni, s’è trasformato non solo in
un gigantesco comitato d’affari, appoggiato da Fiat, collegio costruttori,
Banca e Compagnia di San Paolo, Compagnia delle Opere e ultimamente pure
dall’ex governatore forzista Ghigo e dall’ex ministro berlusconiano Vietti, ma
anche nel partito dei ricchi e delle grandi opere inutili (tipo Tav). L’altra
sera, su Sky, la Appendino ha ricordato che finora il solo portavoce di Fassino
è costato ai contribuenti un milione di euro. Poi ha citato un dato che in città
tutti conoscono: la Caritas diocesana calcola che, su un’area metropolitana di
1,5 milioni di abitanti, 200 mila sono poveri e di questi 90 mila versano in
condizioni “gravi”. Nel perimetro più ristretto del Comune, sono 100 mila i
torinesi sotto la soglia di povertà. Apriti cielo. Manco la rivale avesse
parlato di scie chimiche, Fassino ha perso le staffe (cosa che gli accade
normalmente) e liquidato i dati Caritas come “errati”. Cioè: il candidato Pd,
anche lui all’inseguimento dei voti di sinistra andati al primo turno un po’
all’ex sindacalista Airaudo un po’ direttamente ai 5Stelle, ha fatto quel che
normalmente farebbe un candidato di destra: ha minimizzato la povertà. Un
autogol plateale, che la sua avversaria ha incassato, finendo il confronto con un
grado di affidabilità del 66% contro il 34 del sindaco uscente (secondo il voto
dei telespettatori sul web). (…).
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