Da “La
differenza visibile tra destra e sinistra” di Luciano Gallino, sul
quotidiano la Repubblica del 29 di ottobre dell’anno 2014: (…). Vi sono due condizioni che
fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra. Una è la scelta
della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura. Il
che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei
rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che
moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra
condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la
situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta
uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia. (…). Alla
manifestazione di Roma (una manifestazione politica a piazza San
Giovanni che si contrapponeva alla “Leopolda” di Firenze n.d.r.) non
c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla
parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di
quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la
massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in
balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole,
al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di
potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli
ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa
del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di
uno studioso di nuovo feudalesimo. Invece nel garage semibuio di Firenze
c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e
magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno
fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di
lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a
soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino
nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non
dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea
demolita a Firenze dall’idea di un partito-nazione (ma l’ha detto qualcuno a
Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome
di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?). (…).
Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una
“guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano.
Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste
sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il
capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte
da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele
esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe,
nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una
grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti
romani. A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella
canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto
all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per
rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di
Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di
questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine
di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A
parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi
aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si
modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a
quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi,
prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad
un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più
difficili, nonché dagli esiti imprevedibili. (…).
Da “Il danno
del denaro creato dalle banche” di Luciano Gallino, sul quotidiano la
Repubblica dell’11 di maggio dell’anno 2014: (…). Da anni vari gruppi di
studiosi e associazioni in Usa come in Europa sostengono che se non si limita
il potere delle banche private di creare denaro dal nulla la prossima crisi
potrebbe essere anche più devastante della precedente. Il fatto nuovo è che a dirlo
è il maggior quotidiano economico del mondo, da sempre pilastro (bisogna
ammetterlo: con dosi di pensiero critico che di rado si ritrovano nei suoi
confratelli) della cultura economica neoliberale. (…). Quando Mr. Jones o la
Sig. ra Bianchi si vedono accreditare 100.000 sterline o euro sul proprio conto
di deposito, grazie ai quali stipuleranno un mutuo, non un solo euro è stato
tolto da altri depositi o dal capitale della banca. La somma è stata creata da
un contabile con pochi tocchi sulla tastiera. Specifica Wolf: “Le banche creano
depositi come sottoprodotto dei prestiti che concedono.” (…). Tanto per
cominciare: “In pratica la creazione di denaro differisce da vari malintesi
popolari: le banche non agiscono semplicemente da intermediari, dando in prestito
i depositi effettuati presso di loro… Ogni qualvolta una banca fa un prestito,
crea simultaneamente un corrispondente deposito sul conto del mutuatario,
creando in tal modo nuovo denaro.” (Bank of England, “Quarterly Bulletin”, n.
1, 2014). C’è da sperare che gli economisti ortodossi i quali insegnano ancora
ai loro studenti che le banche possono prestare soltanto il denaro che tengono
in cassa, mostrando così di ignorare nel loro insegnamento il ruolo
fondamentale che svolge nel sistema economico la creazione privata di denaro,
trovino modo di dare una scorsa, oltre che all’articolo in parola, pure al
bollettino della BoE. Il (…) chiodo su cui batte Wolf è il pesante ruolo
negativo che la suddetta creazione di denaro svolge a danno dell’intera economia.
“Il nostro sistema finanziario è palesemente instabile perché lo stato prima
gli ha concesso di creare quasi tutto il denaro che circola nell’economia, poi
si è visto costretto a sostenerlo nello svolgimento di tale funzione. Questo è
un buco gigantesco nel cuore delle nostre economie di mercato.” L’autore
avrebbe potuto aggiungere che oltre ai trilioni di dollari, sterline ed euro
creati dal nulla dalle banche sotto forma di depositi, circolano nel mondo, al
di fuori delle piattaforme regolamentate, centinaia di trilioni di derivati
dalle innumeri denominazioni (ABCP, ABS, CDO, CLO, CDS, MBS…), pure essi creati
dalle banche private. Poiché questi titoli hanno un valore di mercato, ciascuno
può venire istantaneamente commutato in denaro contante, oppure versato come
collaterale per garantire un prestito, o altro. Grosso modo, si tratta di una
massa di denaro potenziale – potenziale, va notato, come la nitroglicerina –
che gira per il mondo in quantità decine di volte superiori alle transazioni
aventi per oggetto beni o servizi reali. (…). Il potere di creare denaro
dovrebbe essere riservato esclusivamente allo stato. La funzione delle banche
dovrebbe venire circoscritta alla intermediazione tra risparmiatori e
investitori o mutuatari, alla effettuazione dei flussi di pagamento, e alla
custodia dei depositi. Per appoggiare la sua proposta, che rientra nel quadro
delle riforme le quali postulano un’attività delle banche “ristretta” o
“limitata”, Wolf si richiama brevemente a studi degli anni 30 quale l’illustre
Piano di Chicago. Esso prevedeva che una banca dovrebbe sempre disporre del 100
per cento di riserve per ogni soldo che ha in deposito e che presta a qualcuno,
il che porrebbe definitivamente fine al suo potere di creare denaro dal nulla.
Un piano rivisitato di recente da ricercatori del Fmi, i quali arrivano a
concludere che esso potrebbe funzionare bene anche oggi. (…). …una riforma
finanziaria la quale in qualche modo riduca drasticamente il potere delle
banche private di creare denaro è la maggiore riforma politica di cui essi
dovrebbero occuparsi per salvare l’Unione e i propri stessi paesi. Non importa
se oggi questi appaiano far parte del gruppo dei più forti, oppure di quello
dei più deboli. Al confronto le riforme bancarie di cui si parla nella Commissione
(il rapporto Liikanen), nell’Ecofin (l’Unione Bancaria), in alcuni parlamenti
(Regno Unito, Francia, Germania), sono acqua fresca. Soltanto una forte
riduzione del potere “creativo” delle banche può fare uscire i governi Ue dal
ruolo di burattini del potere finanziario che attualmente svolgono. Salvo che,
naturalmente, in tale ruolo ci si trovino bene, per scelta o per incompetenza.
Al riguardo, è ancora Martin Wolf che avverte: “Quando arriva la prossima crisi
– e di sicuro arriverà – abbiamo bisogno di essere pronti.”
Da “La
lezione di Atene per l’Italia” di Luciano Gallino, sul quotidiano la
Repubblica del 26 di giugno 2015: Pochi giorni fa il Parlamento greco ha
diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le
conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo
andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da
essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è
illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non
pagarlo. Il rapporto greco è fitto di riferimenti alle leggi e al diritto
internazionali. E contiene, in modo abbastanza evidente, una lezione per
l'Italia. Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e
odiosità di un debito pubblico. Un debito è illegale se il prestito contravviene
alle appropriate procedure previste dalle leggi esistenti. È illegittimo quando
le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito includono prescrizioni
nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti umani
tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o
avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui
sarebbe seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali
diritti civili, politici, sociali e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt'e
tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla Grecia in relazione ai suoi
prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni economiche e il suo
sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo stesso,
risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una
parte consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari
paesi, e non pochi dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le
conseguenze negative a danno della popolazione greca. La Bce non è stata da
meno, contribuendo ai programmi di aggiustamento macroeconomici della Troika e
insistendo in special modo sulla de-regolazione del mercato del lavoro —
violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue che stabiliscono la sua
indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al commercio dei
titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di
scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le
condizioni del bilancio pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi
pubblici europei, è stato costituito come società privata cui non si applicano
le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi finanziari, e sapeva bene di
imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che essi recassero
alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei
confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali,
illegittime e odiose. (…).
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