“Uomo&Natura”. “La nostra cattiva coscienza”, testo di Marino Niola – da “Wikipedia”: «professore di Antropologia dei simboli, Antropologia delle arti e della performance, Miti e riti della gastronomia contemporanea presso l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli dove coordina il Laboratorio di Antropologia Sociale, il master in Comunicazione multimediale dell'enogastronomia e dove dirige il Centro di Ricerche Sociali sulla Dieta Mediterranea "MedEatResearch". È stato professore all'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" e in quelle di Padova e di Trieste, dove nel 1999 è stato tra i fondatori del primo corso di laurea italiano in Scienze e Tecniche dell'Interculturalità» - pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 23 di novembre 2025: Abbiamo sempre bisogno di un buon selvaggio per dare forma e volto a una bontà che non riusciamo a trovare in noi stessi e nella nostra società. Di fatto, questo mito tipicamente illuminista nasce da un mea culpa della nostra civiltà che esorcizza il suo male oscuro creando una figura che rappresenta il rovescio virtuoso dei nostri vizi, la personificazione di un j'accuse lanciato all'Occidente, ormai lontano anni luce dalla natura e quindi da quel fondo creaturale, che ci fa viventi fra i viventi. Come dire che l'uomo esce buono e giusto dal grembo di Madre Natura mentre a guastarne l'indole e i comportamenti è Madre Cultura, che lo rende violento, avido, calcolatore, inautentico. Insomma, le istituzioni "snaturano" la scimmia nuda che a poco a poco, uno step evolutivo dopo l'altro, perde il pelo e acquista il vizio. È Jean-Jacques Rousseau a metterla in questi termini nell'incipit dell'Émile, il suo trattato sull'educazione, sostenendo che «ogni cosa è buona mentre esce dalle mani del Creatore e ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo». In realtà per il filosofo ginevrino, il selvaggio vive una vita presociale senza infamia e senza lode. Bontà e cattiveria sono per lui categorie morali artificiali, pagelle inventate dalla civiltà per dividere le persone, per classificarle ricorrendo a criteri del tutto soggettivi e relativi, strumentalizzabili e manipolabili. Di fatto finché resta in armonia con la natura e le altre specie, limitandosi alla soddisfazione dei bisogni primari, Sapiens resta al di qua del bene e del male. Insomma, il bon sauvage di Rousseau è il simbolo astorico e atemporale di uno stato di natura che non esiste nella realtà, ma tuttavia è necessario averlo in mente, come una bussola perché l'umano non si allontani troppo dalla sua buona sorgente. Con Denis Diderot, altra grande star dell'Illuminismo, l'idea prende una piega più politica e soprattutto più vicina alla storia e alle cronache del suo tempo, sempre più influenzate dalle scoperte geografiche e dai resoconti di viaggi ed esplorazioni. Diderot nel 1772 scrive addirittura un commento a un fortunato libro di viaggi del barone Louis-Antoine de Bougainville, primo francese a fare il giro del mondo. Il suo Supplément au voyage de Bougainville diventa il bestseller che popolarizza il mito del buon selvaggio, tirandolo fuori dagli ambienti astratti e disincarnati della filosofia per farlo entrare nel dibattito pubblico e nel senso comune. E quel che più conta, Diderot colloca il nobile selvaggio che vive in armonia con la natura in un contesto geografico reale, quello della Polinesia che Bougainville aveva descritto accuratamente nei suoi diari. Da allora i bellissimi tahitiani diventano il paradigma vivente di un modo di essere umani alternativo a quello degli occidentali. Il coautore dell'Encyclopédie, bibbia del pensiero laico moderno, mette a confronto l'idea di colpa e di peccato cristiani con l'innocenza sensuale dei polinesiani. Ai suoi occhi la nostra civiltà appare una fabbrica di infelicità, frustrazione, repressione. Mentre la grazia senza veli degli abitanti dei Mari del Sud è direttamente proporzionale a quella sorta di libertà primigenia che fa vivere le passioni senza esitazioni e i sentimenti senza pentimenti. Così gli abitanti dei nuovi mondi svelati dalle scoperte geografiche diventano un caso politico e ideologico. E la loro stessa esistenza si trasforma in una contestazione della superiorità della nostra cultura. Nato dal seno della filosofia, il buon selvaggio viralizza la cultura settecentesca, ma anche quella dell'Ottocento, quando viene ben presto preso in carico dalla pittura che spesso opera un effetto morphing, una dissolvenza incrociata che sovrappone ai tratti dei primitivi quelli degli antichi e degli orientali. Come fanno in modi diversi Gauguin, Ingres e Delacroix.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 26 novembre 2025
MadreTerra. 58 Marino Niola: “Il problema, come dice il Vangelo di Giovanni è che «gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». E dunque non è questione di civiltà, ma di scelta”.
(…). …abbiamo sperimentato che solo il volto permette
quell’esperienza umana fondamentale nella quale l’identità di una persona si
offre e si accoglie, in questo vis-à-vis. Il volto contro volto è il luogo
originario in cui si accendono relazione e comunione, in cui si costituisce
l’identità umana, perché ognuno si lascia plasmare dall’altro in una reciproca
fecondità. L’umano è il solo essere che abbia un volto, anzi possiamo dire con
Emmanuel Lévinas, è “volto”, sempre “rivolto” all’altro con le sue attese che
chiedono di essere ascoltate. Nessuno spazio del corpo è appropriato a segnare
la singolarità della persona e a indicarla socialmente quanto il volto. Siamo
nati cercando un volto, quello della madre, ed è trovando accoglienza in quel
volto che siamo venuti al mondo accettando di vivere e diventando consapevoli
che nel volto degli altri potevamo scorgere l’unicità della persona, la sua
espressione, la sua storicità, la sua vita e non solo: scorgere anche il
mistero della persona dell’altro, perché proprio il volto segna la frontiera
tra il visibile e l’invisibile, le parole e lo sguardo. Purtroppo siamo
abituati a vedere i volti di sfuggita, superficialmente, e abbiamo timore di
“guardare” con intensità il volto dell’altro: tant’è vero che se l’altro se ne
accorge e ci guarda noi abbassiamo gli occhi con un po’ di timidezza o di
vergogna. Ma il volto va guardato, contemplato, perché solo così abbiamo un
accesso alla conoscenza dell’altro: la singolarità del volto, la possibile
presenza in esso di tratti della sua parentela, la sofferenza narrata dalle
rughe e dai solchi lasciati dalle lacrime dovrebbero essere sempre una
rivelazione! I greci avevano una comprensione tale della singolarità del volto
umano che qualificavano gli schiavi come aprósopoi, i “senza volto”, e
percepivano che il volto è l’emergenza dell’interiorità propria di una persona
fino ad affermare che ognuno ha il volto che si merita, o che si è costruito.
Ma imparare a leggere il volto significa anche imparare a leggere il mondo
perché nel volto ciascuno si presenta nella sua identità. Come rivela il
vocabolario il volto è anche “faccia”, da facio fare, quindi una realtà che
ognuno costruisce insieme al tempo come uno scultore. Come non riconoscere che
soprattutto la cattiveria e l’ipocrisia plasmano il volto che ne diventa
l’epifania? E la bontà e la compassione forgiano un volto che ispira pace e
accoglienza? Così ogni essere umano ha l’anima sul volto! (Tratto da “Noi
che siamo nati cercando un volto” di Enzo Bianchi – fondatore e già priore
della “Comunità Monastica di Bose” – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
del 19 di luglio dell’anno 2021).
Ma è soprattutto la letteratura a trasformare il primogenito della
natura in un simbolo di lealtà, di giustizia, di fedeltà. Come il meraviglioso
Venerdì, uscito dalla penna di Daniel Defoe, che ne fa il compagno devoto di
Robinson Crusoe. E ancor più l'esotico Queequeg, il ramponiere polinesiano di
Moby Dick. Una figura ad altissima definizione, con principi incrollabili e
tatuaggi indelebili, che segue fedelissimamente il capitano Achab nella sua caccia
suicida alla balena bianca. Fino al tragico esito. Ma lo fa per pura lealtà, perché
vede lucidamente tutta la follia del comandante che si ostina a trasformare il
cetaceo in un simbolo del male, mentre la povera bestia non fa che seguire la
sua natura. Lo stesso mostro creato dal Dottor Frankenstein di Mary Shelley può
essere considerato a tutti gli effetti un innocente bestione trasformato in
mostro da una società filistea che ne fa un oggetto di esperimento, oltre che
di body shaming. Ma oltre che al di là del mare, il mito del buon selvaggio
abita anche al di là del cielo. È il caso dell'E.T., l'alieno dolce ed empatico
di Spielberg, O degli Ewok, gli orsetti dagli occhioni luminosi di Star Wars,
il cui nome deriva dagli indiani Miwok, antichi abitatori della California. Non
a caso la saga di George Lucas ne fa una tribù di buoni selvaggi che prende
ordini dalla natura e combatte contro l'imperialismo della tecnologia. Un
discorso a parte merita quel wild boy ad honorem di Tarzan, che, ancorché
bianco, vola come un trapezista fra natura e cultura. In fondo, il compagno di
Jane sarebbe la prova che basta sottrarre l'uomo alla civiltà per restituirlo
all'innocenza naturale. È il controcanto hollywoodiano del darwinismo. Proprio
come il pensiero degli illuministi era stato il controcanto dell'idea di
progresso. In realtà, ora come allora, la mitologia dell'uomo naturale serve
più che altro a mettere sotto accusa la civiltà. Ne era arciconvinto
l'integrato Voltaire che rimproverava all'apocalittico Rousseau di voler
riportare indietro gli umani nella scala evolutiva fino a farli tornare
quadrupedi. Di fatto questa figura di cavernicolo di buoni sentimenti è una
proiezione esterna di noi stessi, un'immagine del bene di cui ci piace
immaginarci capaci se non fossimo vittime della società. In questo senso la
favola della natura buona è uno dei più colossali dispositivi di
deresponsabilizzazione individuale inventato dall'Occidente. E che oggi si
dirama per mille rivoli nelle posizioni più estreme dell'ecologismo come
dell'antispecismo. In quell'integralismo nudo e crudo che contrappone la natura
alla società come il bene al male. In realtà l'essere umano, come diceva
Baudelaire, è sempre lui, che prenda al laccio il suo babbeo sul boulevard o
che azzanni la sua preda nella foresta. Perfettamente in sintonia con il
pessimista Schopenhauer, secondo cui i selvaggi si divorano tra loro mentre i
civilizzati si imbrogliano fra loro e questo si chiama l'andamento del mondo. Ma
allora il selvaggio, buono o cattivo che sia, si rivela semplicemente un
effetto diottrico, uno specchio per avvicinare o allontanare la nostra
immagine, per far luce nell'oscurità dei nostri labirinti. In fondo le parole
bene e male hanno la loro etimologia remota rispettivamente nella nozione di
splendore e in quella di tenebra. Il problema, come dice il Vangelo di Giovanni
è che «gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». E dunque non è
questione di civiltà, ma di scelta. Insomma il buon selvaggio rappresenta il
dilemma dell'umano. Ecco perché non possiamo farne a meno.
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