Da “Tocca a
noi dire a chi governa come si può battere la paura” di Edwy Plenel –
giornalista francese, già capo redattore del quotidiano “Le Monde”, fondatore
del quotidiano on-line “Mediapart” -, riportato su “il Fatto Quotidiano” del 16
di novembre 2015: (…). …ognuno di noi, i nostri figli, i nostri genitori, i nostri amici,
i nostri vicini, noi stessi, eravamo tutti nel mirino degli assassini. (…). Armati
di un’ideologia totalitaria, che usa la religione come pretesto per uccidere
ogni forma di pluralità, cancellare ogni diversità, negare l’individualità,
avevano una missione: spaventare una società che incarna l’ambizione opposta. È
questa società aperta che i terroristi vogliono chiudere. (…). …il loro
obiettivo era l’ideale democratico di una società libera, perché fondata sul
diritto. Il diritto di avere diritti; la parità di diritti, senza distinzione
di origine, aspetto, credo; il diritto di farsi strada nella vita senza essere
inchiodati alla propria nascita o appartenenza. Una società di individui, in
cui il “noi” è fatto di infiniti “io” in relazione tra di loro. Una società di
libertà individuali e diritti collettivi. È questa società aperta che i
terroristi vogliono chiudere. Il loro obiettivo è che la società si chiuda, si
ripieghi su se stessa, si divida, si rannicchi, si abbassi e si perda. È il
nostro vivere insieme che vogliono trasformare in una guerra intestina, una
guerra contro noi stessi. Quali che siano le circostanze, le epoche o le
latitudini, il terrorismo scommette sempre sulla paura. Non solo la paura che
diffonde nella società, ma la politica della paura con cui lo stato reagisce:
una fuga in avanti dove al terrorismo segue la sospensione dei diritti
democratici in una guerra senza fine, senza fronti e senza limiti, senza altro
obiettivo strategico che il suo perpetuarsi, in cui gli attacchi e le risposte
si alimentano a vicenda, le cause e gli effetti s’intrecciano all’infinito
senza che mai emerga una soluzione pacifica. Quali che siano le epoche o le
latitudini il terrorismo scommette sempre sulla paura.
(…). …dobbiamo cercare
di capire le ragioni del terrorismo. Per combatterlo meglio, per non cadere
nella sua trappola, per non dargli mai ragione, fosse pure per incoscienza o
cecità. Le profezie che si autoavverano sono il meccanismo su cui si basa la
sua logica omicida: provocare attraverso il terrore un caos ancora maggiore da
cui trarre ulteriore rabbia, risentimento, ingiustizia. Lo sappiamo per
esperienza, abbiamo visto come la fuga in avanti statunitense dopo gli attacchi
del 2001 sia stata all’origine del disastro in Iraq, che ha generato il gruppo
Stato islamico, nato dalle macerie di uno stato distrutto e dalla disgregazione
di una società violentata. Riusciremo a imparare da questi errori catastrofici,
o finiremo per ripeterli? Davanti a un pericolo che riguarda tutti noi, non
possiamo abbandonare il nostro futuro e la nostra sicurezza a chi ci governa.
Se è loro compito proteggerci, non dobbiamo però accettare che lo facciano
contro di noi, nonostante noi, senza di noi. Far fronte al terrorismo significa
fare società. È sempre difficile formulare delle domande scomode all’indomani
di eventi che colpiscono un popolo intero, unito nella commozione e nello
sgomento. Ma, collettivamente, non riusciremo a resistere sul lungo periodo al
terrore che ci sfida se non saremo padroni delle risposte che gli verranno
date. Se non siamo informati, consultati, mobilitati. Se ci viene negato il
diritto di mettere in discussione una politica estera di alleanze con regimi
dittatoriali o oscurantisti (Egitto, Arabia Saudita), una serie di avventure
militari senza visione strategica (in particolare nel Sahel), le innumerevoli
norme di sicurezza che si moltiplicano inutilmente (e al tempo stesso
minacciano le nostre libertà), i discorsi politici miopi e di infimo livello
(sull’islam in particolare) che dividono invece di unire, che alimentano l’odio
invece di rassicurare, che esprimono le paure dall’alto senza mobilitare la
società dal basso. Far fronte al terrorismo significa fare società, fare muro
con tutto ciò che vogliono abbattere. Difendere la nostra Francia arcobaleno,
forte della sua diversità e della sua pluralità, questa Francia capace di
unirsi nel rifiuto del capro espiatorio e delle comode semplificazioni. Questa
Francia che nel 2015 ha tra i suoi eroi anche musulmani, così come atei,
cristiani, ebrei, massoni, agnostici, di tutte le provenienze, culture o fedi.
La Francia di Ahmed Merabet, il poliziotto di origine algerina ucciso di fronte
alla sede di Charlie Hebdo. La Francia di Lassana Bathily, l’ex immigrato
irregolare originario del Mali che ha salvato molti ostaggi nell’Hyper Cacher.
Questa Francia rappresentata, nella lunga notte parigina del 13 novembre, dai
tanti soccorritori, operatori sanitari, medici, poliziotti, soldati, vigili del
fuoco, dai tanti gesti di buona volontà, dalle mille solidarietà figlie di
questa diversità che fa la ricchezza della Francia. E anche la sua forza. (…). No,
non abbiamo paura. Tranne di noi stessi, se ci arrendiamo alla paura. Tranne
dei nostri politici, se ci inducono in errore e ci ignorano. Gli assassini
vorrebbero chiudere la nostra società, noi ci batteremo perché resti aperta,
più che mai. Il simbolo di questo rifiuto potrebbero essere due mani che si
incontrano, si stringono e si fondono, tendendosi l’una verso l’altra. Due mani
incrociate.
Da “Una
grande guerra troppo piccola” di Furio
Colombo, su “il Fatto Quotidiano” del 15 di novembre 2015: (…). …tutte le parole che abbiamo
ascoltato durante una notte angosciosa, ma anche misteriosa, dalle tv italiane
e da quelle che abbiamo visto nel mondo, erano parole usate, erano scorte
avanzate da mille dibattiti su Medio Oriente, islamismo, terrorismo, jihadismo,
identità e civiltà. Parigi era vicinissima nelle immagini, lontana,
contraddittoria, confusa, nelle informazioni, quasi solo un uso senza freni di
ciò che crediamo di sapere e non sappiamo. Non sul loro mondo (i probabili
mandanti), non sul nostro (ragazzi francesi delle banlieue?). (…). Per l’Italia subito si è fatta sentire
il ministro della Difesa Pinotti:“Noi siamo pronti”, ha detto. Pronti per che
cosa? Abbiamo una vaga idea dell’avversario, nessuna dei luoghi e dei modi in
cui rischiamo di essere colpiti, nessuna dei luoghi e dei modi in cui dovremmo
o potremmo difenderci. (…). Dunque, chi è pronto, con chi, o contro chi, per
fare che cosa? Colpisce la sconnessione fra fatti veri e piani militari, che
sono a volte di difesa e a volte di attacco. Colpisce l’obiettivo da colpire,
che sono a volte “i clandestini” o chi li trasporti (come se l’ideale fosse il
mare chiuso) e a volte i jihadisti di una confessione o dell’altra. Si
alternano allusioni (però il più delle volte caute, generiche, per poter dire
subito “non sono stato io”) di attacco in forze, e tutti uniti, contro la nuova
centrale del male (Isis).Tutti uniti non lo siamo mai. E se la notte di Parigi
è stata pianificata da strateghi intorno a un tavolo, come i generali di Hitler
prima della Polonia, quegli strateghi avevano capito bene. Devi colpire ognuno
da solo. Grande solidarietà, ma resterà solo. Non esiste un punto di vista o
una politica europea o un legame di pronto e reciproco soccorso, come ai tempi
della Nato. Del resto non sarebbe gradito, perché lega le mani a eventuali
imprese future (anche se vanno male,vedi Libia, vedi Siria). Nella notte di
Parigi, però, emerge con chiarezza, oltre alla solitudine delle vittime (i
cittadini colpiti in una sera di festa,in luoghi di festa, ma anche la città di
Parigi, anche la Francia), la asimmetria di ciò che possiamo cominciare a
chiamare guerra. Da una parte una grande potenza stordita e fuori equilibrio.
Dall’altra una gang di giovanissimi a viso scoperto che,dopo il dovuto
addestramento (non all’uso di nuove armi ma del proprio corpo e della propria
vita) fanno saltare, in pochi punti della periferia di Parigi,i nervi alla
grande potenza e al mondo.(…).
Nessun commento:
Posta un commento