Da “La
democrazia del pubblico e le insidie per il leader” di Marc Lazar, sul
quotidiano la Repubblica del 27 di giugno dell’anno 2015: Matteo Renzi e il Partito
Democratico stanno attraversando una fase di grande turbolenza: lo attestano i
loro insuccessi alle elezioni regionali e amministrative, ma anche la grave
crisi del partito a Roma, i cedimenti dell’organizzazione sul territorio, il
calo della popolarità del presidente del Consiglio e delle intenzioni di voto
per il Pd, le rinnovate tensioni interne e le difficoltà incontrate dal governo
per il varo delle sue riforme. Matteo Renzi, che al suo esordio, più di un anno
fa, era apparso come una novità, se non addirittura come un modello da seguire
per una sinistra europea in crisi, si ritrova dunque a sua volta in difficoltà.
Ma vediamo di analizzare la situazione italiana in una prospettiva più ampia,
in particolare con riferimento a due principali temi di riflessione. Il primo
riguarda la figura del leader. Se Matteo Renzi ha suscitato un così vivo
interesse - ma anche forti opposizioni all’interno del suo stesso partito - è
perché ha saputo adattarsi pienamente, al pari di altri responsabili della
sinistra europea e forse meglio di loro, grazie al suo temperamento, a quella
che Bernard Manin ha definito la «democrazia del pubblico ». La quale, a
differenza della democrazia del parlamento nel XIX secolo e di quella dei
partiti nel XX, è caratterizzata da una minore influenza delle grandi culture
politiche, dal declino dei partiti tradizionali, dalla volatilità elettorale,
dal peso crescente dell’opinione pubblica nelle diverse forme in cui si esprime
(sondaggi, associazionismo, reti sociali ecc.).
Il leader è dunque chiamato a
giocare un ruolo determinante per dialogare direttamente coi cittadini, ascoltarli,
influenzarli, sedurli - e decidere. In Italia, l’imperativo decisionista è
all’origine dell’avvio di riforme della legge elettorale e delle istituzioni,
che hanno scatenato e continuano ad alimentare molte polemiche. Il leader deve
incarnare la sua politica, comunicare in permanenza, tenersi costantemente in
prima linea, rispondere immediatamente (e se possibile anche bene) a qualunque
emergenza, data la prodigiosa accelerazione dei tempi della politica. In breve,
deve essere forte, come lo sono Matteo Renzi o Manuel Valls in Francia:
personaggi che non esitano a farsi forti dell’opinione pubblica contro i propri
avversari, compresi quelli interni ai rispettivi partiti. Ma quanto più un
leader è forte, tanto più è debole. Un paradosso facile da spiegare: è infatti
sovra-esposto, e subisce in prima persona i contraccolpi di qualunque smacco.
In passato le sconfitte elettorali colpivano indubbiamente il partito e il suo
capo, ma quest’ultimo non ne era direttamente minacciato. Oggi basta il minimo
passo falso per indebolire un leader, che quindi è costretto a rilanciare
immediatamente una dinamica intorno alla propria figura e ai propri progetti,
per non rischiare di vedersi definitivamente destabilizzato. È questa la
situazione che affrontano oggi sia Manuel Valls che Matteo Renzi. Il secondo
tema di riflessione riguarda le conseguenze della politica seguita da Renzi e
da tutti i responsabili della sinistra europea: una politica che consiste nel
risanare la finanze pubbliche, favorire una ripresa della crescita, promuovere
la competitività delle imprese, alleviare la pressione fiscale, rendere più
flessibile il mercato del lavoro per ridurre la disoccupazione, preservare le
tutele sociali, sostenere i più deboli, investire nella scuola e nella
formazione ecc. Questi orientamenti, spesso contraddittori tra loro e declinati
diversamente a seconda dei Paesi, anche se ispirati a una filosofia comune,
hanno tuttavia effetti politici rischiosi, in quanto aggravano i dissensi in
seno alla sinistra. Nel Pd le dimissioni si susseguono di continuo. In seno al
Ps francese gli oppositori di François Hollande e di Manuel Valls si
interrogano sul loro futuro, mentre la sindrome Podemos e Syriza scuote la
sinistra europea. L’idea e la speranza di creare un’«altra sinistra », o una
«sinistra alternativa », peraltro ricorrenti nella storia, stanno nuovamente
emergendo nei circoli più militanti. Resta da vedere se un progetto del genere
sia realizzabile, e quale possa essere il suo impatto. Chi lo caldeggia si
propone di riconquistare un elettorato popolare in via di dispersione. È questo
infatti il secondo effetto delle politiche portate avanti dalle sinistre di
governo. Molti dei loro elettori le subiscono con sofferenza, non le
comprendono o vi si oppongono. Da qui l’astensionismo, il ricorso al voto di
protesta o a quello populista, come si è visto recentemente in Danimarca. I
movimenti populisti sono assai diversi l’uno dall’altro, ma tutti criticano la
«casta», denunciano la gravità della situazione sociale giocando sulle paure
dei ceti meno abbienti, sfruttano il disagio democratico, criticano l’Europa.
Inoltre le formazioni di estrema destra, ben più influenti di quelle di estrema
sinistra, denunciano l’immigrazione e la «minaccia islamica ». Cosa può fare
Matteo Renzi (e come lui gli altri leader della sinistra europea) per
recuperare quella parte della popolazione che gli ha voltato le spalle? La
comunicazione e l’effetto annuncio non bastano più. Contano solo le azioni
concrete, soprattutto per riassorbire la disoccupazione. Ma anche il lavoro sul
territorio, in particolare quello dei militanti dei partiti e delle
associazioni, che non va assolutamente ignorato o disprezzato. Sarebbe un grave
errore: perché nella democrazia del pubblico i partiti, profondamente
rinnovati, continuano a svolgere una funzione essenziale.
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