"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 24 giugno 2016

Sfogliature. 62 “La neolingua del potere”.


"Doveravatetutti”, lo si è già detto, è luogo “virtuale” di memoria. Di una memoria che non è lunga, ché di poco essa sembra sfuggire, o venir fuori, dalla categoria della cronaca. Ma è pur sempre memoria, per quanto breve, che non ha l’aura di ciò che potranno essere, un giorno più lontano, le “ricordanze” di un tempo oramai passato. “Doveravatetutti” è un tentativo di ri-percorrere assieme, come pazienti viandanti su per gli antichi asperrimi percorsi della fede, un cammino recente di cosa sia stato, di come sia stato possibile, del “perché” di cose che sono state reali sorprendendo tutti per la loro verosimiglianza ad un copione da “feuilleton” scritto magistralmente da un moderno, spregiudicato guitto d’avanspettacolo. Poiché “(…). In Italia, dopo quasi vent'anni di reciproche incazzature televisive a somma zero, l'opinione pubblica si è convertita in emozione pubblica. Abbiamo perso tutti qualcosa. Perché è tramontata l'idea che, attraverso il confronto, gli uomini possano arrivare a una posizione quanto più condivisa possibile, cioè che l'opinione sia un'approssimazione del vero perché una verità esiste comunque. Invece, nell'informazione per come è consumata e messa in scena oggi, la verità esce dal quadro, non è più neppure un obbiettivo ideale. L'importante è suscitare emozioni. E che qualcuno si indigni. Come scrisse nel 1926 Gafyn Llawgoch, anarchico gallese: - Il capitalismo è così diabolico che ti consegna a casa pure la tua passione civile -. Alzo gli occhi. (…). Forse la parata di iene e sciacalletti urlanti che hanno occupato la tv non basta più a illuderci di partecipare, indignandoci in casa, alla vita democratica del paese. (…). Chissà perché non si dice mai che uscire di casa è il modo migliore per abitare in una democrazia”. Lo ha scritto un indignato di sempre, indignato prima ancora del “doveravatetutti” che potrebbe tornare di moda, come sempre, quando un “sistema”, un “regime” collassa. Lo ha scritto Giacomo Papi, nella Sua rubrica sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” col titolo “Quelli come Lavitola”. Poiché in quell’affermare Suo che “la verità esce dal quadro” si coglie in pieno l’opera nefasta compiuta da un quindicennio abbondante a questa parte, ove puranco la “lingua”, nel senso di idioma, ha subito un imbarbarimento ed uno straniamento tanto che il suo utilizzo non compie più il “miracolo” di rendere riconoscibile a tutti l’appartenenza ad un popolo, ad una terra che sia. Tanto ne è stato lo stravolgimento, lo snaturamento, nelle trame sue, della lingua intendo dire, più complesse del suo costrutto, ché han perso di significato tantissime delle sue parole che sono state come private di un senso ben definito, compiuto e reale. Ritrovo tra i miei ritagli un foglio de “il Fatto Quotidiano” che contiene un’intervista concessa alla giornalista-scrittrice Silva Truzzi dal professor Gustavo Zagrebelsky che ha per titolo “La neolingua del potere: terribilmente povera”. La trascrivo, di  seguito, in parte. (…).
Professore, partiamo dalla questione morale: tanto sbandierata non ha più nessuna corrispondenza con la realtà. - La morale attiene all’intimo degli individui, è poco appropriato applicarla alla politica -.
Diciamo etica? - L’etica è il tessuto di valori e principi della cultura politica che fanno sì che ci si riconosca in un vivere comune. È lo spirito in cui la res diviene pubblica. Senza etica pubblica, ciò che deve essere di tutti si trasforma in terreno di conquista per fini personali. Allora, come si può chiedere di rinunciare a qualcosa d’individuale per un bene che riguarda tutti? -.
Etica è una parola svuotata. - Anzi: sospetta. Le espressioni che attengono a un’idea comune sono associate al pensiero giacobino-totalitario. Quello che riguarda tutti è diventato sinonimo di ciò che schiaccia la libertà degli individui -.
E libertà? - Lo stesso. Una cosa è la libertà nel senso di tutto ciò che posso è lecito: la libertà libertina. Un’altra cosa è la libertà come liberazione dall’oppressione e dal bisogno: la libertà di cui parla la Costituzione. Oggi, in che senso si parla di libertà? -.
Solidarietà è un termine desueto? - Sì. Ha a che vedere con l’etica pubblica. È una parola costituzionale, la troviamo nell’articolo 2. È la traduzione in termini non illuministico-rivoluzionari della fraternità, con in meno l’aggressività. La fraternità è un esempio dell’ambiguità delle parole. La loro forza può trasformarsi in violenza, la benevolenza può trasformarsi in ferocia. Tra fratelli ci si ama, ma chi non ci è fratello, se ci pare mettere in pericolo la fratellanza, quello lo si deve odiare -.
(…). Il lessico della Lega va nel senso dell’imbarbarimento. Addirittura nella sostituzione della gestualità al linguaggio, come il dito medio di Bossi. - Ormai è un’icona di una sorta di riduzione al minimo. La democrazia è un sistema di governo in cui i singoli sono messi nelle condizioni di ragionare sui fini e sulle scelte che riguardano la loro vita collettiva e per questo ha bisogno di idee. Un regime autoritario è nemico delle idee. Democrazia è uguale a tante idee. Le idee vivono socialmente attraverso le parole -.
Se noi, per paradosso, sapessimo dire soltanto o sì o no, cosa saremmo? - Un regime plebiscitario, in cui si risponde con il dito – ma il pollice – rivolto verso l’alto o verso il basso. Se poi sapessimo solo dire sì, saremmo finiti. Saremmo ridotti a una massa di manovra in mani altrui. Bisogna coltivare le buone parole, cioè le parole oneste. Ma bisogna preoccuparsi anche del loro numero -.
Linguaggio troppo scarno? - Gli esseri umani, quali noi tutti siamo, sono prima di tutto degli animali. Abbiamo una comune natura: comunichiamo. La marmotta, quando vede un pericolo, lancia un grido. Gli animali sono come gli uomini ma hanno un numero di segni linguistici molto più limitato. Tanto più si riducono gli strumenti capaci di esprimere idee, tanto più ci avviciniamo agli animali. Il lessico televisivo dei politici è di una povertà spaventosa -.
(…). Facciamo un esempio. - Fuori dal linguaggio leghista: la discesa in campo di Berlusconi. Sembra un’innocua immagine sportiva. Sottintende una concezione della politica alla stregua di un match, dove la posta in gioco è vincere o perdere, sconfiggere l’avversario o essere da lui sconfitto. Il governo della società, come vero oggetto della politica passa in secondo piano, viene oscurato dalla partita da giocare. Il potere da acquisire o da perdere, invece di essere mezzo, diventa fine a se stesso. È ciò che vediamo tutti i giorni accadere nel nostro Paese, dove la lotta tra le parti è feroce, ma a che cosa serva, se non a conquistare, accumulare accrescere il potere, non si vede affatto. A fare le riforme? Ma c’è ancora qualcuno che ci crede? -.
Un’altra tanto meravigliosa, quanto trasversale, espressione è non mettere le mani nelle tasche degli italiani. - Trasversalissima: quando qualcuno inventa una formula volgare o pericolosa c’è una specie di corsa ad adeguarsi. Cosa sta dietro questa frase? L’idea che lo Stato sia un borseggiatore. Quindi è chiaro che i cittadini hanno diritto a cercare di difendersi. È un messaggio implicito -.
Abbiamo assistito anche all’ingresso in politica del linguaggio romantico. Con espressioni tipo L’Italia è il paese che amo. - Si, un modus berlusconiano ripreso subito dall’opposizione. Il documento fondativo del Pd cominciava così: Noi, i democratici, amiamo l’Italia. È un’operazione che va decrittata: la politica in cui si mettono i sentimenti diventa la politica dell’amico-nemico e dell’amore-odio. Il che è molto pericoloso. Bene. Questa “sfogliatura” è stata postata un giorno di venerdì, che non è l’oggi. Postata il venerdì 25 di novembre dell’anno 2011. Al tempo del signore venuto da Arcore. Al tempo del suo defenestramento. Ma che ha trovato un fedele continuatore della sua “prassi” nell’uomo sedicente “giovane” venuto da Rignano sull’Arno.

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