Da “La
politica dell'altrove” di Ezio Mauro, sul quotidiano la Repubblica del 22 di
dicembre dell’anno 2015: (…). …il populismo è la più moderna
interpretazione di una politica ridotta ad una serie continua di sollecitazioni
e di impulsi - più che di idee e valori -
trasmessi da un leader trasformato in attore politico (performer) nei
confronti di una base popolare a cui non chiede partecipazione, ma una delega
periodica e una vibrazione di consenso continua. Lo scambio avviene sulla
vecchia frontiera tra il cittadino e lo Stato moderno, quella frontiera dove si
negoziano quote di libertà in cambio di quote di sicurezza. Per un paradosso
drammatico, mentre nella fase che viviamo aumentano le paure legittime e anche
quelle meno razionali, lo Stato nazionale fatica sempre più a garantire la
sicurezza che gli viene richiesta. Il cittadino avverte che la crisi è senza governo;
capisce che questo deficit è figlio di fenomeni globali che portano la
situazione fuori controllo; si accorge che rivolgere le sue richieste allo
Stato nazionale è un'abitudine novecentesca ormai fuori corso, perché il potere
vero sta negli spazi transnazionali dei flussi finanziari e dei flussi
d'informazione. Dunque il potere fa ormai il fixing in un altrove
irraggiungibile, che mette fuori gioco le sovranità, il governo tradizionale e
il controllo cosiddetto democratico. Perché l'altrove non ha istituzioni, né
costituzioni: vive senza. Ma se quell'altrove è irraggiungibile, allora la
politica è una pura operazione mimetica del reale, perché la posta in gioco è
fittizia. E dunque il sistema diventa prima lontano, poi indifferente, quindi
estraneo al cittadino, che entra anche lui in un "altrove": diserta
il voto o si rifugia nel voto più semplice di rifiuto del sistema. Rifiuta lo
Stato e il meccanismo democratico che gli dà forma, ritenendo che questa sia
l'ultima ribellione possibile, o addirittura la più forte, quella finale. Senza
accorgersi che nel momento in cui lui si pone fuori dalla rete della vicenda
pubblica rifiutando di farne parte, quando l'esercizio dei suoi diritti è
esclusivamente individuale e non si combina con gli altri, anche lui conta per
uno, e non interessa più allo Stato se non come unità da computare sterilmente
nei sondaggi, e da ammassare nel voto residuo, al netto delle astensioni. È
qui, in questo crinale tra l'esserci e il non esserci, che si gonfia il
sentimento dell'antipolitica. Un sentimento più che un pensiero. In questi anni
di crescita del populismo non è infatti nato un pensiero economico alternativo
al liberismo che ci ha portati dentro la crisi, una moderna interpretazione
dell'Occidente (…) una nuova teoria dell'accoglienza e della sicurezza che
permetta di rispondere alle domande di umanità che arrivano dall'ondata dei
migranti rispondendo nello stesso tempo alle paure e alla richiesta di
protezione che vengono dalle fasce più deboli della nostra popolazione: i più
anziani, i più soli, quelli che vivono nelle grande periferia del Paese. No: è
nata solo una coltivazione delle paure, irrigate e concimate da slogan
strumentali, in quella semplificazione che è la vera forma espressiva del
populismo e non reggerebbe mai ad una prova di governo, ma è perfetta per
raggiungere le solitudini impaurite d'inizio secolo, chiuse a doppia mandata
nel grande tinello italiano. Un pensiero contratto a slogan che non serve a
contrastare la paura ma a confermarla quasi fisicamente, promettendo barriere,
muri, esclusioni, frontiere. Tutto ciò non accadrebbe se la politica svolgesse
il suo compito. Ma nel momento in cui ai partiti mancano storie, tradizioni e
valori (tutto ciò che fa muovere le bandiere: che infatti restano flosce come sulla
luna), ogni cosa diventa istantanea e istintiva, spesso anche isterica, l'atto
politico non c'è più, soppiantato dal gesto politico che si consuma mentre si
compie, nell'esemplarità artificiale di una performance ridotta a spettacolo
pirotecnico, di cui dopo il botto resta solo la cenere. Il vuoto della
politica, o peggio, genera solitudine repubblicana a cui si crede di rispondere
con secessioni private, come se fosse possibile cercare risposte individuali a
problemi collettivi.
La politica ufficiale vive su una platea di attenzione e
di interlocuzione ogni giorno sempre più ridotta, consumata, ristretta e si
rivolge dunque ad una parte fortemente minoritaria di popolazione mentre il
resto si perde e si disperde, diventando irraggiungibile e soprattutto
rinunciando ad essere rappresentata. Questa è la vera novità dell'epoca: in una
fase di esplosione della rappresentanza formale (James Fishkin ha calcolato
addirittura in 101 i "rappresentanti" da lui eletti, dal presidente
degli Stati Uniti allo sceriffo, ai consiglieri della scuola) molti cittadini
si spogliano coscientemente della cittadinanza attiva rinunciando ad essere
rappresentati, dunque a pretendere fedeltà al mandato e a stabilire un vincolo
preciso tra eletto ed elettore. (…). Oggi saltano (…) le culture politiche che
hanno determinato la fisionomia parlamentare dell'ultimo secolo e la forma
stessa delle istituzioni, il calco di pensiero che ha dato forma alla parte
pubblica del Novecento. La risposta può essere trovata solo nell'efficacia della
politica, che deve tornare a giustificare se stessa, dimostrando di saper
governare i fenomeni, garantendo i cittadini nella sicurezza e nel cambiamento;
e nella ricerca di un fondamento culturale per l'agire politico, che renda i
partiti distinguibili in nome di valori, e non confusi in quella prassi
indistinta che si riassume nel nuovo mantra secondo cui "destra e sinistra
sono ormai superate": e naturalmente chi lo dice è già compiutamente di
destra. Bisogna sostituire una storia credibile, in cui ci si possa
riconoscere, alle opposte propagande. Bisogna dire la verità al Paese. Solo
così si può contendere ai populisti il popolo, e si può passare dal popolo ai
cittadini.
Da “Il male
dei partiti e il populismo” di Piero Ignazi, sul quotidiano la Repubblica
del 23 di dicembre dell’anno 2015: (…). I partiti non sanno più interpretare le
domande dei cittadini. Sono diventati sordi e autoreferenziali, accusati di pensare
solo a loro stessi, per accumulare potere e salvare le poltrone. Non per nulla
la fiducia nei loro confronti è precipitata. C’è una sorta di ritiro della
delega in giro per l’Europa. I destini collettivi non vengono più affidati a
loro. Perché non ci si fida più, evidentemente. La crisi viene da lontano. Sta
scoppiando ora con sempre maggiore evidenza ma maturava da più di un ventennio.
Già negli anni Novanta, in tutte le democrazie avanzate, serpeggiava nelle
opinioni pubbliche la disaffezione nei confronti dei partiti. In Germania venne
persino coniato un nuovo termine per indicare questo sentimento:
Parteiverdossenheit. Cosa stava succedendo? Venivano a maturazione le
difficoltà di un modello organizzativo e di una modalità di rapporto con la società
ancora tutti dentro la storia del Novecento. Il partito di massa, benché già
criticato e sottoposto a revisione alla fine degli anni Sessanta, rimaneva
l’impianto principe su cui si fondavano i partiti. L’unico attacco, teorico e
politico, a quel modello venne dalle formazioni ecologiste alla fine degli anni
Ottanta. Un successo di nicchia, in realtà, con l’unica, corposa, eccezione
della Germania dove i Grünen riuscirono ad essere una presenza politica
rilevante, e ad indicare un nuovo modo di far politica. I Grünen si connotarono
come una struttura de-burocratizzata, de-professionalizzata, egualitaria nel
genere, iperdemocratica nel processo decisionale. Tutti cambiamenti profondi
nel modo di far politica. E tutti indirizzati a poter mantenersi in presa
diretta con la base. Di quella ventata, però, non è rimasto molto sia perché la
democrazia di base è diventata virtuale e internettiana, sia perché anche i
partiti verdi hanno subìto, chi più chi meno, la legge ferrea dell’oligarchia,
con la creazione di una élite di politici professionali. E sono entrati in un
cono d’ombra. I nuovi partiti che sono emersi negli ultimi anni, come il M5S e
Podemos, seguono una traiettoria diversa. (Syriza è un’altra cosa in quanto non
nasce dal nulla bensì ha dietro di sé strutture consolidate, seppur
minoritarie, e classi politiche in buona parte rodate). La loro novità e
freschezza è appealing per opinioni pubbliche scontente e frustrate. Il loro
richiamo ad un politica alternativa rispetto a quella degli “altri”, ingolfata
di compromessi, succube dei “poteri forti”, corrotta e corruttrice, convince
scettici e delusi, una moltitudine di cittadini che ha perso fiducia nella
politica dei partiti tradizionali e crede, vuole credere, che esista una
alternativa pura e pulita. Anche dall’altra parte dello schieramento politico,
i partiti popu-listi, che incarnano una estrema destra post-industriale, godono
di credito. Sono loro, solo loro, gridano nelle piazze riprendendo l’antico
slogan di Le Pen padre, a dire a voce alta quello che tutti pensano e mormorano
sottovoce. Sono loro, solo loro, a prendersi cura della gente comune,
dimenticata dalle élite ricche e potenti, mediatizzate e intellettualistiche.
Sono loro, solo loro, a difendere la nazione minacciata dall’invasione degli stranieri
e dalle autorità sovranazionali, Unione Europea in testa. Da destra e da
sinistra vengono offerte parole che leniscono quel senso di abbandono e di
estraneità che, per motivi diversi — economici, culturali, politici —
attanaglia parte dell’elettorato. Queste parole attraggono sempre di più, anche
se il loro richiamo rimane confinato in dimensioni contenute. I partiti
tradizionali faticano a prendere le misure di questa offensiva perché sono
diventati strutture che sfruttano le risorse pubbliche per la loro
sopravvivenza, perché hanno “allevato” classi dirigenti voraci e corrotte
(soprattutto a livello locale), perché promuovono i fedeli più che i
meritevoli, perché vivono in mondo chiuso, autoreferenziale. I partiti
tradizionali sono sempre alla rincorsa delle nuove formazioni. A volte ne
scimmiottano le modalità, altre volte inseguono le loro proposte, come è
successo in Francia dopo i fatti del 13 novembre, senza capire che in questo
modo spianano loro la strada. Per sconfiggere l’assalto dei populisti e degli
estremisti non resta che uscire dai palazzi, piccoli e grandi, reali e
virtuali, e ritornare a far politica tra la gente dimostrando che serietà,
onestà e parsimonia sono ancora monete di buon conio per la politica
contemporanea.
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