"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 11 marzo 2016

Paginatre. 27 “Eco, serendipity ed il Barbanera”.



Da quel grande “Maestro” dallo sconfinato sapere e dalla intelligente, tagliente ironia “Perché mi piace il Barbanera”, sul settimanale “l’Espresso” del 12 di gennaio dell’anno 2012: Quest'anno la crisi si è fatta sentire anche nell'universo delle agende: tra Natale e Capodanno non ho ricevuto la solita quantità di calendari, taccuini, volumi celebrativi e altro (che era poi così difficile smistare tra segretarie, portinai, figli e colf). Le aziende hanno deciso di risparmiare. Unica eccezione il Barbanera, lo storico lunario che risale al Settecento e continua a uscire tradizionalmente a Foligno. Anzi l'editore Campi mi ha anche fatto pervenire una raffinata serie di fascicoli e fogli cartonati con riproduzioni a colori dai Barbanera degli ultimi duecentocinquant'anni, e i dovuti commenti storici. Di questo storico lunario hanno sentito parlare anche coloro che non l'hanno mai sfogliato, trovandolo magari citato in D'Annunzio ("La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l'Odissea o l'Iliade, o la Bibbia... Il libro del mio capezzale è quello ove s'aduna "il fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni": il Barbanera" (Lettera al parroco di Gardone, 27 febbraio 1934), oppure in Capuana, o in Pirandello, o in Sciascia. E dei Barbanera aveva parlato con la sua solita insaziabile curiosità Piero Camporesi in un articoletto del 1982, "Requiem per un lunario" (ora ne "Il governo del corpo", Garzanti 1995). "Questi ultimi esemplari del vecchio colportage (“faire le colportage”, fare il venditore ambulante n.d.r.) sono quasi del tutto scomparsi...
La vecchia Italia dei paesi e delle appartate province si dissolve con loro e con loro s'inabissa un mondo antico nel quale essi svolgevano una fondamentale funzione di collegamento fra le classi popolari, specialmente contadine, e la tipografia per le masse semianalfabete alle quali offrivano, insieme ai pianeti della fortuna e al libro dei sogni (microtalismanî di speranza spicciola), almanacchi e lunari indispensabili a prevedere i segreti del futuro anno, utili a ricordare le opere e i giorni del calendario agricolo e preziosi magazzini di notizie e di curiosità d'ogni genere...". Camporesi lamentava che "con lo sprofondarsi del vecchio mondo incominciano a diventare incomprensibili ai lettori tutti quei tradizionali elementi portanti dei vecchi lunari... di derivazione colta e liturgica come il calcolo dell'epatta, il computo ecclesiastico, le quattro tempora... Le previsioni meteorologiche anticipate mese per mese per tutta la durata dell'anno, agganciate al minuto calendario dei lavori agricoli, interessano sempre meno una società ormai urbanizzata anche nelle campagne, un mondo coperto, protetto, artificiale che guarda il cielo soltanto per caso e distrattamente...". Camporesi non ignorava che alcuni lunari continuassero a uscire, ma lamentava che il loro "processo degenerativo" fosse visibile "non solo nello spazio strabocchevole concesso alla moda ossessiva dell'oroscopo... ma anche nella presentazione di rubriche gastronomiche, un'altra delle piaghe dei nostri tempi", in cui si suggeriva "a quel che resta dell'Italia contadina il pollastro all'indiana o la torta di ciliege alla tedesca". Ora è vero che il Barbanera 2012 abbonda in fanfaluche astrologiche (ma non lo fanno persino i grandi quotidiani?) però insegna anche a fare la polenta con lenticchie. E vorrei che i giovani cittadini d'oggi, che forse non hanno mai visto un bue e ignorano l'esistenza dell'eucalipto, possano incantarsi in consigli d'altri tempi, non dico solo come si calcola l'epatta, ma su come si deve lavare un capo che presenta un buco (bisogna prima rammendarlo, altrimenti la centrifuga rende il buco più grande - ma ormai un capo con un buco non lo si butta via per comperarne uno nuovo?), su come si deve stare attenti in gennaio alla rinite dei gatti, come curare i reumatismi con olio d'eucalipto, come coltivare sul balcone piante resistenti al freddo (aquilegia, campanula, ciclamino, erica, genziana eccetera), come mettere a dimora i bulbi di aglio, perché i piselli si debbano seminare in marzo, la rucola in aprile o la malva in giugno. Tutti consigli che (con cento altri) ci fanno risentire in armonia con la natura, e riscoprono il sapere dei nostri nonni - che non era tutto da buttar via.

Da "Che bell’errore!" di Umberto Eco, prima “Bustina di Minerva” sul settimanale l’Espresso del 31 di marzo dell’anno 1985: Sto iniziando una rubrica. Mi è accaduto altre volte e ho sempre avuto la forza di smettere nel giro di un anno. L’appuntamento settimanale corrode. Questa volta forse smetterò prima, provo soltanto, per far piacere al Direttore, uomo potentissimo e vendicativo, e in vena di novità. L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare. Valentino Bompiani scriveva (e forse scrive ancora) le idee che gli passavano per la testa sul retro delle scatole di raffinatissime sigarette turche. Credo conservi migliaia di ritagli di scatole nei suoi archivi, e molte delle sue iniziative editoriali sono cominciate così. Dal numero delle schede accumulate felicemente, direi che il fumo non fa male. Ritengo sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. A Lovanio non hanno ancora finito di decifrare tutto quello che ha scritto, e il rettore di quella università, che deve stanziare i fondi per la ricerca su quei crittogrammi, mi diceva tra il preoccupato e il faceto che un uomo che ha scritto tanti foglietti (credo siano centomila) non può sempre aver scritto delle cose sensate. Però le cose che ha pubblicate sono piene di senso. Questo significa che l’umanità pensante si divide tra chi si limita ai Minerva e chi poi coordina questi appunti in un discorso organico. Lì vengono i nodi al pettine. Per intanto bustine: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che ci ha attraversato la mente in autostrada mentre si frenava per non finire in coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi si vedrà. Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare lontano con una idea sbagliata. Anzi, con un pacchetto di idee tutte sbagliate: sbagliato il calcolo delle dimensioni della terra, sbagliato il credito dato a certi cartografi, sbagliato il progetto di redenzione dei selvaggi asiatici, sbagliato persino l’investimento economico. Povero Cristoforo finito poi così tristemente. Eppure, la sua scoperta ha rivoluzionato il nostro millennio. Per questo genere di scoperte, fatte per sbaglio, gli inglesi hanno un termine che non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. È curioso che il termine si formi nel lessico inglese, a causa della storia dei tre principi di Serendip scritta nel Settecento da Horace Walpole. Perché di fatto la storia di questi tre principi, che trovano qualcosa cercando qualcosa d’altro, viene da una antica novella persiana, poi tradotta in italiano nel Rinascimento, poi passata alle altre culture europee, come anche ci ripeteva Carlo Ginzburg nel suo famoso saggio sul paradigma indiziario. Il fatto è che tutte le grandi scoperte avvengono per una certa qual forma di serendipità. E non sto solo pensando a Madame Curie che lascia la pecblenda sul comodino per disattenzione, o allo sciagurato Bertoldo il Nero che cerca la polvere di proiezione e scopre la polvere da sparo. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il filologo, o il detective) invece di seguire le vie normali di ragionamento si diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare - se fosse vera - i fatti curiosi a cui con le leggi esistenti non si riesce a dare spiegazione. Ma questa legge inedita non viene fuori al primo colpo: si va per così dire per farfalle, si passeggia con la mente in territori altrui. In fondo il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che Colombo ha fatto per sbaglio: «Visto che non trovo una risposta a questo problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto extravagante?». Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano fecondi. In fondo anche scrivere sulle bustine di Minerva può avere la stessa funzione. Dipende naturalmente se ci scrive Kant o se ci scrivo io (a cui Luis Pancorbo ha attribuito una volta l’angoscioso pensiero: «I can’t be Kant»). Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di aver ragione. È mica vero quel che ci raccomandavano i genitori: «Prima di parlare pensa!». Pensa, certo, ma pensa anche ad altro. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue.

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