Da “Il Paese
di Embè” di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” del primo di marzo
2016: (…). Chi promette soldi a tutti, dai poveri ai giovani, dai
contribuenti ai pensionati, dalla scuola alla ricerca al dissesto idrogeologico
che trasforma due giorni di pioggia in emergenza nazionale? Lo stesso premier
che ha appena preso in leasing un catorcio di Airbus per farne il suo Air Force
One, al modico costo di 40mila euro al giorno (15 milioni l’anno) più 21mila
dollari di carburante per ogni ora di volo: se viaggiasse su voli di linea come
Mattarella, potrebbe impiegare quelle somme per finanziare 4400 borse di studio
all’anno, o assumere 200 ricercatori e trattenerli in Italia, o coprire in due
anni il buco di Expo. Embè? Chi contesta il bail-in, cioè la norma europea che
dal 2016 vieta agli Stati Ue di salvare le banche con soldi pubblici? Il Pd,
che l’ha votata al Parlamento europeo e in quello italiano. Embè? Chi attacca
le politiche rigoriste e merkeliane di Juncker? Il premier italiano che votò
Juncker a presidente della commissione Ue insieme alla Merkel e si schierò con
Juncker e Merkel quando quelle politiche erano contestate dal referendum di
Tsipras in Grecia. Embè? (…). Perché la stepchild adoption, cioè la possibilità
per le coppie gay di adottare i 500 “figliastri” o “configli” nati dalle loro
unioni o da quelle precedenti, è stata stralciata dalla Cirinnà al Senato?
Perché 199 senatori, cioè la maggioranza, volevano approvarla, mentre 121
senatori, cioè la minoranza, non volevano: allora Renzi ha imposto la fiducia
al suo governo su una legge che non era del suo governo, per impedire ai partiti
di opposizione di votare con quelli di maggioranza tutta la legge e consentire
a una minoranza di farne passare solo un pezzo, con tanti saluti ai 500
bambini, dando poi la colpa all’opposizione. Embè? (…).
Da “Tra Roma
e Bruxelles c'è anche un bagnino” di Fabio Bogo, sul settimanale
“Affari&Finanza” del 29 di febbraio 2016: Alla fine la minaccia si sta
tramutando in realtà. La Ue si appresta a condannare l'Italia per la decisione
di prorogare, senza metterle all'asta, le concessioni per la gestione degli
stabilimenti balneari sul suolo demaniale. L'avvocato generale della Corte di
Giustizia Ue, chiamato in causa da gestori di attività in Sardegna e sul lago
di Garda, ha stabilito la scorsa settimana che "la proroga automatica e
generalizzata delle concessioni sottrae al mercato per un periodo
irragionevolmente lungo beni molto importanti sul piano economico". Per
consolidata tradizione, le decisioni dell'Avvocato generale sono poi riprese
nella prossima sentenza della Corte, e quindi condanna probabilmente sarà.
Dalla partita usciranno quindi sconfitte le lobby che per anni si sono battute
in Parlamento per concedere un regime favorevole ai gestori di stabilimenti
balneari, difendendo sdraio e cabine da un fisco non poi così esoso, dal
momento che il settore nel suo complesso nel 2014 ha contribuito per appena 101
milioni alle casse dell'erario. Ma assieme alle lobby è il sistema-Paese che ne
esce ammaccato, per la perdita di credubilità. Ne è consapevole il premier
Matteo Renzi, che non a caso nel fine settimana ha ricordato al presidente
della Commissione Ue Jean Claude Juncker che le infrazioni italiane sono scese
al livello record di 83, e che l'Italia "rispetta le regole". C'è
ancora molto da fare, però. Dal 2003 siamo in violazione per la non corretta
applicazione delle norme sui rifiuti pericolosi e sulle discariche, e siamo
finiti nel mirino per aver applicato sulle bollette un sovrapprezzo per l'addio
al nucleare e per le energie rinnovabili. L'anno successivo siamo stati
inadempienti alle norme sul trattamento delle acque reflue urbane, e nel 2006
abbiamo elargito fondi considerati aiuti di stato alle imprese pubbliche,
dimenticandoci di chiederne la restituzione. Nel 2007 una sentenza ci ha punito
per le condizioni della raccolta rifiuti in Campania, nel 2009 abbiamo fatto i
furbi sulla golden share, e nel 2010 non abbiamo rispettato gli accordi in
materia di trasporto aereo stipulati con la Russia. E così via negli anni,
inciampando sulla discarica romana di Malagrotta, sulla commercializzazione dei
sacchetti di plastica, sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo,
sui mancati prelievi relativi alle multe per le quote latte non rispettate
dagli allevatori. E' vero che qualche volta le norme Ue sono troppo rigide. Ma
è altrettanto vero che Roma è stata piuttosto disinvolta nella loro
applicazione. Contro la decisione europea è già scattato in Parlamento il coro
di recriminazioni e di promesse di resistenza, che arriva mentre l'Italia gioca
una complessa partita con Bruxelles sulla flessibilità e sulle misure
necessarie alla ripresa. Sarebbe pericoloso se fosse condizionata dal partito
del bagnino.
Da “Tutte le
colpe di Roma” di Andrea Bonanni, sul quotidiano la Repubblica del 4 di
febbraio 2016: (…). L’Europa che vuole bilanci pubblici in ordine, debiti sotto
controllo e riduzione della spesa pubblica, non lo fa per spirito grettamente
ragionieristico, ma proprio perché crede in alcuni valori che sono alla base
del suo contratto sociale. Questi valori sono: la difesa dei nostri figli (che
dovranno pagare i debiti fatti da noi), la riduzione della spesa pubblica
improduttiva, la tutela dei contribuenti tartassati, l’efficienza della
pubblica amministrazione che sperpera risorse, la riforma di una classe
politica che oggi è premiata più dalla sua capacità di spendere denaro pubblico
che di risparmiarlo. Su nessuno di questi punti l’Italia, che secondo Renzi
«deve dirigere l’Europa», è in grado di dare lezioni. E spesso non sembra
neppure aver imparato quelle che otto anni di crisi ci hanno impartito a caro
prezzo. È vero che l’eccesso di austerità, in una fase di stentata ripresa
economica, può essere dannoso. E infatti la Commissione ha corretto il tiro
applicando la tanto invocata flessibilità. Ma la polemica sullo «zero virgola »
è fuorviante. (…). Il motivo è molto semplice: i mercati e gli investitori
mondiali hanno fiducia in quei Paesi e acquistano volentieri il loro debito
pubblico. Se l’Italia è tanto sicura della propria tenuta e orgogliosa dei
risultati raggiunti, non dovrebbe preoccuparsi poi troppo della possibile
apertura di una procedura di infrazione a suo carico. Invece vuole, e a
ragione, evitarla a tutti i costi. Perché sa che probabilmente i mercati non ci
perdonerebbero una messa in mora europea e il nostro debito, già stratosferico,
diverrebbe rapidamente insostenibile. Ma se le cose stanno così, se
necessitiamo del visto europeo per essere credibili sui mercati mondiali, la
colpa non è dell’Europa che potrebbe negarcelo, ma dell’Italia che ha bisogno
di chiederlo. E la battaglia sullo «zero virgola» non è l’Europa che la sta
facendo. È l’Italia che la ingaggia chiedendo sempre nuovi margini di
flessibilità di qualche decimale di punto e pretendendo che l’Europa ce li
conceda senza discutere. L’incoerenza della polemica renziana si estende anche
a questioni più generali e più “alte”. Fa bene il premier ad andare a Ventotene
per celebrare i padri del federalismo europeo. Ma non può il giorno dopo
battere i pugni sul tavolo perché «l’Italia versa venti miliardi alle casse
europee, e ne riceve indietro solo undici». Questa è una polemica degna della
Thatcher. Non di Altiero Spinelli. Facciamo bene a difendere con le unghie e
con i denti il nostro interesse nazionale in Europa. Ma dovremmo anche sapere
che, in un’Europa federale, gli interessi nazionali sono spesso sacrificati ad
un superiore interesse comune. (…). Noi invece polemizziamo contro la normativa
europea sul salvataggio delle banche, contro le regole sul diritto di asilo o
contro le procedure del Patto di stabilità rafforzato, come se ci fossero state
imposte da una potenza straniera e come se non le avessimo noi per primi
approvate a Bruxelles e votate a Roma. Anche qui, non brilliamo certo per
coerenza. Adesso l’Italia vuole proporsi come capofila di un ulteriore, e necessario,
processo di integrazione europea. Benissimo. Ma ci rendiamo conto che, in una
unione economica più integrata, i nostri vincoli sarebbero ancora più stretti
di quelli verso i quali già mostriamo insofferenza? Siamo consapevoli che i
parametri di produttività e di efficienza diventerebbero più elevati? E siamo
sicuri che, in una Europa anche formalmente a due velocità di integrazione, noi
faremmo parte del convoglio di testa? Queste domande richiederebbero una
valutazione attenta. Perché il massimo dell’incoerenza sarebbe propugnare un
modello di Europa dal quale rischieremmo, alla fine, di essere esclusi. Una
possibilità che i toni polemici di queste settimane non aiutano certo a
scongiurare.
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