"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 27 giugno 2016

Scriptamanent. 20 “La democrazia del pubblico”.



Da “La democrazia del pubblico e le insidie per il leader” di Marc Lazar, sul quotidiano la Repubblica del 27 di giugno dell’anno 2015: Matteo Renzi e il Partito Democratico stanno attraversando una fase di grande turbolenza: lo attestano i loro insuccessi alle elezioni regionali e amministrative, ma anche la grave crisi del partito a Roma, i cedimenti dell’organizzazione sul territorio, il calo della popolarità del presidente del Consiglio e delle intenzioni di voto per il Pd, le rinnovate tensioni interne e le difficoltà incontrate dal governo per il varo delle sue riforme. Matteo Renzi, che al suo esordio, più di un anno fa, era apparso come una novità, se non addirittura come un modello da seguire per una sinistra europea in crisi, si ritrova dunque a sua volta in difficoltà. Ma vediamo di analizzare la situazione italiana in una prospettiva più ampia, in particolare con riferimento a due principali temi di riflessione. Il primo riguarda la figura del leader. Se Matteo Renzi ha suscitato un così vivo interesse - ma anche forti opposizioni all’interno del suo stesso partito - è perché ha saputo adattarsi pienamente, al pari di altri responsabili della sinistra europea e forse meglio di loro, grazie al suo temperamento, a quella che Bernard Manin ha definito la «democrazia del pubblico ». La quale, a differenza della democrazia del parlamento nel XIX secolo e di quella dei partiti nel XX, è caratterizzata da una minore influenza delle grandi culture politiche, dal declino dei partiti tradizionali, dalla volatilità elettorale, dal peso crescente dell’opinione pubblica nelle diverse forme in cui si esprime (sondaggi, associazionismo, reti sociali ecc.).
Il leader è dunque chiamato a giocare un ruolo determinante per dialogare direttamente coi cittadini, ascoltarli, influenzarli, sedurli - e decidere. In Italia, l’imperativo decisionista è all’origine dell’avvio di riforme della legge elettorale e delle istituzioni, che hanno scatenato e continuano ad alimentare molte polemiche. Il leader deve incarnare la sua politica, comunicare in permanenza, tenersi costantemente in prima linea, rispondere immediatamente (e se possibile anche bene) a qualunque emergenza, data la prodigiosa accelerazione dei tempi della politica. In breve, deve essere forte, come lo sono Matteo Renzi o Manuel Valls in Francia: personaggi che non esitano a farsi forti dell’opinione pubblica contro i propri avversari, compresi quelli interni ai rispettivi partiti. Ma quanto più un leader è forte, tanto più è debole. Un paradosso facile da spiegare: è infatti sovra-esposto, e subisce in prima persona i contraccolpi di qualunque smacco. In passato le sconfitte elettorali colpivano indubbiamente il partito e il suo capo, ma quest’ultimo non ne era direttamente minacciato. Oggi basta il minimo passo falso per indebolire un leader, che quindi è costretto a rilanciare immediatamente una dinamica intorno alla propria figura e ai propri progetti, per non rischiare di vedersi definitivamente destabilizzato. È questa la situazione che affrontano oggi sia Manuel Valls che Matteo Renzi. Il secondo tema di riflessione riguarda le conseguenze della politica seguita da Renzi e da tutti i responsabili della sinistra europea: una politica che consiste nel risanare la finanze pubbliche, favorire una ripresa della crescita, promuovere la competitività delle imprese, alleviare la pressione fiscale, rendere più flessibile il mercato del lavoro per ridurre la disoccupazione, preservare le tutele sociali, sostenere i più deboli, investire nella scuola e nella formazione ecc. Questi orientamenti, spesso contraddittori tra loro e declinati diversamente a seconda dei Paesi, anche se ispirati a una filosofia comune, hanno tuttavia effetti politici rischiosi, in quanto aggravano i dissensi in seno alla sinistra. Nel Pd le dimissioni si susseguono di continuo. In seno al Ps francese gli oppositori di François Hollande e di Manuel Valls si interrogano sul loro futuro, mentre la sindrome Podemos e Syriza scuote la sinistra europea. L’idea e la speranza di creare un’«altra sinistra », o una «sinistra alternativa », peraltro ricorrenti nella storia, stanno nuovamente emergendo nei circoli più militanti. Resta da vedere se un progetto del genere sia realizzabile, e quale possa essere il suo impatto. Chi lo caldeggia si propone di riconquistare un elettorato popolare in via di dispersione. È questo infatti il secondo effetto delle politiche portate avanti dalle sinistre di governo. Molti dei loro elettori le subiscono con sofferenza, non le comprendono o vi si oppongono. Da qui l’astensionismo, il ricorso al voto di protesta o a quello populista, come si è visto recentemente in Danimarca. I movimenti populisti sono assai diversi l’uno dall’altro, ma tutti criticano la «casta», denunciano la gravità della situazione sociale giocando sulle paure dei ceti meno abbienti, sfruttano il disagio democratico, criticano l’Europa. Inoltre le formazioni di estrema destra, ben più influenti di quelle di estrema sinistra, denunciano l’immigrazione e la «minaccia islamica ». Cosa può fare Matteo Renzi (e come lui gli altri leader della sinistra europea) per recuperare quella parte della popolazione che gli ha voltato le spalle? La comunicazione e l’effetto annuncio non bastano più. Contano solo le azioni concrete, soprattutto per riassorbire la disoccupazione. Ma anche il lavoro sul territorio, in particolare quello dei militanti dei partiti e delle associazioni, che non va assolutamente ignorato o disprezzato. Sarebbe un grave errore: perché nella democrazia del pubblico i partiti, profondamente rinnovati, continuano a svolgere una funzione essenziale.

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