Prendiamo le prime pagine – e solamente
quelle per carità, quelle che strillano di più e fanno da megafono del potere -
di uno dei due quotidiani che continuo a frequentare ancora. Perché ancora? Presto
detto. Un tempo acquistavo ed ho acquistato sino all’ultima sua chiusura – a quando
la prossima? – il quotidiano di quello che fu il “piccì”. Un legame di fedeltà
che veniva da lontano e che ha segnato – quel legame intendo dire - la mia vita
adolescenziale, la mia giovinezza, la cosiddetta maturità (ma quando un essere
umano possa considerarsi maturo non oso stabilirlo. Propendo per un divenire dell’umano
che non abbia traguardi o limiti), ma non ho potuto continuare in quel legame
alla luce del nuovo assetto padronale ed editoriale di quello che fu il grande giornale
fondato da Antonio Gramsci. Del quotidiano al quale ho all’inizio accennato
cominciano ad annoiarmi ed impensierirmi gli editoriali, i ditirambi e quant’altro
abbia a trasformare un giornale dalla sua naturale vocazione di controllore del
potere in un cane fedele, in quella che definirei “la voce del padrone”, voce
stonata e di nessuna credibilità. Compro quel quotidiano sin dalla sua comparsa
nelle edicole – 1974 - ma il cambio di direzione mi pare essere stato anche un
cambio di rotta editoriale, di vocazione e di pensiero. Prendiamo alcune delle
sue prime pagine più recenti. 13 di febbraio ultimo scorso: “L’Italia
frena il Pil del 2015 fermo allo 0,7”. Si dirà: embé? Sulla scorta di
quello straordinario successo, però, i reggitori della cosa pubblica del bel paese
hanno previsto nella cosiddetta “legge di stabilità” dell’impoverimento
collettivo un +1,6 per l’anno in corso. Nel sottotitolo: “Il petrolio sale e rilancia le
borse. Milano recupera il 4,7 per cento. Renzi: il Paese è ripartito”. Per
dove? E tutto quest’ultimo entusiasmo del sottotitolo come si concilia con il titolo?
Boh! 28 di febbraio ultimo scorso: “G20: sì alla crescita e il Tesoro studia il
piano taglia-tasse”. “Il Tesoro studia”. Cosa? Boh! Ecco,
basta proclamare “la crescita sia” e tutto si rimetterà al posto giusto? Megafoni
e tromboni. Sottotitolo di quel giorno: “Padoan: se c’è spazio via a stimoli
fiscali. La Germania frena la Bce. Cina sotto esame”. “Se c’è
spazio”! Per chi? Pensate, lo dice Padoan! Quello che accusava i
risparmiatori della Banca Etruria di ignoranza in materia
economico-finanziaria; un obbligo essere tutti economisti ed analizzatori
finanziari. Costoro studiano e ci governano. Oggi, 2 di marzo 2016, titolo di
prima pagina che urla a squarciagola: “Torna la crescita. 70mila posti in più l’export
spinge il Pil”. Tromboni e megafoni. Quanti giorni sono passati dai
titoli del 13 di febbraio? È bastato dire “sì alla crescita” il 28 di febbraio che il 2 di marzo “torna
la crescita”. Tromboni e megafoni. Si spiega sotto il titolo: “Il
Prodotto interno lordo sale dell’0,8 per cento nel 2015, certifica l’Istat”.
Pensate un po’: lo 0,1 per cento in più rispetto al titolo del 13 di febbraio. Straordinario!
Incredibile! Un miracolo quasi! Orbene, quello 0,1% in più quanto lavoro in più
ha creato? Quanta ricchezza in più ha distribuito agli abitatori del bel paese?
E perché allora Michele Serra, che è un notista affermatissimo di quel
quotidiano, ha scritto nella Sua rubrica “L’amaca” del 25 di febbraio:
Dati diffusi
(…) dicono che a fronte di un sensibile aumento del risparmio (4 per cento) i
consumi degli italiani sono aumentati solo di pochi decimali. Se ne traggono
desolate considerazioni sulla persistenza della crisi. Non essendo un
economista, e dunque potendo parlare della questione con assoluta
spensieratezza, avanzo l’ipotesi che NON ci sia più una relazione “meccanica”
tra denaro disponibile e consumi. Una quota indefinibile di persone
(probabilmente una minoranza: comunque molto consistente), avendo già raggiunto
un decente livello di benessere, ha bisogno (o ha deciso) di comperare un po’
di meno rispetto a prima. Se ne discute da anni, ma il concetto di sazietà, a qualunque
livello di soddisfazione dei bisogni lo si voglia collocare, non è contemplato
da alcuna analisi economica o politica. Si dà per scontato che il desiderio di
possedere cose sia in costante e perenne ascesa, una specie di vocazione
naturale dell’essere umano, e al tempo stesso un implicito obbligo sociale. La
politica è inchiodata a quel paradigma; non ne contempla altri, e per questo
deperisce; (…). Ed è su quel “concetto di sazietà” che
bisognerebbe posizionarsi per innumerevoli motivi. Primo tra i tanti, l’insorgente
timida insofferenza – annotata dal valoroso notista - verso quell’abbuffata
consumistica che ha trasformato il grosso del gregge umano in spericolati
consumatori, consumatori immemori d’essere solamente gli utilizzatori di
passaggio delle risorse e delle ricchezze del pianeta Terra, ché, in quanto
utilizzatori provvisori e transitori, ben dovrebbero porsi il problema morale
di ciò che sarà lasciato alle odierne generazioni giovani ed a quelle che
ancora attendono di abitare Terra. Ancora il valoroso notista ha scritto nella
Sua rubrichetta del 12 di febbraio 2016: Ma non si era detto, otto anni fa, (…), che
la crisi era “di sistema”? Che il cedimento non era passeggero, ma strutturale?
Che in troppi eravamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità? Che niente
sarebbe stato più come prima? Sì, ce lo ricordiamo benissimo: si era detto
proprio così. E allora perché la Borsa dovrebbe per forza tornare ai livelli
degli anni d’oro, i debiti, anche i più incalliti, evaporare, il Pil lievitare,
l’economia ripartire al galoppo, la crisi sparire? Perché questa rinnovata
meraviglia su un tonfo che era stato valutato senza risalita? Ci dev’essere un
“pensiero magico” che impedisce di prendere atto della paurosa fragilità di un
sistema nel quale il lavoro non vale più una cicca, la produzione mondiale di
beni ammonta a circa un settimo della ricchezza finanziaria, il risparmio è
solo un gruzzolo virtuale in balia di videate ondeggianti che affastellano
numerini (mica pane o coperte di lana: numerini). Gli economisti ne capiscono
un sacco, ovviamente. Ma non sorprenderebbe scoprire che un economista, senza
rendere pubblica la notizia, abbia messo patate in cantina, legna in legnaia,
riso e farina in dispensa, e qualche banconota sotto il materasso. Scriveva
Federico Rampini il 3 di settembre dell’anno 2011 – anno terzo dall’inizio
della “crisi globale” - su il settimanale “D” di quel quotidiano, che è ancor
oggi una delle “penne” più affermate e più lette, un “pezzo” che ha per titolo “Consumismo collaborativo”: (…).
Swap, è baratto. Economico, appagante, comunitario. Quando non ho più bisogno
di un oggetto, non è detto che l'unica destinazione sia la discarica. Qualcosa
di profondo sta cambiando nei comportamenti economici. Se accade nella Mecca
mondiale del materialismo consumista, l'America, ha la portata di una
rivoluzione. Perché spendere e comprare, se invece posso "usare",
prendere ciò che mi serve solo quando mi serve? Baratto, affitto, prestito, scambio,
usufrutto collettivo, cooperazione: esplode in mille forme questa nuova
economia. È l'ascesa del "consumismo collaborativo", (…) quel che è
mio è tuo. (…). L'economia della condivisione dilaga tra i giovani perché è la
soluzione efficiente, sostenibile, etica, ed è facilitata dall'uso sistematico
dei siti sociali. Time ne fa "una delle dieci idee che cambieranno il
mondo" e osserva che "un giorno la proprietà ci sembrerà
anacronistica, guarderemo indietro al XX secolo e ci chiederemo perché avevamo
bisogno di accumulare tutta quella roba". Non è obbligatorio avere
vent'anni per capirlo. (…). Vuoi per ragioni di austerità, vuoi per la troppa
opulenza degli anni passati che ha riempito le nostre case di oggetti inutili,
scopriamo che il poter usare è molto più importante del possedere. Jeremy
Rifkin aveva intuito qualcosa battezzando la nostra èra "l'età
dell'accesso": nel mondo di Internet ciò che interessa è usufruire, non
diventare proprietari. Lo scambio economico si arricchisce di una dimensione umana:
si allacciano nuove amicizie con chi condivide l'esperienza del consumismo
collaborativo. "Così il consumo diventa il tassello della costruzione di
una comunità", sostiene Paul Zak che dirige l'istituto di studi in
"neuro-economia" alla Claremont University in California. Rispetto al
baratto primitivo, i siti sociali consentono di "abbassare la barriera
della fiducia" anche verso gli sconosciuti o chi abita molto lontano da
noi. (…). Mi sa tanto che da qui a poco smetterò di acquistare quel
quotidiano. È troppo per me.
Ciao, Aldo Ettore. Passano gli anni e ci ritroviamo sempre sulle stesse posizioni Un caro saluto Franca.
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