"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 6 marzo 2016

Paginatre. 25 “Populismo e disuguaglianze insostenibili”.



Da “La politica dell'altrove” di Ezio Mauro, sul quotidiano la Repubblica del 22 di dicembre dell’anno 2015: (…). …il populismo è la più moderna interpretazione di una politica ridotta ad una serie continua di sollecitazioni e di impulsi  -  più che di idee e valori  -  trasmessi da un leader trasformato in attore politico (performer) nei confronti di una base popolare a cui non chiede partecipazione, ma una delega periodica e una vibrazione di consenso continua. Lo scambio avviene sulla vecchia frontiera tra il cittadino e lo Stato moderno, quella frontiera dove si negoziano quote di libertà in cambio di quote di sicurezza. Per un paradosso drammatico, mentre nella fase che viviamo aumentano le paure legittime e anche quelle meno razionali, lo Stato nazionale fatica sempre più a garantire la sicurezza che gli viene richiesta. Il cittadino avverte che la crisi è senza governo; capisce che questo deficit è figlio di fenomeni globali che portano la situazione fuori controllo; si accorge che rivolgere le sue richieste allo Stato nazionale è un'abitudine novecentesca ormai fuori corso, perché il potere vero sta negli spazi transnazionali dei flussi finanziari e dei flussi d'informazione. Dunque il potere fa ormai il fixing in un altrove irraggiungibile, che mette fuori gioco le sovranità, il governo tradizionale e il controllo cosiddetto democratico. Perché l'altrove non ha istituzioni, né costituzioni: vive senza. Ma se quell'altrove è irraggiungibile, allora la politica è una pura operazione mimetica del reale, perché la posta in gioco è fittizia. E dunque il sistema diventa prima lontano, poi indifferente, quindi estraneo al cittadino, che entra anche lui in un "altrove": diserta il voto o si rifugia nel voto più semplice di rifiuto del sistema. Rifiuta lo Stato e il meccanismo democratico che gli dà forma, ritenendo che questa sia l'ultima ribellione possibile, o addirittura la più forte, quella finale. Senza accorgersi che nel momento in cui lui si pone fuori dalla rete della vicenda pubblica rifiutando di farne parte, quando l'esercizio dei suoi diritti è esclusivamente individuale e non si combina con gli altri, anche lui conta per uno, e non interessa più allo Stato se non come unità da computare sterilmente nei sondaggi, e da ammassare nel voto residuo, al netto delle astensioni. È qui, in questo crinale tra l'esserci e il non esserci, che si gonfia il sentimento dell'antipolitica. Un sentimento più che un pensiero. In questi anni di crescita del populismo non è infatti nato un pensiero economico alternativo al liberismo che ci ha portati dentro la crisi, una moderna interpretazione dell'Occidente (…) una nuova teoria dell'accoglienza e della sicurezza che permetta di rispondere alle domande di umanità che arrivano dall'ondata dei migranti rispondendo nello stesso tempo alle paure e alla richiesta di protezione che vengono dalle fasce più deboli della nostra popolazione: i più anziani, i più soli, quelli che vivono nelle grande periferia del Paese. No: è nata solo una coltivazione delle paure, irrigate e concimate da slogan strumentali, in quella semplificazione che è la vera forma espressiva del populismo e non reggerebbe mai ad una prova di governo, ma è perfetta per raggiungere le solitudini impaurite d'inizio secolo, chiuse a doppia mandata nel grande tinello italiano. Un pensiero contratto a slogan che non serve a contrastare la paura ma a confermarla quasi fisicamente, promettendo barriere, muri, esclusioni, frontiere. Tutto ciò non accadrebbe se la politica svolgesse il suo compito. Ma nel momento in cui ai partiti mancano storie, tradizioni e valori (tutto ciò che fa muovere le bandiere: che infatti restano flosce come sulla luna), ogni cosa diventa istantanea e istintiva, spesso anche isterica, l'atto politico non c'è più, soppiantato dal gesto politico che si consuma mentre si compie, nell'esemplarità artificiale di una performance ridotta a spettacolo pirotecnico, di cui dopo il botto resta solo la cenere. Il vuoto della politica, o peggio, genera solitudine repubblicana a cui si crede di rispondere con secessioni private, come se fosse possibile cercare risposte individuali a problemi collettivi.
La politica ufficiale vive su una platea di attenzione e di interlocuzione ogni giorno sempre più ridotta, consumata, ristretta e si rivolge dunque ad una parte fortemente minoritaria di popolazione mentre il resto si perde e si disperde, diventando irraggiungibile e soprattutto rinunciando ad essere rappresentata. Questa è la vera novità dell'epoca: in una fase di esplosione della rappresentanza formale (James Fishkin ha calcolato addirittura in 101 i "rappresentanti" da lui eletti, dal presidente degli Stati Uniti allo sceriffo, ai consiglieri della scuola) molti cittadini si spogliano coscientemente della cittadinanza attiva rinunciando ad essere rappresentati, dunque a pretendere fedeltà al mandato e a stabilire un vincolo preciso tra eletto ed elettore. (…). Oggi saltano (…) le culture politiche che hanno determinato la fisionomia parlamentare dell'ultimo secolo e la forma stessa delle istituzioni, il calco di pensiero che ha dato forma alla parte pubblica del Novecento. La risposta può essere trovata solo nell'efficacia della politica, che deve tornare a giustificare se stessa, dimostrando di saper governare i fenomeni, garantendo i cittadini nella sicurezza e nel cambiamento; e nella ricerca di un fondamento culturale per l'agire politico, che renda i partiti distinguibili in nome di valori, e non confusi in quella prassi indistinta che si riassume nel nuovo mantra secondo cui "destra e sinistra sono ormai superate": e naturalmente chi lo dice è già compiutamente di destra. Bisogna sostituire una storia credibile, in cui ci si possa riconoscere, alle opposte propagande. Bisogna dire la verità al Paese. Solo così si può contendere ai populisti il popolo, e si può passare dal popolo ai cittadini.

Da “Il male dei partiti e il populismo” di Piero Ignazi, sul quotidiano la Repubblica del 23 di dicembre dell’anno 2015: (…). I partiti non sanno più interpretare le domande dei cittadini. Sono diventati sordi e autoreferenziali, accusati di pensare solo a loro stessi, per accumulare potere e salvare le poltrone. Non per nulla la fiducia nei loro confronti è precipitata. C’è una sorta di ritiro della delega in giro per l’Europa. I destini collettivi non vengono più affidati a loro. Perché non ci si fida più, evidentemente. La crisi viene da lontano. Sta scoppiando ora con sempre maggiore evidenza ma maturava da più di un ventennio. Già negli anni Novanta, in tutte le democrazie avanzate, serpeggiava nelle opinioni pubbliche la disaffezione nei confronti dei partiti. In Germania venne persino coniato un nuovo termine per indicare questo sentimento: Parteiverdossenheit. Cosa stava succedendo? Venivano a maturazione le difficoltà di un modello organizzativo e di una modalità di rapporto con la società ancora tutti dentro la storia del Novecento. Il partito di massa, benché già criticato e sottoposto a revisione alla fine degli anni Sessanta, rimaneva l’impianto principe su cui si fondavano i partiti. L’unico attacco, teorico e politico, a quel modello venne dalle formazioni ecologiste alla fine degli anni Ottanta. Un successo di nicchia, in realtà, con l’unica, corposa, eccezione della Germania dove i Grünen riuscirono ad essere una presenza politica rilevante, e ad indicare un nuovo modo di far politica. I Grünen si connotarono come una struttura de-burocratizzata, de-professionalizzata, egualitaria nel genere, iperdemocratica nel processo decisionale. Tutti cambiamenti profondi nel modo di far politica. E tutti indirizzati a poter mantenersi in presa diretta con la base. Di quella ventata, però, non è rimasto molto sia perché la democrazia di base è diventata virtuale e internettiana, sia perché anche i partiti verdi hanno subìto, chi più chi meno, la legge ferrea dell’oligarchia, con la creazione di una élite di politici professionali. E sono entrati in un cono d’ombra. I nuovi partiti che sono emersi negli ultimi anni, come il M5S e Podemos, seguono una traiettoria diversa. (Syriza è un’altra cosa in quanto non nasce dal nulla bensì ha dietro di sé strutture consolidate, seppur minoritarie, e classi politiche in buona parte rodate). La loro novità e freschezza è appealing per opinioni pubbliche scontente e frustrate. Il loro richiamo ad un politica alternativa rispetto a quella degli “altri”, ingolfata di compromessi, succube dei “poteri forti”, corrotta e corruttrice, convince scettici e delusi, una moltitudine di cittadini che ha perso fiducia nella politica dei partiti tradizionali e crede, vuole credere, che esista una alternativa pura e pulita. Anche dall’altra parte dello schieramento politico, i partiti popu-listi, che incarnano una estrema destra post-industriale, godono di credito. Sono loro, solo loro, gridano nelle piazze riprendendo l’antico slogan di Le Pen padre, a dire a voce alta quello che tutti pensano e mormorano sottovoce. Sono loro, solo loro, a prendersi cura della gente comune, dimenticata dalle élite ricche e potenti, mediatizzate e intellettualistiche. Sono loro, solo loro, a difendere la nazione minacciata dall’invasione degli stranieri e dalle autorità sovranazionali, Unione Europea in testa. Da destra e da sinistra vengono offerte parole che leniscono quel senso di abbandono e di estraneità che, per motivi diversi — economici, culturali, politici — attanaglia parte dell’elettorato. Queste parole attraggono sempre di più, anche se il loro richiamo rimane confinato in dimensioni contenute. I partiti tradizionali faticano a prendere le misure di questa offensiva perché sono diventati strutture che sfruttano le risorse pubbliche per la loro sopravvivenza, perché hanno “allevato” classi dirigenti voraci e corrotte (soprattutto a livello locale), perché promuovono i fedeli più che i meritevoli, perché vivono in mondo chiuso, autoreferenziale. I partiti tradizionali sono sempre alla rincorsa delle nuove formazioni. A volte ne scimmiottano le modalità, altre volte inseguono le loro proposte, come è successo in Francia dopo i fatti del 13 novembre, senza capire che in questo modo spianano loro la strada. Per sconfiggere l’assalto dei populisti e degli estremisti non resta che uscire dai palazzi, piccoli e grandi, reali e virtuali, e ritornare a far politica tra la gente dimostrando che serietà, onestà e parsimonia sono ancora monete di buon conio per la politica contemporanea.

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