Da «La lezione di Tocqueville» di Nadia Urbinati, sul quotidiano la Repubblica
del 4 di giugno dell’anno 2010: (…). …Tocqueville osservava che se i
governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di
stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di
sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in
ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell´opinione dovrebbero preferire il
tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se
attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare
l´intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non
ripristinare l´assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.
L´impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa
sta nel fatto che nei governi che si fondano sull´opinione, come sono quelli
rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all´opinione, la
quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire. È per
questa ragione che l´azione (di un) premier contro i due tribunali - la stampa
e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa
semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di
pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e
perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o
semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare
una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece
ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l´impossibile: vivere di pubblico
senza pubblico. Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse
opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e
l´opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di
vari tipi sul mercato). Ma (un) premier vuole creare il suo pubblico e
vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l´ambizione assurda
dell´assolutismo dispotico nell´era dei media. (…).
I monarchi assoluti dell´età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell´opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c´era era all´interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c´era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l´avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per (un) leader, l´essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un´immagine pubblica, un´immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna (di un) leader con ambizioni assolutisiche nell´era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l´opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione. Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell´immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi. La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell´immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all´udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l´altro senza che si riesca a vederne la fine.
I monarchi assoluti dell´età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell´opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c´era era all´interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c´era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l´avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per (un) leader, l´essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un´immagine pubblica, un´immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna (di un) leader con ambizioni assolutisiche nell´era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l´opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione. Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell´immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi. La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell´immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all´udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l´altro senza che si riesca a vederne la fine.
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