Ha scritto Massimo Recalcati in “Un maestro sa insegnare solo se parla ai
muri”, testo pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 2 di giugno dell’anno
2014: L’insegnamento porta con sé, sempre, una inevitabile esperienza di
solitudine nonostante in esso si tratti di trasmettere un sapere, di farlo
circolare, di condividerlo con altri. Di quella “solitudine” mi veniva di
scrivere alla pagina 115, capitolo XXV, del volume “I professori” – AndreaOppureEditore, (2006) - : (…). È
che nella quotidiana “vita scolastica” non sembra poter esistere una linea
netta di demarcazione tra l’insegnante esperto e tecnico delle discipline e
l’insegnante-uomo- maestro, che si faccia carico dei problemi propri del
navigare tormentoso delle giovani generazioni. E l’aspirazione e l’impegno ad
essere “insegnante-uomo-maestro" predomina, per fortuna, nella maggioranza dei docenti della scuola pubblica
italiana, poiché oggi la scuola si trova a dover affrontare crisi generazionali
delle più complesse, nel quadro di una società in rapida trasformazione sotto
tutti gli aspetti, da quelli economici ai rapporti parentali,
dell’organizzazione del lavoro a quelli della vita associativa e di relazione,
che si riflettono poi inevitabilmente sulla vita stessa delle famiglie e dei
giovani con l’insorgere spesso di gravissime crisi motivazionali ed
identitarie. Una solitudine che accompagna l’educatore/insegnante che,
nella faticosa prassi educativa, cerchi di trovare la via giusta per divenire quel
maestro che “è qualcuno che insegna ciò che non si trova nei libri. Il maestro è
l’uomo il cui insegnamento mi libera e mi permette di essere me stesso. Un
maestro è colui che insegna la sua specialità e qualche altra cosa che è la sicurezza dei gesti e del pensiero,
l’onestà, il gusto, il desiderio di sapere, il coraggio di riflettere,
l’attitudine a giudicare, l’orgoglio di essere un po’ più adulto e la gioia di
disporre di se stesso. Il vero maestro è l’uomo che educa insegnando”, così come ne ha scritto Raniero Regni su “School
in Europe” nel saggio “Essere
insegnanti, divenire maestri”. Massimo Recalcati, che è psicoterapeuta di
scuola lacaniana, aggiunge:
(…). Ogni insegnante, a suo modo, ne ha
fatto esperienza sulla sua pelle: ha parlato ai muri. (…). Parlare ai muri è la
condizione strutturale di ogni insegnamento perché in ogni insegnamento è in
gioco un’impossibilità. Quale? Quella di una trasmissione integrale, senza
resti, trasparente del sapere. La solitudine del maestro non è allora solo una
figura retorica, ma dice qualcosa della postura essenziale di ogni
insegnamento. Se “insegnare” significa letteralmente lasciare una impronta, una
traccia, un segno nell’allievo, è perché esso esclude che la trasmissione possa
ridursi a una clonazione, ovvero alla riproduzione passiva e conformista della
parola del maestro. Al contrario un buon effetto di insegnamento consiste nel
produrre una soggettivazione del sapere a partire dall’impronta che esso lascia
nell’allievo. Questa impronta non è e non deve essere un calco, sebbene ogni
insegnamento porti con sé questo rischio. Per questo i maestri trovano
insopportabili gli allievi che fanno il loro verso. (…). Qualcosa sfugge
sempre, qualcosa non può essere preso nella parola. Non è questa la scommessa
di ogni insegnamento degno di questo nome? I muri, afferma Lacan, «sono fatti
per circondare un vuoto». Insegnare non è provare a circoscrivere questo vuoto,
a dire l’ineffabile, a tradurre in matemi trasmissibili universalmente il
patema singolare della nostra vita? Con la consapevolezza però che non si può
mai dire tutto. Se il sapere umano è attraversato da una faglia non è perché è
impossibile acquisire tutto il sapere, ma perché un limite lo attraversa
strutturalmente: il sapere non può mai venire a capo del senso della vita, il
sapere non può sapere tutto. L’eccedenza della vita lo esorbita scavando al suo
interno una mancanza. Ecco allora da dove sorge un vero insegnamento. Quando il
maestro sa alludere, evocare, portare alla presenza continuamente questo limite
- questa mancanza e questa eccedenza - senza mai pretendere di ridurlo a un
oggetto che possiamo padroneggiare. Il muro che ci separa dalla verità, afferma
Lacan, «è dappertutto», cioè concerne il linguaggio. Tra l’uomo e il mondo c’è
sempre un muro così come tra un uomo e una donna e tra la verità (che sfugge
sempre) e il sapere. Eppure questo muro - il muro del linguaggio - non è solo
una barriera che separa, ma è anche il terreno da cui sorge il dono della
parola che rende possibile la poesia e l’amore, l’umanizzazione della vita e
l’incontro. Per questo, conclude Lacan, la parola «che si indirizza ai muri ha
la proprietà di ripercuotersi». Più che sulla trasmissione efficace di
informazioni (come crede l’odierna pedagogia delle competenze) un insegnamento
dovrebbe preservare quello che non si può trasmettere. O, se si preferisce, può
trasmettere un sapere vero proprio perché sa custodire l’impossibile da sapere.
(…). In ogni maestro, sempre, qualcosa parla («ça parle»), qualcosa che
trascende la parola viene alla parola. Per questo ci ricordiamo così bene le
voci dei maestri che abbiamo avuto. Quella roca e calda, quella forte e
metallica, quella lucida e chirurgica, quella appesa ad un filo. Perché nella
voce appare l’eros, il corpo, la carne della parola. È la voce del maestro a
rendere vivo il sapere, a rianimarlo permanentemente. (…). …l’effett dell’insegnamento consiste nel restituire vita a saperi che potevano sembrare
morti mettendone in rilievo l’inesauribilità. In questa operazione la voce non
è mai inessenziale, non è solo un ponte per la parola o per il pensiero già
costituiti nella mente del maestro. La voce a volte anticipa la parola e il
pensiero. Ogni insegnante sa che deve usare la sua voce per non fare
addormentare i suoi uditori. È il punto minimo da cui scaturisce ogni
insegnamento: tenere sveglio chi ascolta. Ha scritto Domenico Starnone,
in “Solo se interrogato”, della Sua
esperienza scolastica giovanile: (…).
A scuola ho imparato senza apprendere, anzi separando nettamente lo studiare
dall’apprendere. Ho impiegato molto tempo per capire la diversità delle
esperienze che mi pareva di poter significare attraverso i due verbi. Oggi me
ne servo così: imparare era la conseguenza dello studio scolastico: serviva a
procacciarsi le piccole abilità per dare esecuzione corretta a una serie di
atti dovuti alla scuola, serviva a tenersi pronto, a non lasciarsi cogliere in
fallo; apprendere era invece il montare del batticuore, l’accendersi del
cervello, qualcosa come gettarsi per una china a rotta di collo frugando ora in
questo cespuglio ora in quell’altro per non perdere la cosa che si stava inseguendo; e, subito dopo averla afferrata, ecco un bisogno di correre a
dirlo, di renderla comune e raccontare come l’avevo fatta mia e ripensare al
piacere che ne avevo ricavato. Apprendere era desiderio di felicità,
bisogno di riceverne e di darne. Ma era possibile di rado, solo negli spazi
sottratti alla pervasività della scuola, all’esecuzione puntigliosa dei
compiti. Ho separato presto, per esempio, i libri dai libri di scuola. Dai primi
apprendevo, voracemente. Dai secondi toglievo parole, sequenze verbali, le
imparavo, le dimenticavo. Imparare
era il risultato opportunistico dell’obbligo di studiare. Apprendere era
correre per righe e righe, girando le pagine con la testa in tumulto; era
abbandonare un libro per procurarsene un altro subito; era smaniare; era
acquisire risposte solo per porsi meglio le domande che ti stavano a cuore. (…).
È nella e dalla “pervasività della scuola” che nasce
e si rafforza quella che è la “disperante solitudine dell’educare”, ovvero
l’immane “fatica” di divenire “Maestri”.
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