Da “Come battere l’oligarchia” di Nadia Urbinati, sul quotidiano “l’Unità”
del 20 di novembre dell’anno 2012: (…). La crescita delle diseguaglianze di
potere sociale e culturale, di opportunità e capacitazioni cambia le relazioni
politiche tra i cittadini introducendo preoccupanti sbilanciamenti di potere di
influire sui processi decisionali e di godere dei diritti dichiarati nelle
costituzioni. Mai come oggi la nostra voce ha pesi diversi. Si tratta, (…),
degli effetti politici del declino dello Stato sociale, del modello keynesiano
o della fine del compromesso tra capitalismo e democrazia, tra lavoro e
cittadinanza. Ma che cosa comporta questo mutamento? Comporta una
ristrutturazione del rapporto tra le classi sociali e una forte propensione del
sistema politico a riflettere questa ristrutturazione in modo da fare scelte
che distribuiscono costi e benefici in maniera proporzionale al potere
economico. Mai come in questi ultimi anni chi ha meno paga più e riceve meno
dallo Stato. Mai come in questi ultimi anni si è invertita la logica del
contributo alla vita della nazione, per cui chi ha reddito da lavoro paga più
di chi ha rendite finanziarie. La diseguaglianza del potere del denaro si
traduce molto esplicitamente in diseguaglianza del potere politico.
Impoverimento e concentrazione della ricchezza vanno insieme: questa è la legge
dell`oligarchia. Ma se gli interessi dei pochi e dei molti si divaricano in
modi drammatici, è prevedibile che decada anche il loro interesse a cooperare o
a cercare compromessi e mediazioni. I «pochi» e i «molti» tornano a essere due
mondi separati. Chi ha tanto, pensa di poter imporre le sue scelte confidando
sulla necessità di chi ha poco. Chi ha poco, sa di non aver nulla da guadagnare
dal compromesso, che comunque è a suo svantaggio poiché non ha forza di
contrattazione. Che non ha insomma nulla da perdere dall`incattivirsi del
conflitto. Le condizioni della cooperazione tra le classi si assottigliano,
lasciando intravedere un fenomeno che non può non destare preoccupazioni,
ovvero la secessione dei pochi dall`interesse generale, e l`erosione della pace
sociale. Disinteresse per i destini della società da parte di chi più ha e
crescita dei rischi di conflitti violenti vanno insieme. (…). Difendere la
democrazia può voler dire fare politiche che hanno una colorazione di classe.
Questa è la realtà che si è imposta con la crisi del 2008. Essa richiede che
l`economia torni ad essere centrale, ma non soltanto per una parte (come già lo
è) e non nella versione dogmatica che il liberismo predica e impone (come già
avviene). (…).
"I nostri regimi possono essere
considerati democratici, noi però non siamo governati democraticamente". (…).
"Oggi la vera scommessa della democrazia non è il carattere democratico
dell'elezione, ma il carattere democratico del governo", (…). "In
passato, ci siamo soprattutto preoccupati di organizzare sistemi elettivi,
preoccupandoci molto meno di come gli eletti avrebbero esercitato il potere.
Ciò aveva un senso quando il Parlamento era all'origine delle leggi. Oggi i
parlamenti hanno cambiato natura, da istanze indipendenti produttrici della
legge sono divenuti istanze subordinate all'esecutivo".
Perché l'esecutivo ha assunto questo ruolo
centrale? "L'evoluzione è iniziata all'epoca della primo conflitto
mondiale, quando l'urgenza della guerra ha anteposto la necessità della
decisione all'elaborazione della norma. In guerra occorre essere nell'azione.
Inoltre, l'inizio del XX secolo ha segnato l'avvento di un mondo più
globalizzato e in rapida evoluzione, nel cui contesto il potere esecutivo è
diventato sempre più importante. Da allora questa tendenza non ha fatto che
rafforzarsi".
In effetti oggi nella società c'è una forte
domanda d'azione e d'autorità. "Soprattutto emerge il bisogno di
efficienza e responsabilità. E un'assemblea non è responsabile: può deliberare,
ma non agire. Da qui il dominio dell'esecutivo, che per altro favorisce il
progressivo spostamento da una politica centrata sui programmi a una politica
centrata sugli uomini. In un mondo mobile e frammentario dove non è più
possibile pianificare il futuro come in passato, ad assicurare la continuità
non sono più i programmi, costantemente rimessi in discussione dalla realtà e
dalle crisi, ma gli uomini. Le persone restano anche se i programmi evolvono.
Anche la mediatizzazione focalizza l'attenzione sugli uomini più che sulle
idee".
La
personalizzazione della politica favorisce cesarismo e populismo? "È un
rischio reale. Se nel XX secolo la patologia della democrazia è stata il
totalitarismo, nel XXI secolo prevalgono le patologie della democrazia
autoritaria. (…). Si tratta di situazioni dove l'elezione è democratica, ma il
governo no. Il moderno cesarismo tende a far saltare le mediazioni tra il capo
e il popolo. Inoltre considera la società come un unico blocco che deve pensare
allo stesso modo, negando la diversità delle opinioni".
Anche le società occidentali sembrano
diventare più sensibili alle sirene del populismo. "La sua semplificazione
sembra far presa. Da un lato i populisti, (…), si presentano come i veri
rappresentanti del popolo, accusando gli altri di rappresentare solo le élite.
Dall'altro, propongono di risolvere i problemi solo attraverso il ripiegamento
della società su se stessa. Il protezionismo è un modo per semplificare il
mondo, rifiutandone le contraddizioni".
Lei dice che occorre definire le
caratteristiche del buon governo per poter realizzare una vera democrazia
d'esercizio. Cosa significa questa espressione? "Una democrazia
d'esercizio è una democrazia che definisce le regole di esercizio democratico
del potere. Un potere infatti è democratico non solo perché è eletto
democraticamente, ma soprattutto perché governa democraticamente. E se un
potere è veramente democratico, la società deve potersene appropriare sempre e
non solo il giorno delle elezioni. Ciò significa che il funzionamento delle
istituzioni deve essere innanzitutto leggibile e comprensibile. Oggi prevalgono
decisioni parziali, incomprensibili per l'opinione pubblica. La prima qualità
democratica è la leggibilità dell'azione di governo che consente ai cittadini
di comprenderla, per poi approvarla o criticarla".
Un altro elemento fondamentale è la
responsabilità? "Certo. Un potere deve essere sempre responsabile e quindi
sottoposto a valutazione. Oggi la valutazione avviene solo al momento dell'elezione.
Abbiamo bisogno di momenti di valutazione più frequenti. Visto che la politica
insiste sull'effetto annuncio più che sulla realtà dell'azione, sottoporre i
politici a valutazioni frequenti significa costringerli a maggior coerenza e
realismo".
Quali sono le altre caratteristiche del buon
governo? "La reattività, che non è solo la capacità di reazione di fronte
agli avvenimenti, ma anche la volontà di uno scambio continuo tra potere e
società. Poi la necessità di parlare con franchezza. Infine l'integrità morale
che consente all'uomo di governo di identificarsi con la propria funzione,
senza utilizzarla come un potere personale al servizio dei propri
interessi".
Nel suo libro (“Le bon gouvernement”
edito da Seuil n.d.r.) ha indicato alcune modalità - consigli,
organismi, commissioni - per implicare maggiormente i cittadini nell'azione di
controllo. Non c'è il rischio di complicare ulteriormente l'azione pubblica,
già abbastanza macchinosa? "Non credo. L'autogoverno è impossibile, ma una
deliberazione pubblica allargata è auspicabile e realizzabile. Abbiamo sempre
pensato la democrazia come l'espressione della voce del popolo, oggi abbiamo
bisogno che essa sia anche l'organizzazione del popolo. E dato che non tutti i
cittadini possono o devono partecipare a tutte queste istanze, l'estrazione a
sorte di alcuni di loro potrebbe essere una novità importante. Ciò sancirebbe
il principio che chiunque è potenzialmente in grado di partecipare: un modo per
rendere di nuovo attraente e credibile la democrazia”.
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