Da “Pensione crudele” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 10
di giugno dell’anno 2010: (…). Nel Medioevo e nel
Rinascimento europei la stragrande maggioranza della popolazione, il 90%, era
formata da contadini e artigiani (il restante 10% erano nobili, feneant a vario
titolo come i preti, un ridotto manipolo di mercanti che rischiavano in proprio
e un 1% di mendichi, ma era mendico solo chi voleva esserlo, un po' come i
clochard per scelta dei nostri giorni). Contadino o artigiano che fosse l'uomo
preindustriale viveva del suo e sul suo. Il contadino quando dipendeva
formalmente dal feudatario, non era cioè proprietario della terra ma la
deteneva in un possesso secolare, pagava a costui una rendita ridicola come ammette
anche Adam Smith che nota: “Coloro che coltivavano la terra...pagavano una
rendita che non aveva alcun rapporto di equivalenza con la sussistenza che la
terra forniva loro. Una corona, una mezza corona, una pecora, un agnello erano,
pochi anni fa, nelle Highlands, una rendita ordinaria per delle terre che
mantenevano una famiglia” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, III, IV). C'erano
poi le corvées che a noi moderni abituati, almeno concettualmente, alle libertà
individuali, fanno molta impressione perché consistevano in servigi personali
che i contadini, un paio di giorni al mese, a rotazione, dovevano rendere al
feudatario (aggiungersi ai domestici se dava una festa, dava una mano per
qualche altra incombenza, e cose simili). Pagato questo scotto molto relativo
(soprattutto se paragonato alle tasse che noi oggi versiamo allo Stato: fra
rendita del feudatario, imposte reali, decima ecclesiastica, il prelievo non
superò mai il 4-5%) la sussistenza del contadino dipendeva da lui e solo da lui
e dalla sua famiglia. Ma, a parte la fatica (“la terra è bassa” dicono i
contadini), da questo punto di vista non aveva problemi perché, come scrive lo
storico Giuseppe Felloni in Profilo di storia economica dell'Europa dal
Medioevo all'età contemporanea (Giappichelli, p. 107): “Le terre sono
distribuite con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficienza
economica, mentre quelle per loro natura inadatte alla coltivazione (boschi,
pascoli, paludi eccetera) sono usate promiscuamente da tutti, ma entro limiti
ben precisi...le terre...per consentire il libero accesso di quanti
usufruiscono degli usi civici (vale a dire delle numerose servitù, di
spigolatura, di pascolo, di acquatico, di legnatico e via dicendo, che gravano
sulla proprietà e sul possesso privati senza peraltro metterli in discussione –
era un regime "comunitario" non "comunista" della terra,
ndr) devono essere lasciate aperte, senza barriere confinarie”. La concezione
di fondo era che ad ogni nucleo familiare doveva essere garantito il suo "spazio
vitale". Che valeva anche per il mondo artigiano.
Se si prendono gli
Statuti artigiani dell'epoca si leggono prescrizioni per noi, oggi,
inconcepibili: “Non togliere agli altri alcuno dei suoi clienti”; “nessuno deve
allontanare i clienti dal negozio del vicino né distoglierli dall'acquisto con
cenni o gesti o altri segni”. Insomma era proibita la concorrenza, stella
polare del nostro di mondo. Dirà il lettore moderno: ma allora l'artigiano
poteva produrre oggetti scadenti sicuro di cavarsela lo stesso. Non era così.
Non fosse bastato – e bastava – l'orgoglio dell'artigiano di far uscire dalle
proprie mani dei capo-lavori, ci pensavano gli stessi Statuti a stabilire, con
prescrizioni minutissime, degli standard estremamente severi per garantire la qualità
del prodotto. Stiamo parlando dell'economia di sussistenza (sostanzialmente;
autoproduzione e autoconsumo) che è stata in vigore in Europa e nei Paesi del
Terzo mondo finché l'irruzione del modello di sviluppo industriale non ha
cambiato tutti i termini della questione. Per la verità non proprio tutti.
Esiste anche oggi una casta, quella dei politici, che come i nobili dell'ancien
régime, non lavorano, non pagano le tasse su una porzione enorme dei loro
emolumenti (100 mila euro), hanno un diritto proprio. Per il resto la mentalità
del mercante, il più obbrobrioso degli esseri, considerato da tutte le culture
preindustriali, d'oriente e d'occidente, all'ultimo gradino della scala
sociale, sotto gli schiavi, perché si è sempre ritenuto indegno di un uomo
scambiare per denaro, l'ha avuta vinta. Si è nobilitato a
"imprenditore". Noialtri tutti siamo diventati degli "schiavi
salariati", come si esprime Nietzsche, la cui sussistenza dipende da chi
ti fa lavorare (e lo dobbiamo anche ringraziare) e da congiunture economiche e
finanziarie sofisticatissime e lontanissime sulle quali, in barba a tutte le
balle sulla democrazia, non abbiamo nessun controllo né alcuna possibilità di
incidere. Siamo completamente alla mercé altrui e di un meccanismo che è
sfuggito di mano anche agli stessi apprendisti stregoni che pretendono di
guidarlo e marcia ormai per conto suo. Per impedire stragi umane eccessive e
controproducenti (la forza-lavoro, cioè gli schiavi devono essere mantenuti in
vita finché servono a qualcosa) gli Stati, dopo le dure lotte del XIX e del XX
secolo, sono stati costretti a introdurre alcuni istituti: i sussidi di
disoccupazione, la cassa integrazione, eccetera. Per quelli che invece non
servono più a nulla, i vecchi, c'è la pensione. Solo le astrazioni della
Modernità, in combinazione con la smania codificatoria della borghesia per cui
la legge deve entrare anche nelle vicende più private e intime dei rapporti
umani, potevano inventarsi una cosa così crudele come la pensione. Da un giorno
all'altro tu perdi il posto, per quanto modesto, che avevi nella società e
vieni sbattuto nel magazzino dei ferrivecchi. E adesso vai a curare le
gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo. Per cui al pensionato, per
riempire in qualche modo il vuoto che si è venuto a creare nella sua vita, per
"ammazzare il tempo" (ma in realtà è il tempo che ammazza lui) monta
una sorta di ossessione, alla Bouvard e Pécuchet, di conoscenza onnivora: vuol
leggere tutto, vedere tutto, impadronirsi di tecniche e scienze di cui non gli
è mai importato nulla e, di fatto, continua a non importargli nulla.
“Quest'anno mi sono fatto il Nepal”. Non è amore di conoscenza, è una nevrosi
catalogatoria da album di figurine di collezionisti bambini. È mettere una
tacca sul coltello che ha perso il filo e non serve più. Non è un piacere, ma
un dovere, una faticaccia consumata sui pullman dei tour operator specializzati
nella "terza età" o su traghetti carontici più infernali di quelli
dei boat people alimentati almeno dalla speranza, dove ogni tanto qualcuno si
accascia e muore mentre gli altri, come nella Vergogna di Bergman si voltano
dall'altra parte e fingono di non vedere. In età premoderna, preindustriale,
preilluminista, preborghese non c'era una crasi così netta, così feroce, fra
vita attiva e un riposo che somiglia troppo all'eterno riposo. Il capofamiglia,
man mano che invecchiava, lasciava i lavori più pesanti e impegnativi ai membri
giovani del gruppo, ma continuava ad aver-ne la guida e quindi conservava un
ruolo e la sua vita un senso. Adesso che un modello che ha puntato tutto
sull'economia, marginalizzando tutte le altre esigenze umane, sta fallendo
anche e proprio sull'economia, ci si dà, in Europa, a smantellare il welfare,
compreso l'istituto della pensione che verrà portata, si dice, a settant'anni,
cioè ai limiti della vita visto che la media, per gli uomini, è di 78 anni. Alla
luce di quello che abbiamo detto potrebbe essere un vantaggio. Se non fosse
che, nella stragrande maggioranza dei casi, i vecchi (e la vecchiaia, a onta di
altre balle che ci raccontano, comincia, oggi come sempre, a sessant'anni come
sa, nel suo intimo, chiunque abbia compiuto questo fatidico compleanno) e anche
coloro che ancora tali non sono, non reggono le vorticose accelerazioni che,
per competere, la società moderna, con la sua sfavillante tecnologia, impone
alla nostra esistenza. Per cui il nostro futuro è, più o meno, questo: o
schiattare sul campo o languire, negli ultimissimi anni, in una noia e in una
solitudine senza luce e senza speranza. En attendant Godot.
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