Ha scritto Curzio Maltese sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 26 di febbraio – “Crescono le diseguaglianze, ma la notizia è meno cliccata di quelle su
gattini e gossip” -: La notizia che un club di 62 super ricchi,
53 uomini e 9 donne, ormai possiede la stessa ricchezza dei 3,6 miliardi di
persone più povere del mondo è stata archiviata più o meno come una curiosità
statistica, nel guazzabuglio del «forse non sapevate che» da Settimana
enigmistica cui è ormai ridotta l’informazione globale. In molti siti anche di
giornali seri e importanti è stata meno cliccata delle solite gallerie di
gattini e cagnolini da concorso e degli ultimi aggiornamenti sui ritocchi
estetici delle star di Hollywood. Non ha fatto scandalo neppure l’altro dato
fornito da Oxfam, confederazione internazionale di ong: dal 2010 a oggi l’1 per
cento dei più ricchi si è ulteriormente arricchito del 44 per cento, mentre i
3,6 miliardi di poveri si sono impoveriti del 41 per cento. Una redistribuzione
che in altri periodi non sarebbe avvenuta nemmeno in un secolo e si è invece
compiuta in soli cinque anni. Il mondo intero dovrebbe fermarsi a riflettere su
questi dati terrificanti, i potenti della terra dovrebbero convocare vertici
internazionali e discutere di soluzioni, il Congresso americano o il Parlamento
europeo rinviare ogni altra discussione per concentrarsi sulla lotta a una
disuguaglianza così feroce e pericolosa. Nulla di questo è accaduto. Eppure queste
poche cifre spiegano tanto altro. È qui che “lalinguabatte”. E questo
post può a ben essere considerato il prosieguo del post di ieri 2 di marzo. Poiché
non è comprensibile l’indifferenza collettiva dinnanzi a fatti e dati che dovrebbero suscitare una mobilitazione
generale senza confini. Ed intendo riferirmi al solo mondo dell’Occidente, nel
quale alcune garanzie conquistate nei secoli precedenti consentirebbero una espressione
più viva ed intransigente a fronte di queste denunce che non scuotono oggigiorno
che le poche, pochissime “anime belle”. Ed allora la stampa asservita, i media tutti
globalizzati ed asserviti ad un potere senza responsabilità sociali svolgono
egregiamente la loro funzione catartica - nel senso di liberazione degli
individui dagli affanni del vivere, la soluzione dei quali è preferibile
demandare al proclamatore di turno -, di obnubilamento generale delle
coscienze. Ed è grazie all’opera continua e subdola di quella stampa e di quei media
che gli uomini politici di tutti le coloriture e di tutti gli schieramenti possono
ignorare le dilaganti diseguaglianze oramai planetarie riducendo il loro “far
politica” ad un continuo pronunciamento su aspetti che fungono da “specchietto delle
allodole” e che non intervengano ad interferire con l’azione spregiudicata ed i
rapina del capitalismo del secolo XXI. È così che i “proclami” ed i
pronunciamenti di quei leader non mirano a denunciare, modificare o sovvertite
una ingannevole politica che oramai resta asservita alle scelte della finanza
fine a se stessa, e l’indifferenza indotta nel vasto corpo sociale favorisce il
ruolo ambiguo della politica dei nostri gironi, ridotta ad essere un “convitato
muto” sul grande palcoscenico planetario. Corrivi la stampa ed i media, corrivi
i politici che da tempo hanno dismesso quel ruolo “pedagogico” nei confronti
delle masse ben serviti in ciò dagli strumenti potenti della comunicazione.
Continua
a scrivere Curzio Maltese: L’insorgere di crisi ormai sistematiche, per
cui ormai ai ripetuti annunci di ripresa seguono improvvise frenate e nuove
recessioni. Da dove infatti dovrebbe ripartire una vera ripresa se le famiglie
non hanno soldi da spendere in nuovi consumi? Lo spaventoso aumento dei lussi
migratori dai paesi più poveri, che non diminuiranno né con i muri né con
l’accoglienza, intanto che non si correggerà un’economia malata. Il
moltiplicarsi di focolai di guerra in Africa e in Medio Oriente, dove le
analisi continuano a esagerare l’elemento religioso e a ignorare quello
economico, pure evidentissimo. La stessa crisi morale e politica dell’idea di
Europa, che per i decenni successivi alla seconda guerra mondiale è stata
identificata da almeno due generazioni con la promessa di un benessere
crescente e diffuso fra gli stati membri, mentre oggi è visto come la matrice
di disoccupazione, ingiustizie e impoverimento. Tutte queste tragedie non
nascono dal Corano o da internet o dal populismo, ma si spiegano con quella
differenza fra l’1 per cento che sale sempre più in alto e il 99 per cento che
sta precipitando sul fondo. Il resto, sono chiacchiere. Ma le “chiacchiere”
pagano, e pagano bene “politicamente”. Non avrebbero altrimenti spazio utile
gli illusionisti ed i populisti che prodigiosamente si moltiplicano sullo
scenario politico internazionale. Per parare dove? Si diceva di questo post
come ideale prosieguo del post di ieri 2 di marzo. Crescita, uno 0 virgola qualcosa
in più, pronunciamenti altosonanti e le allodole ad abboccare. È da leggere di
seguito con attenzione “Deflazione il
male oscuro delle monete” di Marco Panara pubblicato sul settimanale “Affari&Finanza”
del 22 di febbraio ultimo scorso: (…). Secondo la Federal Reserve e la Banca
Centrale Europea, il tasso di inflazione di una economia sana è tra l’1,5 e il
2 per cento (la definizione ufficiale è “vicino ma inferiore al 2 per cento).
Quando l’inflazione è più bassa il corpo dell’economia diventa debole e poco
reattivo. (…). La cura per contenere l’inflazione è nota ed è stata più volte
testata: aumentare i tassi di interesse e ridurre la liquidità del sistema.
Sappiamo che funziona, anche se gli effetti collaterali, soprattutto in termini
di disoccupazione, sono pesanti. La cura contro la deflazione invece ha una casistica
senza successi. Dal secondo dopoguerra sino a un paio di anni fa la sola
vittima è stata il Giappone, che dall’inizio del millennio ci combatte senza
soddisfacenti risultati. La Banca centrale di Tokyo le ha tentate tutte, ha
portato i tassi a zero, stampato moneta senza risparmiarsi, comprato titoli di
Stato, obbligazioni delle imprese, azioni, ha inondato il mercato di liquidità.
Non ha avuto gli effetti sperati neanche l’esplosione della spesa pubblica che
ha portato il debito del Giappone al 260 per cento del pil. Niente da fare. Con
lo stesso problema ora si stanno misurando la Bce e molte altre banche centrali
e la strumentazione è la stessa, tassi a zero o negativi, grande liquidità
immessa nel sistema. Non siamo caduti in deflazione ma oscilliamo poco sopra lo
zero. In termini di metafora si potrebbe dire che la corda (monetaria) si tira
ma non si spinge. Deflazione vuol dire che il denaro aumenta il suo potere
d’acquisto e quello che un anno fa potevi comprare con cento oggi lo puoi
comprare con 98. Può sembrare una buona notizia per chi ha soldi in tasca ma
non lo è: perché quel fortunato signore, che sia un consumatore o un
imprenditore, pensando che quello che oggi può comprare a 98 tra un po’ lo
potrà avere a 96, il suo denaro non lo spende e non lo investe. L’economia
rallenta, per liberare il magazzino i venditori abbassano ancora i prezzi e la
deflazione si avvita, i debiti si fanno più pesanti e più difficili da
rimborsare, le aziende falliscono, l’economia si fa sempre più debole. Perciò
va combattuta come una malattia, quindi ci vogliono una diagnosi e una cura.
Un’esperienza del passato che ha qualche somiglianza con quella di oggi non è
finita molto bene. Era la fine del XIX secolo e le merci a basso costo che
arrivavano dall’America precipitarono l’Europa nella deflazione. Durò
parecchio, finché la corsa agli armamenti di Germania e Regno Unito non dettero
una scossa all’occupazione e alla domanda. Si uscì dalla deflazione e si arrivò
alla Prima Guerra Mondiale. Se non è il caso di replicare l’esito,
quell’esperienza un po’ ci può aiutare nella diagnosi e forse nella terapia. La
causa domestica più evidente della deflazione in Europa sta nel basso utilizzo
degli impianti e della manodopera che deriva dal fatto che consumi e investimenti
sono fermi dopo alcuni anni di declino. Con tanti disoccupati i salari non
salgono mentre i prezzi dei beni in cerca di compratori scendono. Tra le cause
esterne quella che viene sempre citata e che ha certamente un ruolo è il crollo
delle materie prime e segnatamente del petrolio. (…). …una crisi dei prezzi del
barile causata da carenza di domanda influisce sulla inflazione core perché
finisce per determinare una riduzione delle esportazioni nette globali, il che
a sua volta porta ad una contrazione degli investimenti. La caduta dei prezzi
petroliferi può avere effetti deflattivi anche se è determinata da eccesso di
offerta se questi eccessi sono ripetuti e si protraggono nel tempo, perché
abbassano le aspettative di crescita dei prezzi di famiglie e imprese che
quindi rinviano acquisti e investimenti. Ad oggi, (…), ambedue gli effetti sono
in atto. Dare però solo al crollo delle materie prime tutta la responsabilità
dell’andamento dell’inflazione rischia di portarci fuori strada. Basta
guardarsi un pochino indietro per vedere che una correlazione diretta non è
scontata: tra il 1999 e il 2007 il prezzo del barile è cresciuto da 18 a 71
dollari, ma in quegli stessi anni l’inflazione globale è scesa dal 6 al 4 per
cento mentre la crescita del pil del pianeta è salita dal 3 al 6 per cento.
Drogata dal debito, certo, ma il fatto che l’inflazione si sia ridotta di un
terzo in anni un cui il ritmo di crescita dell’economia è raddoppiato e il
prezzo del petrolio quadruplicato dovrebbe suggerirci che già allora, ben prima
della grande crisi, erano in azione altre forze. Un primo suggerimento su quali
esse siano ce lo dà l’esperienza della fine dell’800, con la prima
globalizzazione. Allora furono le merci, soprattutto i cereali, a basso costo
in arrivo dall’America a portare la deflazione in Europa. Similmente possiamo
dedurre che la seconda globalizzazione, quella della fine del secolo scorso e
l’inizio di questo, con l’invasione delle merci a basso costo provenienti dalla
Cina e dagli altri paesi emergenti è stato un fattore determinante nel
comprimere l’inflazione anche quando in Occidente consumi e occupazione
crescevano. Quell’impatto è ancora in atto, ma la globalizzazione questa volta
non è la sola forza in azione e neanche la più potente. Accanto infatti c’è la
tecnologia. L’automazione della manifattura ha spinto in basso i costi di
produzione. Ora siamo nella fase della digitalizzazione, che riduce i costi non
solo dei prodotti ma anche dei servizi. Uno degli effetti della
digitalizzazione infatti è la disintermediazione: compriamo i libri e molto
altro da Amazon e non nei negozi, condividiamo le nostre macchine con Blablacar
o quelle a noleggio con il car sharing, usiamo Uber invece dei taxi e per il
turismo AirBnb. La ragione del loro successo è che i prezzi di quei prodotti e
di quei servizi sono più bassi. L’economia nuova (che contiene anche pezzi di
quella vecchia, dai voli di Ryanair ai mobili dell’Ikea) è low cost: dobbiamo
rassegnarci, la digital economy e i nuovi modelli di consumo sono deflattivi. (…).
…la compressione dei prezzi da globalizzazione non si esaurirà nel giro di
pochi anni e quella da digitalizzazione durerà ancora più a lungo, allora
dovremmo prendere in considerazione la possibilità di cambiare prospettiva.
Petrolio o non petrolio, la bassa inflazione e forse la deflazione potrebbero
non essere congiunturali ma strutturali. Dovuti a un cambiamento profondo del
modello economico del quale siamo solo all’inizio e il cui impatto tocca non
solo la moneta ma anche la stabilità sociale, politica e geopolitica. (…).
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