Dal volume “I Professori” di Aldo
Ettore Quagliozzi – AndreaOppureEditore (2006), pagg. 194, ISBN
978-88-89149-79-9 –, capitolo 18° “Ove
si discorre di emozioni tanto necessarie nell’arte dell’educare”: La magica prosa di Pier Paolo Pasolini, tratta da una antologia
curata da N. Naldini dal titolo “Un
paese di temporali e di primule”, ci rappresenta una iniziazione alla
magica “arte dell’educare”. E forse
vale anche per il Pasolini maestro quanto ha scritto Paola Mastrocola nel suo
incredibile, bellissimo e già citato volume “La gallina Volante”: (…). Non di tutto possiamo essere felici. Non
di tutte le cose che facciamo nella vita. Basterebbe esserlo di una, perché
quell’una poi rischiara tutte le altre e siamo salvi. (…). E “quell’una”
di Pier Paolo Pisolini è descritta di certo in queste sue meravigliose pagine
piene di amore e di un grande e profondo senso dell’umanità, del divenire speranzoso
delle giovani generazioni.
(…). A Versuta c'era una ventina di ragazzi
che non potevano, a causa dei pericoli, frequentare la scuola di San Giovanni.
Io e mia madre divenimmo i loro maestri; con che tremore, con che reale
interesse mi accinsi a quell'avventura! Ricordo le prime ore di scuola, così
soffuse di un acre e quasi languido senso di verginità, in cui io già
incominciavo a manovrare con astuzia il mio candido entusiasmo, facendo della
"emozione" qualcosa come una figura retorica di nuova specie, con cui
minare il mio discorso di pause, di riverenze, di esclamativi segreti. Ne
lievitava un pacato tono di scandalo, di rivelazione, che determinava in tutto
il ragazzo uno stato di curiosità per tutto quello che dicevo. La mia emozione
si comunicava agli scolari, che sentirono allora per la prima volta l'ambiguo
sapore dell'ironia e insieme l'attendibilità dei fatti e delle deduzioni
stringenti. Cominciai dalla preistoria: io pensavo al bestione di Vico, essi a
una specie più fantasiosa di Tarzan, ma la base emotiva, mitica, era la stessa
in ambedue, e così ci trovavamo d'accordo. Io, con un'astuzia calcolata, ma
tutt'altro che fredda, sottolineavo i particolari insignificanti, lasciavo cadere
nel vuoto di una stupefacente indifferenza i dati essenziali, giocavo con la
loro attenzione, li deludevo, li scoraggiavo, ma per coglierli in un momento
sempre speciale, risentito, del loro interesse. Insomma davo alle mie lezioni
una specie di drammaticità, fingendo talvolta addirittura degli ingiusti
cattivi umori, sotto cui lasciavo però ribollire intatta l'allegria con cui mi
mettevo in rapporto con essi. Perfino le aride lezioni di grammatica erano
divenute un gioco denso di quei contrasti (il buono e il cattivo, il vincitore
e il vinto), che i fanciulli non dimenticano mai, nemmeno quando mangiano o
vanno a letto. I ragazzi che ho trovato qui a Valvasone sono di una sostanza
umana meno intensa e complessa. Se penso alla sensibilità, momento delicato e
rischioso della ricca di défaillances e di tendre, di Tonuti Spagnol, o alla
applicazione celebrale di suo fratello Dante, o alla limpidità sottomessa e
assimilatrice di Bepino Bertolin, o alla inventività del piccolo fauve
sangiovannese, Eligio Castellarin o comunque alla forza di oggettivazione di
tutti i ragazzi di Versuta, che tra gli errori di ortografia mi facevano
leggere dei frammenti di italiano duri, umidi e poetici come pezzi di
paesaggio, questi qui di Valvasone mi appaiono facili e leggeri. La loro
tettonica ereditaria non presenta stratificazioni degne di rilievo; scarse sono
le ricchezze minerarie della loro anima. C'è un filone d'oro in F.S., un
ragazzo in piena crisi d'adolescenza, già più alto di me, con un viso che
diverrà probabilmente bello, ma che per ora è quasi da sempliciotto non privo
di fugaci astuzie. Disdegna il gioco del calcio, è socialista e dice brutte
parole. In compenso ha un animo delicatissimo, pieno di riserve e di
difficoltà; cede molto agli affetti (c'è un commovente "pezzo" su un
suo compagno molto più piccolo di lui) e agli impulsi; nei temi è un retore
della più bell'acqua, ma ha certi squarci poetici o umoristici (autocritica)
veramente rispettabili. C'è un filone d'oro anche in P.F., che nel tema
"Letterina di ringraziamento a Umberto Saba per le sue poesie sul gioco
del calcio" si dichiarò grato al poeta per avere appreso da lui
"molte nuove e care parole italiane"; c'è un filone di oro anche in
G.L., un brunetto da libro di fiabe, il quale mi assicura che ogni sera a letto
"pensa alla morte"; degli altri quattordici scolari quasi tutti sono
molto simpatici, qualcuno anche interessante, ma nessun altro possiede
quell'attitudine speciale, quella sensibilità, magari anche un po' malata, che
serve all'uomo per rendersi conto di sé e del proprio mondo. In compenso quasi
tutti sono molto curiosi e hanno disposizione ad apprendere; è nel latino che
si trovano a loro agio! Hanno imparato il gioco e ci si divertono. Ah sì! La
traduzione, in qualsiasi aspetto, è l'operazione più vitale dell'uomo. La cosa
che naturalmente più mi appassiona è il rapporto tra me e loro. Ricordo che
quando dovetti spiegare la seconda declinazione, seguii un piano inventato in
precedenza ma congegnato in modo da lasciare la più ampia facoltà inventiva nel
momento delicato e rischioso della rivelazione. Mezz'ora prima dell'intervallo,
in un momento di stanchezza, manovrai in modo che essi si mostrassero inquieti
e qualcuno bisbigliasse, col compagno; avevo bisogno di un pretesto per
paragonarli a dei bambini piccoli (cosa che fra l'altro vellica il loro
orgoglio di puberi, turba inconsciamente i loro sensi e ottiene un subito e
folto silenzio). Dopo averli paragonati a degli "infanti" finsi di
lasciarmi trasportare dal discorso e rievocai la mia figlioccia di tre anni, a
cui, per farla stare buona, racconto delle favole. E allora passai all'ironia:
"Devo dunque raccontare delle favole anche a voi?", e alla
realizzazione stramba ed estrosa di quanto avevo minacciato: "C'era una
volta un mostro che si chiamava Userum..." Da prima mi ascoltarono
divertiti, con gli occhi lucenti di una certa ironia riservata in parte alla
figlioccia, in parte a me che mi comportavo così irregolarmente; ma poi un po'
alla volta cedettero all'interesse per il racconto e ascoltarono tutti orecchi
la favola-centone che avevo improvvisato per loro. Si trattava di un mostro che
pretendeva da un villaggio vittime umane (fanciulli e fanciulle!) da divorare,
finché arrivava un cavaliere (un giovane generoso) che affronta il mostro e lo
uccide non senza difficoltà in quanto esso è triforme: Us, che si getta nel
lago, Er che ripara nel bosco, e Um che si arrampica tra le rocce. La leggenda
di San Giorgio, l'Ariosto, il duello degli Orazi e i Curiazi: una vera
macchina. Ma mi servì, allorché rapidamente e senza colorito nella voce (in
quanto ero stato "attore" già nel narrare la favola) dichiarai che Us
era "amicus", Er "puer", Um "donum", che l'intero
mostro era dunque quella seconda declinazione, che io ero il giovane che venivo
a salvare essi, i fanciulli, dal sacrificio. Ora, nel rincasare, pensai a quei
miei accorgimenti, e cercai di interpretarli. Non apprezzavo molto la mia idea
didattica; in quanto "idea" era stata un pretesto, e lo sapevo bene.
La considerazione che feci, esercitando una specie di esame à rebours, fu
questa: durante tutta la spiegazione mi comportai - in parte inconsciamente -
in modo che essi non si accorgessero del mio gioco, forse per quella
discrezione e quel ritegno che non mi abbandonano mai, e poi perché mi sembrava
che fosse umiliante per loro colpirli così alle spalle, sfruttare la loro
credulità, la loro disponibilità. Ma c'era anche una terza ragione: la mia
passione pedagogica non avrebbe avuto più senso se avesse richiamato su di sé
l'interesse dei ragazzi, se non fosse stata puro e impersonale veicolo di
insegnamento! Ed ecco che fui illuminato improvvisamente. Capii che erravo
credendo che il nostro rapporto dovesse essere un rapporto di reciproco amore:
no, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo, non già
fine, d'amore. (…).
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