Da “Vedi alla voce Camilleri” di Andrea Camilleri, su “il Fatto
Quotidiano” del 10 di giugno dell’anno 2010: Desiderio è una parola
bellissima. Io credo che il desiderio sia una delle forze motrici dell’uomo e
non è detto che sia sempre una mera soddisfazione del senso. Nel cinquanta
percento dei casi ciò che desideri è soddisfare quel desiderio, attraverso il
tatto, il palato… Ma io preferisco i desideri spirituali, i desideri
dell’anima, i desideri del pensiero. Cercherò di spiegarmi meglio. Il desiderio
carnale, dei sensi, si soddisfa con poco. Se desideri un buon odore, prendi una
rosa, la odori e per un po’ il desiderio è soddisfatto; quando ti torna la
riodori. Se hai desiderio di un pezzo di pane appena sfornato, con quel suo
croccante, vai da un fornaio, te lo compri e l’hai soddisfatto di nuovo. Diverso
è il desiderio che ti nasce dentro di qualcosa che ti manca, un qualcosa che ti
manca che è difficile da spiegare. Io per esempio ho il desiderio di cose che
dentro di me non ho. Desidero – e non ci arriverò mai – una sorta di
appagamento del mio chiedere continuamente qualcosa a me stesso. Non c’è giorno
che io non desideri – non di essere altro, perché sto benissimo come sono – di
avere una più larga capacità del mio cervello, per fare un esempio, di capire
le cose. (…). …ecco, vorrei tanto avere la possibilità di capire di più, è un
desiderio intensissimo. Stendhal una volta scrisse i dieci desideri che voleva…
poverino, ma sono terra terra quei suoi desideri. Devo dire che l’unica cosa
che forse avrei voluto è un cervello capace anche di capire fenomeni che mi
sfuggono. Cercherò di essere ancora più chiaro: desidererei avere dentro di me,
per esempio, il cervello di un santone indiano. La capacità del controllo del
proprio corpo, il desiderio del controllo dei propri desideri. E questo è molto
difficile. È una sconfitta sicura. Come diceva Picasso, resterà sempre un
desiderio che cerchi di acchiappare per la coda, ma quello è andato avanti e
non lo raggiungerai mai.
(…). Magistrati. Tocchiamo un tasto dolente…
Probabilmente tra i miei antenati dovevano esserci dei delinquenti a livelli
mostruosi, perché io istintivamente ho sempre provato una sorta di repulsione
berlusconiana nei riguardi dei magistrati. Una sera feci addirittura un salto
dalla sedia, quanto sentii un magistrato che mi piaceva e che era molto bravo –
soprattutto l’apprezzavo moltissimo perché era venuto in Sicilia a sostituire
il povero Falcone, che era saltato in aria –, il magistrato Gian Carlo Caselli
da Torino. C’era una trasmissione televisiva che si chiamava Italiani d’oggi e
siccome presentava degli italiani di oggi, veri, la cosa la seguivo. E quella
sera c’era Caselli. Arrivato a un certo punto l’intervistatore gli chiese: “Ma
lei, piemontese, come fa a capire i siciliani?”. E lui rispose: “Mah, leggendo
molto i siciliani, e soprattutto Camilleri” e tirò fuori dalla tasca il mio
volumetto Il gioco della mosca. Io ebbi un brivido, mia moglie è testimone. E
mi venne da dire: “Perché dice il mio nome questo qui?”. Cioè reagii non da
Camilleri, ma da cittadino che non ama nemmeno essere citato da un magistrato…
nessun orgoglio da scrittore. Devo dire che negli ultimi tempi mi sono trovato
a doverli difendere. Infatti una volta che c’era una riunione di magistrati alla
quale mi avevano invitato, io esordii dicendo: “Una cosa che non perdonerò mai
a Berlusconi è quella di avermi costretto a difendervi”. Ecco, questo lo dissi
facendo calare il gelo sulla platea. Certo, quando si parla della mafia, dei
siciliani mafiosi, ci si dimentica facilissimamente che nel novanta per cento
dei casi i magistrati, i poliziotti, i carabinieri che sono stati ammazzati
dalla mafia erano siciliani come i mafiosi. Questo va detto, tanto per
stabilire i giusti pesi sulla bilancia. Quella era quindi una mia iniziale
diffidenza, d’altra parte comprovata da anni di magistratura asservita al
potere politico: durante gli anni della Democrazia cristiana la magistratura è
stata tranquillamente asservita al potere politico. Durante gli anni del Fascismo,
quando il Fascismo chiese a tutti i dipendenti dello Stato (professori
universitari…) il giuramento di fedeltà al Regime fascista, solo dodici
professori universitari riscattarono l’onore di tutti, non giurando e facendosi
licenziare. Ma i magistrati giurarono tutti fedeltà al Fascismo, quindi un
motivo di diffidenza era ben più che giustificato da parte mia. È stato vedere
il coraggio di certi magistrati, pagato a prezzo della vita, che
mi ha fatto cambiare completamente idea. D’altra parte però, attenzione: i
magistrati non sono esseri superiori, sono uomini come me e come voi, quindi
soggetti a errori, soggetti a passioni, soggetti a tutto. Spesso e volentieri
fanno uno sforzo sovrumano di astrazione da quelle che sono le proprie
personali idee nel giudicare. Certe volte non ce la fanno, e con ciò? È
un’imperfezione prevedibile all’interno del corpo della magistratura. Non credo
che la magistratura possa perseguitare qualcuno che gli sta antipatico. Deve
sempre muoversi sempre dentro binari. Tra l’altro, vorrei ricordare che in
Italia ci sono tre ordini di giudizio, ed è difficile che oggi si commetta
l’errore giudiziario, difficilissimo. L’errore può essere commesso nel primo
processo, ma nel secondo e nel terzo comincia a essere problematico. La diversità
stessa dei magistrati a essere una garanzia di oggettività.
Da “Io, Tabucchi e quel pirla con Garzanti” di Andrea Camilleri, su “il Fatto Quotidiano” del 20 di novembre 2015 in occasione dell’uscita del volume “Certi momenti” – pagg. 168, € 15, Chiarelettere Editore -: (…). Un giorno, mentre me ne stavo nel mio studio, squillò il telefono: era lui. La telefonata fu breve e in un certo senso molto strana. “Pronto? Sono Antonio Tabucchi”. Venni veramente colto di sorpresa. “Ciao” risposi. “Come stai?” “Bene, volevo solo sentire la tua voce”. Rimasi ancora più disorientato, non seppi che rispondere; continuò lui a parlare: “Ciao, mi ha fatto piacere sentirti, a presto”, e chiuse la comunicazione. Non ebbi più notizie di lui per circa sei mesi, fino a quando mi arrivò una cartolina illustrata da Atene. Diceva semplicemente: “Un saluto da Antonio Tabucchi”. Nel corso degli anni seguenti di queste cartoline provenienti da città diverse dell’Europa ne ricevetti due o tre. Ora, siccome non metteva mai l’indirizzo, io non sapevo dove mandargli una risposta qualsiasi, ma desideravo sempre più conoscerlo di persona. Finalmente un giorno di marzo del 2011 ricevetti una chiamata da Antonio: “Fra tre giorni dovrei essere a Roma, te ne darò conferma e stavolta, cascasse il mondo, dobbiamo conoscerci. Ti richiamerò appena arrivo per stabilire l’appuntamento”. Attesi con una certa ansia la sua telefonata, che arrivò puntuale ma solo per dirmi con voce desolata che il suo progetto era saltato. Ecco, Tabucchi per me è stato un amico mai conosciuto personalmente. Dopo la sua morte, avvenuta nel 2012, Anna Dolfi curò un suo volume postumo intitolato Di tutto resta un poco, che raccoglieva scritti vari di letteratura e di cinema. Con mia grandissima sorpresa, in un articolo che Antonio aveva pubblicato in morte di Elvira Sellerio e che mi era sfuggito, lessi una decina di righe dedicate a me: non come scrittore, ma come uomo e come siciliano. In quelle parole, che mi commossero profondamente, trovai la chiave del suo desiderio di conoscermi; che del resto era reciproco. E questa paginetta che gli sto dedicando vuole essere un ringraziamento postumo alla sua amicizia. Livio Garzanti. Quando alla fine del 1979 terminai di scrivere il mio secondo romanzo, Un filo di fumo, lo feci leggere a Ruggero Jacobbi, il quale se ne entusiasmò. Lui aveva già recensito il mio primo libro, Il corso delle cose, (…). Ruggero per me fece un grande gesto d’amicizia: prese il dattiloscritto, andò a Milano e lo diede a Gina Lagorio, che era una notevole scrittrice e all’epoca compagna dell’editore Livio Garzanti (in seguito si sarebbero sposati). Dopo una settimana ricevetti una telefonata entusiastica della Lagorio, nella quale mi annunziava che aveva passato il dattiloscritto al suo compagno. Trascorsero pochi giorni ancora e ricevetti un’altra telefonata. “Sono Livio Garzanti”. Non ebbi il tempo di aprire bocca perché lui continuò: “Ho letto il suo romanzo, mi è piaciuto veramente tanto. Lo pubblicherò. Mi farò presto vivo con lei”. Attesi con ansia questa chiamata, che arrivò una diecina di giorni appresso. “Sono Garzanti. Può venire domattina alle dieci nel mio albergo?”. “Certo! Qual è il suo albergo?”. “Il nome in questo momento non me lo ricordo, è quello proprio accanto a Montecitorio”. A Roma, benché fosse aprile, c’era un’aria tiepida che annunciava un’estate calda. Mi vestii come tutti i giorni e poi andai in cucina a bermi il secondo caffè, ma ero molto ansioso e nervoso. Feci un gesto maldestro e mi rovesciai addosso la tazzina, macchiandomi il vestito. Avevo due vestiti di ricambio, ma uno era in lavanderia e l’altro era un completo fumo di Londra da occasioni solenni: non mi restava che indossare quest’ultimo. Alla reception dell’albergo, oltre al portiere, c’era un uomo che chiacchierava con lui vestito con un paio di jeans malridotti e una camicia che non si poteva dire di bucato. Dissi al portiere di annunziare al dottor Garzanti che Camilleri era arrivato. A questo punto il portiere guardò l’uomo che fino a un momento prima chiacchierava con lui, il quale si voltò verso di me, mi osservò dall’alto in basso e poi disse: “Ecco il pirla dell’autore esordiente che si presenta al suo editore in abito da cerimonia”. Reagii prontamente: “Ed ecco il pirla dell’editore miliardario che per ricevere l’autore esordiente si maschera da barbone”. Questo scambio di battute non era certamente un buon inizio. Invece lo fu. Ci facemmo subito un’immediata simpatia reciproca. Garzanti era notorio per essere un caratteraccio, estroso, imprevedibile, dalle sfuriate leggendarie: addirittura su di lui uno scrittore aveva imperniato un romanzo intitolato Il padrone. Durante quel primo incontro Livio mi annunciò che avrebbe stampato subito il libro in modo che fosse già in circolazione alla fine di giugno, poi mi invitò a pranzo. Parlò quasi sempre lui, raccontandomi quello stesso giorno di un suo viaggio in America con il padre e di come durante quel soggiorno americano fosse riuscito del tutto a liberarsi del dominio paterno.
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