Da “Otto marzo
2016: non è giorno di festa, amoroso fiore!” di Giovanni Torres La Torre:
I
Non salpano più bastimenti con nomi di
regine
e per mari sconosciuti,
lunghi viaggi ai quali si confidava
la speranza di un destino.
Il nome di fiore
che generosa madre donò alla luce,
una voce amica ora lo evoca
nel tempo di altre fughe
per non smarrire la nostra umanità,
le parole che ricordano
chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
II
Non è giorno di festa, amoroso fiore!
ma di benigno coraggio
e brevi parole.
Non è sempre uguale l’alba che apre
le fatiche quotidiane della terra
seppure l’immaginazione
può sempre cercare
l’inganno di un chiaro di luna,
non udire il dolore
che spacca la fatica di una gemma.
Non è giorno di festa, amoroso fiore!
ma di case bruciate, fili spinati
e cenere.
Da “Il corpo
delle donne e il desiderio di libertà di quegli uomini sradicati dalla loro
terra” di Kamel Daoud - scrittore algerino -, sul quotidiano la Repubblica
del 10 di gennaio 2016: (…). In Occidente l'accoglienza pecca di un
eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura. È la
vittima sulla quale gli occidentali proiettano pregiudizi, senso del dovere o
di colpa. Si scorge in lui il sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima
di una trappola culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna. In
Occidente il rifugiato o l'immigrato potrà salvare il suo corpo ma non
patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne
dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a
sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il
rapporto con la donna - fondamentale per la modernità
dell'Occidente - rimarrà incomprensibile a lungo, e ne
negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la
"propria cultura". Ma tutto ciò può cambiare solo molto lentamente.
Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi
burocratici e si esplicano attraverso la carità. Il rifugiato è dunque un
"selvaggio"? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta
e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza.
Occorre dare asilo al corpo e convincere l'animo a cambiare. L'Altro proviene
da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel mondo
arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con la donna
rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa,
velata, rinchiusa o posseduta. È l'incarnazione di un desiderio necessario, e
per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione
condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di
vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita
dell'anima. Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene
a tutti, ma non a lei. Qualche anno fa, a proposito dell'immagine della donna
nel mondo detto arabo si scrisse: "La donna è la posta in gioco, senza
volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad
eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo
corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla
vita che impedisce a lei stessa di vivere". È questa libertà che il
rifugiato, l'immigrato, desidera ma non accetta. L'Occidente è visto attraverso
il corpo della donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria
religiosa di ciò che è lecito o della "virtù". (…). Il corpo della
donna non è visto come luogo stesso di libertà, in Occidente un valore
fondamentale, ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da
possedere o a una nefandezza da "velare". La libertà di cui la donna
gode in Occidente non è vista come il motivo della sua supremazia ma come un
capriccio del suo culto della libertà. (…). …non si vuole ancora capire che
dare asilo non significa semplicemente distribuire "carte" ma
richiede di accettare un contratto sociale con la modernità. Nel mondo di
"Allah", il sesso rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare
vita a un porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri
"fedeli", evocando un paradiso che più che a una ricompensa per
credenti somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai
corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka.
L'islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo desiderio
esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente. Perché "da
noi" non esiste via d'uscita se non dopo la morte e il giudizio
universale. Ritardo che fa dell'uomo uno zombie, o un kamikaze che sogna di
confondere la morte con l'orgasmo, o un frustrato che spera di raggiungere
l'Europa per sfuggire alla trappola sociale della propria debolezza. (…). I
rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a una minoranza
delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei "valori" da
condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il problema del
dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci carico.
Una brevissima nota. In fondo molti di questo mondo
occidentale sono nella condizione descritta da Kamel Daoud di “rifugiati”
dalla civiltà occidentale e dai suoi valori susseguenti al “secolo dei lumi” ed ai
movimenti politici e femminili, se solo si considerino le innumerevoli
uccisioni di donne nell’ambito familiare o nel corso di relazioni amorose. L’essersi
affrancato il mondo occidentale dal totem religioso della donna ridotta ad
appendice dell’uomo, considerazione propria di tutte le religioni monoteiste,
non riesce a frenare la “libido” di quei “rifugiati” dell’occidente che tante
volte porta al verificarsi dei più cruenti episodi oggigiorno classificati come
“femminicidio”.
Ed il termine stesso tradisce quella concezione che definirei vetero-maschilista,
che non è poi così estranea al mondo occidentale al pari del mondo islamizzato.
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