Da quel grande “Maestro” dallo
sconfinato sapere e dalla intelligente, tagliente ironia “Perché mi piace il Barbanera”, sul settimanale “l’Espresso” del 12
di gennaio dell’anno 2012: Quest'anno la crisi si è fatta sentire anche
nell'universo delle agende: tra Natale e Capodanno non ho ricevuto la solita
quantità di calendari, taccuini, volumi celebrativi e altro (che era poi così
difficile smistare tra segretarie, portinai, figli e colf). Le aziende hanno
deciso di risparmiare. Unica eccezione il Barbanera, lo storico lunario che
risale al Settecento e continua a uscire tradizionalmente a Foligno. Anzi
l'editore Campi mi ha anche fatto pervenire una raffinata serie di fascicoli e
fogli cartonati con riproduzioni a colori dai Barbanera degli ultimi
duecentocinquant'anni, e i dovuti commenti storici. Di questo storico lunario
hanno sentito parlare anche coloro che non l'hanno mai sfogliato, trovandolo
magari citato in D'Annunzio ("La gente comune pensa che al mio capezzale
io abbia l'Odissea o l'Iliade, o la Bibbia... Il libro del mio capezzale è
quello ove s'aduna "il fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni":
il Barbanera" (Lettera al parroco di Gardone, 27 febbraio 1934), oppure in
Capuana, o in Pirandello, o in Sciascia. E dei Barbanera aveva parlato con la
sua solita insaziabile curiosità Piero Camporesi in un articoletto del 1982,
"Requiem per un lunario" (ora ne "Il governo del corpo",
Garzanti 1995). "Questi ultimi esemplari del vecchio colportage (“faire
le colportage”, fare il venditore ambulante n.d.r.) sono quasi del tutto scomparsi...
La vecchia Italia dei paesi e delle appartate province si dissolve con loro e
con loro s'inabissa un mondo antico nel quale essi svolgevano una fondamentale
funzione di collegamento fra le classi popolari, specialmente contadine, e la
tipografia per le masse semianalfabete alle quali offrivano, insieme ai pianeti
della fortuna e al libro dei sogni (microtalismanî di speranza spicciola),
almanacchi e lunari indispensabili a prevedere i segreti del futuro anno, utili
a ricordare le opere e i giorni del calendario agricolo e preziosi magazzini di
notizie e di curiosità d'ogni genere...". Camporesi lamentava che
"con lo sprofondarsi del vecchio mondo incominciano a diventare
incomprensibili ai lettori tutti quei tradizionali elementi portanti dei vecchi
lunari... di derivazione colta e liturgica come il calcolo dell'epatta, il
computo ecclesiastico, le quattro tempora... Le previsioni meteorologiche
anticipate mese per mese per tutta la durata dell'anno, agganciate al minuto
calendario dei lavori agricoli, interessano sempre meno una società ormai
urbanizzata anche nelle campagne, un mondo coperto, protetto, artificiale che
guarda il cielo soltanto per caso e distrattamente...". Camporesi non
ignorava che alcuni lunari continuassero a uscire, ma lamentava che il loro
"processo degenerativo" fosse visibile "non solo nello spazio
strabocchevole concesso alla moda ossessiva dell'oroscopo... ma anche nella
presentazione di rubriche gastronomiche, un'altra delle piaghe dei nostri
tempi", in cui si suggeriva "a quel che resta dell'Italia contadina
il pollastro all'indiana o la torta di ciliege alla tedesca". Ora è vero
che il Barbanera 2012 abbonda in fanfaluche astrologiche (ma non lo fanno
persino i grandi quotidiani?) però insegna anche a fare la polenta con
lenticchie. E vorrei che i giovani cittadini d'oggi, che forse non hanno mai
visto un bue e ignorano l'esistenza dell'eucalipto, possano incantarsi in
consigli d'altri tempi, non dico solo come si calcola l'epatta, ma su come si
deve lavare un capo che presenta un buco (bisogna prima rammendarlo, altrimenti
la centrifuga rende il buco più grande - ma ormai un capo con un buco non lo si
butta via per comperarne uno nuovo?), su come si deve stare attenti in gennaio
alla rinite dei gatti, come curare i reumatismi con olio d'eucalipto, come
coltivare sul balcone piante resistenti al freddo (aquilegia, campanula,
ciclamino, erica, genziana eccetera), come mettere a dimora i bulbi di aglio,
perché i piselli si debbano seminare in marzo, la rucola in aprile o la malva
in giugno. Tutti consigli che (con cento altri) ci fanno risentire in armonia
con la natura, e riscoprono il sapere dei nostri nonni - che non era tutto da
buttar via.
Da "Che bell’errore!" di Umberto Eco, prima “Bustina di
Minerva” sul settimanale l’Espresso del 31 di marzo dell’anno 1985: Sto
iniziando una rubrica. Mi è accaduto altre volte e ho sempre avuto la forza di
smettere nel giro di un anno. L’appuntamento settimanale corrode. Questa volta
forse smetterò prima, provo soltanto, per far piacere al Direttore, uomo
potentissimo e vendicativo, e in vena di novità. L’intitolo alla bustina di
Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando
capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini
pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un
giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare.
Valentino Bompiani scriveva (e forse scrive ancora) le idee che gli passavano
per la testa sul retro delle scatole di raffinatissime sigarette turche. Credo
conservi migliaia di ritagli di scatole nei suoi archivi, e molte delle sue
iniziative editoriali sono cominciate così. Dal numero delle schede accumulate
felicemente, direi che il fumo non fa male. Ritengo sia utile appuntare idee
sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. A Lovanio
non hanno ancora finito di decifrare tutto quello che ha scritto, e il rettore
di quella università, che deve stanziare i fondi per la ricerca su quei
crittogrammi, mi diceva tra il preoccupato e il faceto che un uomo che ha
scritto tanti foglietti (credo siano centomila) non può sempre aver scritto
delle cose sensate. Però le cose che ha pubblicate sono piene di senso. Questo
significa che l’umanità pensante si divide tra chi si limita ai Minerva e chi
poi coordina questi appunti in un discorso organico. Lì vengono i nodi al
pettine. Per intanto bustine: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che
ci ha attraversato la mente in autostrada mentre si frenava per non finire in
coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi
si vedrà. Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare
il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni
qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare
lontano con una idea sbagliata. Anzi, con un pacchetto di idee tutte sbagliate:
sbagliato il calcolo delle dimensioni della terra, sbagliato il credito dato a
certi cartografi, sbagliato il progetto di redenzione dei selvaggi asiatici,
sbagliato persino l’investimento economico. Povero Cristoforo finito poi così
tristemente. Eppure, la sua scoperta ha rivoluzionato il nostro millennio. Per
questo genere di scoperte, fatte per sbaglio, gli inglesi hanno un termine che
non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. È curioso che
il termine si formi nel lessico inglese, a causa della storia dei tre principi
di Serendip scritta nel Settecento da Horace Walpole. Perché di fatto la storia
di questi tre principi, che trovano qualcosa cercando qualcosa d’altro, viene
da una antica novella persiana, poi tradotta in italiano nel Rinascimento, poi
passata alle altre culture europee, come anche ci ripeteva Carlo Ginzburg nel
suo famoso saggio sul paradigma indiziario. Il fatto è che tutte le grandi
scoperte avvengono per una certa qual forma di serendipità. E non sto solo
pensando a Madame Curie che lascia la pecblenda sul comodino per disattenzione,
o allo sciagurato Bertoldo il Nero che cerca la polvere di proiezione e scopre
la polvere da sparo. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il
filologo, o il detective) invece di seguire le vie normali di ragionamento si
diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto
inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare - se
fosse vera - i fatti curiosi a cui con le leggi esistenti non si riesce a dare
spiegazione. Ma questa legge inedita non viene fuori al primo colpo: si va per
così dire per farfalle, si passeggia con la mente in territori altrui. In fondo
il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che
Colombo ha fatto per sbaglio: «Visto che non trovo una risposta a questo
problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto
extravagante?». Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano
fecondi. In fondo anche scrivere sulle bustine di Minerva può avere la stessa
funzione. Dipende naturalmente se ci scrive Kant o se ci scrivo io (a cui Luis
Pancorbo ha attribuito una volta l’angoscioso pensiero: «I can’t be Kant»).
Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando
è sicuro di aver ragione. È mica vero quel che ci raccomandavano i genitori:
«Prima di parlare pensa!». Pensa, certo, ma pensa anche ad altro. Le idee
migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto
tue.
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