Abdico questa mia “umanità”. Scrive Stefano Rodotà,
sul quotidiano la Repubblica del 7 di dicembre dell’anno 2015 – “Di che cosa parliamo quando parliamo di
umanità” -: (…). Si avvia (…) una costruzione dell’umanità “per sottrazione”, con
una continua operazione di “scarto” di coloro i quali non sono ritenuti degni
di farne parte. Ma questa non è una vicenda che possiamo consegnare al passato,
per tranquillizzarci. Viviamo in società che producono quelle che Zygmunt
Bauman ha definito “vite di scarto”, selezionate con criteri attinti unicamente
dal processo produttivo. Ecco allora un orizzonte ingombro di poveri e
disoccupati, precari e immigrati, persone alle quali vengono negate eguaglianza
e dignità, destituite di umanità. (…). Abdico questa mia “umanità” che
è stata costruita per via familiare, religiosa, culturale, sociale senza quel respiro
universale che renda questa mia “umanità” partecipe di tutti gli avvenimenti
storici del nostro tempo, che non riguardino solamente quelli della porta
accanto o tutt’al più quelli che vivano nei limiti oramai ristretti che vanno dalle
Alpi al Capo Lilibeo. Abdico questa mia “umanità” che piange, si dimena e si
dispera, sotto l’abile copertura dei media, alle tragiche notizie delle
giovinette morte nel corso di una gita in pullman, un mero incidente stradale, ma
non tanto di più al cospetto delle innumerevoli morti avvenute in fondo al mare
di quei migranti per fame, per guerre e per deprivazioni alle tante vite che non
si possa dire che siano pienamente “umane”. Abdico questa mia “umanità”
forgiata tutta da una storia più che millenaria di violenza e sottomissione nel
nome delle colonizzazioni e della esportazione della nostra “civiltà” e di un
messaggio religioso assolutista (mentre scrivo scorrono le immagini di quello
straordinario documento cinematografico che è “Mission”, la colonizzazione
spagnola del centro-America con il supporto vigoroso e colpevole della chiesa
di Roma). Abdico questa mia “umanità” che nel tempo non ha costruito quelle condizioni
materiali affinché anche al resto degli uomini e delle donne, in tutti gli
angoli del pianeta, consentissero loro di muoversi liberamente e non sotto il
ricatto della fame e della guerra e di godere dall’andare liberamente in giro
per il mondo ed accedere ai luoghi nei quali si potesse rendere più leggera e più
sostenibile l’umana esistenza, per come abitudini e civiltà che consideriamo
per noi irrinunciabili hanno copiosamente diffuso in questa nostra parte del
mondo. Scrive ancora Stefano Rodotà:
Alla sottrazione di diritti, che la
costruzione per sottrazione dell’umanità implica, si oppone la riflessione di
Hannah Arendt, che ci ricorda come «il diritto ad avere diritti, o il diritto
di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito
dall’umanità stessa». Ma come si definisce l’umanità? Chi parla in suo nome?
Per rispondere, bisogna muovere da una premessa semplice, anche se impegnativa:
può ritrovarsi umanità solo là dove eguaglianza, dignità e solidarietà trovano
pieno riconoscimento. Troviamo un riferimento eloquente nelle parole
dell’Internazionale: «L’Internazionale futura umanità», bella traduzione del
testo originale, dove si dice «l’Internationale sera le genre humain». Perché
sottolineare queste parole? Perché l’umanità è declinata al futuro, non è vista
come la somma degli esseri viventi, come un semplice dato quantitativo, un
insieme biologico, una realtà già esistente, di cui ci si può limitare a
prendere atto. È qualcosa da costruire incessantemente attraverso l’azione
comune e solidale di una molteplicità di soggetti, che producono non tanto un
“valore aggiunto”, ma una realtà continuamente “aumentata”. È il processo al
quale stiamo assistendo, quello di umanità che include e riconosce tutti gli
altri, quasi capovolgendo la conclusione di Sartre, «l’inferno sono gli altri».
Ma, con la globalizzazione, questa umanità si fa tutta presente, e può essere
percepita come invadente. Ogni accadimento, per quanto lontano, ci fa partecipi
di quel che accade alle persone colpite da un terremoto, o da uno tsunami, in
luoghi che fino a ieri erano remoti e che il sistema della comunicazione
avvicina e rende visibili. Questo provoca moti di solidarietà: basta digitare
un numero sul cellulare per far arrivare un contributo finanziario
all’alluvionato asiatico o al bambino africano. Se, però, queste persone si
materializzano ai nostri confini, possono diventare oggetto di rifiuto. È così
per i migranti, per i poveri, visti come aggressori o incomodi. Così gli altri
tornano ad essere segni d’un inferno al quale si vuole sfuggire. Di colpo
l’umanità si scompone e si immiserisce. Quella lontana suscita ancora
sentimenti e azioni solidali, quella vicina turba. L’idea di “prossimo” si
rattrappisce, sembra addirittura morire. Al suo posto troviamo spesso comunità
chiuse. Ma questa constatazione, ci conferma che l’umanità è una costruzione
ininterrotta, non un approdo consolatorio. Vi sono usi di “umanità” che la
costruiscono come un riferimento capace di sottrarci a sopraffazioni. Quando si
parla di patrimoni dell’umanità, si sfidano sovranità e proprietà, che
vorrebbero sottoporre al potere e agli egoismi degli Stati e dei privati pezzi
del mondo, e persino ciò che è fuori di esso come spazio e tempo. (…). L’eguaglianza
nell’accesso ai vantaggi incessantemente offerti dalla tecnoscienza è condizione
indispensabile perché non nasca una società “castale”. La dignità è limite
invalicabile, perché proprio qui, reagendo alle aggressioni di ieri e alle
negazioni di oggi, possiamo ritrovare il proprio dell’umano. Abdico questa
mia “umanità”. Ha scritto Massimo Fini – “Le
parole nel vuoto di papa Bergoglio” – il 14 di febbraio dell’anno 2015: Papa
Bergoglio è l'ultimo comunista rimasto al mondo, almeno in quello occidentale.
Nel suo videomessaggio del 7 febbraio inviato ai partecipanti (grandi
imprenditori, manager, politici) a “Le idee di Expo 2015” dedicato al cibo,
Bergoglio ha affermato: “No a un’economia dell'esclusione e dell'iniquità.
Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che
muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il
ribasso di due punti in Borsa. Questo è il frutto della legge di competitività
per cui il più forte ha la meglio sul più debole”. E ancora: “Ci sono alcune
scelte prioritarie da compiere: rinunciare all'autonomia assoluta dei mercati e
della speculazione finanziaria e agire innanzitutto sulle cause strutturali
dell'iniquità”. Il Sommo Pontefice non lo può fare apertamente ma questo, fra
le righe, è un attacco frontale al mercato, al denaro, all’”economia di carta”
per usare un titolo di un famoso saggio di D.T. Bazelon del 1964, che sono
proprio le “cause strutturali dell'iniquità” che Bergoglio denuncia. È questo
tipo di economia che riduce alla fame, su cui si spargono tante lacrime di
coccodrillo, i Paesi poveri (e gli stessi poveri dei Paesi ricchi). L'esempio
emblematico è quello dell'Africa Nera. Ai primi del 900, con le sue economie di
sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) l'Africa era alimentarmente
autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da
quando ha cominciato a essere aggredita dall'integrazione economica – prima era
considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono
precipitate. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per
sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche: basta
guardare le drammatiche immagini che ci vengono dal Continente Nero e i suoi
disperati flussi migratori. Eppure in questo stesso periodo la produzione
mondiale dei cereali di base, riso, grano e mais, è aumentata rispettivamente
del 30, 40 e 50% e una crescita, sia pur modesta, della produzione di questi
alimenti c'è stata anche in Africa. Ma gli africani, come tanta altra gente dei
Paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, muoiono lo stesso di fame. Perché in
un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce
n'è bisogno, ma dove c'è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi
americani e in generale al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che
il 66% della produzione mondiale dei cereali è destinato all’alimentazione
degli animali dei Paesi ricchi (dati Fao). Il paradosso dei paradossi è che i
poveri del Terzo Mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo
che potrebbe sfamarli. È la legge del mercato e del denaro. Non si tratta
quindi di portare ai Paesi poveri i nostri pelosi “aiuti”, che anzi,
integrandoli ancor più nel mercato globale, finiscono per strangolarli del
tutto. Non si tratta di “salvare” nessuno. L'Africa, come s'è visto, stava
molto meglio quando si salvava da sola. Si tratta di cambiare radicalmente
l'orientamento del nostro pensiero – sulla linea di Bergoglio – rimettendo al
centro del sistema l’uomo e relegando l'economia al ruolo secondario che ha
sempre avuto prima che apparisse come forte classe sociale il mercante,
precursore della più odiosa di tutte le figure, l'imprenditore (che si spellava
le mani al messaggio di Bergoglio) da cui quasi tutti noi oggi dipendiamo come
“schiavi salariati”. Una mission impossibile di fronte alla quale anche quelle
di un Papa sono parole al vento. Abdico questa mia “umanità”.
Buona Pasqua, Aldo Ettore. Franca.
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