"Doveravatetutti”, lo si
è già detto, è luogo “virtuale” di memoria. Di una memoria che non è lunga, ché
di poco essa sembra sfuggire, o venir fuori, dalla categoria della cronaca. Ma
è pur sempre memoria, per quanto breve, che non ha l’aura di ciò che potranno
essere, un giorno più lontano, le “ricordanze” di un tempo oramai
passato. “Doveravatetutti” è un tentativo di ri-percorrere assieme, come
pazienti viandanti su per gli antichi asperrimi percorsi della fede, un cammino
recente di cosa sia stato, di come sia stato possibile, del “perché”
di cose che sono state reali sorprendendo tutti per la loro verosimiglianza ad
un copione da “feuilleton” scritto magistralmente da un moderno,
spregiudicato guitto d’avanspettacolo. Poiché “(…). In Italia, dopo quasi
vent'anni di reciproche incazzature televisive a somma zero, l'opinione
pubblica si è convertita in emozione pubblica. Abbiamo perso tutti qualcosa.
Perché è tramontata l'idea che, attraverso il confronto, gli uomini possano
arrivare a una posizione quanto più condivisa possibile, cioè che l'opinione
sia un'approssimazione del vero perché una verità esiste comunque. Invece,
nell'informazione per come è consumata e messa in scena oggi, la verità esce
dal quadro, non è più neppure un obbiettivo ideale. L'importante è suscitare
emozioni. E che qualcuno si indigni. Come scrisse nel 1926 Gafyn Llawgoch,
anarchico gallese: - Il capitalismo è così diabolico che ti consegna a casa
pure la tua passione civile -. Alzo gli occhi. (…). Forse la parata di iene e
sciacalletti urlanti che hanno occupato la tv non basta più a illuderci di
partecipare, indignandoci in casa, alla vita democratica del paese. (…). Chissà
perché non si dice mai che uscire di casa è il modo migliore per abitare in una
democrazia”. Lo ha scritto un indignato di sempre, indignato prima
ancora del “doveravatetutti” che potrebbe tornare di moda, come sempre,
quando un “sistema”, un “regime” collassa. Lo ha scritto Giacomo
Papi,
nella Sua rubrica sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”
col titolo “Quelli come Lavitola”. Poiché in quell’affermare Suo che “la
verità esce dal quadro” si coglie in pieno l’opera nefasta compiuta da
un quindicennio abbondante a questa parte, ove puranco la “lingua”, nel senso di
idioma, ha subito un imbarbarimento ed uno straniamento tanto che il suo
utilizzo non compie più il “miracolo” di rendere riconoscibile a tutti
l’appartenenza ad un popolo, ad una terra che sia. Tanto ne è stato lo
stravolgimento, lo snaturamento, nelle trame sue, della lingua intendo dire,
più complesse del suo costrutto, ché han perso di significato tantissime delle
sue parole che sono state come private di un senso ben definito, compiuto e
reale. Ritrovo tra i miei ritagli un foglio de “il Fatto Quotidiano” che
contiene un’intervista concessa alla giornalista-scrittrice Silva Truzzi dal
professor Gustavo Zagrebelsky che ha per titolo “La neolingua del potere: terribilmente povera”. La trascrivo,
di seguito, in parte. (…).
Professore, partiamo dalla questione morale: tanto sbandierata non ha più
nessuna corrispondenza con la realtà. - La morale attiene all’intimo degli
individui, è poco appropriato applicarla alla politica -.
Diciamo etica? - L’etica è il
tessuto di valori e principi della cultura politica che fanno sì che ci si
riconosca in un vivere comune. È lo spirito in cui la res diviene pubblica.
Senza etica pubblica, ciò che deve essere di tutti si trasforma in terreno di
conquista per fini personali. Allora, come si può chiedere di rinunciare a
qualcosa d’individuale per un bene che riguarda tutti? -.
Etica è una parola svuotata. -
Anzi: sospetta. Le espressioni che attengono a un’idea comune sono associate al
pensiero giacobino-totalitario. Quello che riguarda tutti è diventato sinonimo
di ciò che schiaccia la libertà degli individui -.
E libertà? - Lo stesso. Una cosa
è la libertà nel senso di tutto ciò che posso è lecito: la libertà libertina.
Un’altra cosa è la libertà come liberazione dall’oppressione e dal bisogno: la
libertà di cui parla la Costituzione. Oggi, in che senso si parla di libertà?
-.
Solidarietà è un termine desueto?
- Sì. Ha a che vedere con l’etica pubblica. È una parola costituzionale, la
troviamo nell’articolo 2. È la traduzione in termini non
illuministico-rivoluzionari della fraternità, con in meno l’aggressività. La fraternità
è un esempio dell’ambiguità delle parole. La loro forza può trasformarsi in
violenza, la benevolenza può trasformarsi in ferocia. Tra fratelli ci si ama,
ma chi non ci è fratello, se ci pare mettere in pericolo la fratellanza, quello
lo si deve odiare -.
(…). Il lessico della Lega va nel
senso dell’imbarbarimento. Addirittura nella sostituzione della gestualità al
linguaggio, come il dito medio di Bossi. - Ormai è un’icona di una sorta di
riduzione al minimo. La democrazia è un sistema di governo in cui i singoli
sono messi nelle condizioni di ragionare sui fini e sulle scelte che riguardano
la loro vita collettiva e per questo ha bisogno di idee. Un regime autoritario
è nemico delle idee. Democrazia è uguale a tante idee. Le idee vivono
socialmente attraverso le parole -.
Se noi, per paradosso, sapessimo
dire soltanto o sì o no, cosa saremmo? - Un regime plebiscitario, in cui si
risponde con il dito – ma il pollice – rivolto verso l’alto o verso il basso.
Se poi sapessimo solo dire sì, saremmo finiti. Saremmo ridotti a una massa di
manovra in mani altrui. Bisogna coltivare le buone parole, cioè le parole
oneste. Ma bisogna preoccuparsi anche del loro numero -.
Linguaggio troppo scarno? - Gli
esseri umani, quali noi tutti siamo, sono prima di tutto degli animali. Abbiamo
una comune natura: comunichiamo. La marmotta, quando vede un pericolo, lancia
un grido. Gli animali sono come gli uomini ma hanno un numero di segni
linguistici molto più limitato. Tanto più si riducono gli strumenti capaci di
esprimere idee, tanto più ci avviciniamo agli animali. Il lessico televisivo
dei politici è di una povertà spaventosa -.
(…). Facciamo un esempio. - Fuori
dal linguaggio leghista: la discesa in campo di Berlusconi. Sembra un’innocua
immagine sportiva. Sottintende una concezione della politica alla stregua di un
match, dove la posta in gioco è vincere o perdere, sconfiggere l’avversario o
essere da lui sconfitto. Il governo della società, come vero oggetto della politica
passa in secondo piano, viene oscurato dalla partita da giocare. Il potere da
acquisire o da perdere, invece di essere mezzo, diventa fine a se stesso. È ciò
che vediamo tutti i giorni accadere nel nostro Paese, dove la lotta tra le
parti è feroce, ma a che cosa serva, se non a conquistare, accumulare
accrescere il potere, non si vede affatto. A fare le riforme? Ma c’è ancora
qualcuno che ci crede? -.
Un’altra tanto meravigliosa,
quanto trasversale, espressione è non mettere le mani nelle tasche degli
italiani. - Trasversalissima: quando qualcuno inventa una formula volgare o
pericolosa c’è una specie di corsa ad adeguarsi. Cosa sta dietro questa frase?
L’idea che lo Stato sia un borseggiatore. Quindi è chiaro che i cittadini hanno
diritto a cercare di difendersi. È un messaggio implicito -.
Abbiamo assistito anche
all’ingresso in politica del linguaggio romantico. Con espressioni tipo
L’Italia è il paese che amo. - Si, un modus berlusconiano ripreso subito
dall’opposizione. Il documento fondativo del Pd cominciava così: Noi, i democratici,
amiamo l’Italia. È un’operazione che va decrittata: la politica in cui si
mettono i sentimenti diventa la politica dell’amico-nemico e dell’amore-odio.
Il che è molto pericoloso. Bene. Questa “sfogliatura” è stata postata
un giorno di venerdì, che non è l’oggi. Postata il venerdì 25 di novembre
dell’anno 2011. Al tempo del signore venuto da Arcore. Al tempo del suo
defenestramento. Ma che ha trovato un fedele continuatore della sua “prassi”
nell’uomo sedicente “giovane” venuto da Rignano sull’Arno.
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