È che si vive in un mondo costruito a cerchi
concentrici. Ed al centro della predetta configurazione, come ombelico del
creato, ci stiamo noi, come esseri umani, come persone portatrici di diritti e
di doveri. Noi come singoli, intendo dire. Oggigiorno, mutuando il peggior linguaggio
proprio della “cattiva politica” di questi tempi oscuri, potremmo definirci,
singolarmente, come occupanti quel “cerchio magico” del creato. Ed al di fuori
del predetto “cerchio magico”, nella migliore tradizione familistica, ci sta il
secondo cerchio, occupato stabilmente dai familiari più stretti, e poi il
cerchio di quelli del quartiere, qualora l’agglomerato urbano ne comprenda più
di uno, e poi ancora il cerchio della nostra città, e poi ancora il cerchio
della nazione o paese che dir si voglia, ma non esiste ancora un cerchio che comprenda
quelli del continente al quale apparteniamo pure, e figurarsi un cerchio nel
quale ci stiano quelli dei continenti altri. Un mondo a cerchi concentrici, cerchi
sempre più soggetti a quella forza centrifuga esistente in natura per la qual
cosa i diritti scemano man mano che ci si allontana dal nostro personalissimo “cerchio magico”. Ha sostenuto
Adriano Sofri sul quotidiano la Repubblica del 20 di novembre – “Le misure del dolore” –, con il
realismo che contraddistingue sempre il Suo scrivere, che man mano che ci si
allontani dal nostro personale “cerchio magico” la “misura del dolore” tende
a cambiare ovvero a diminuire sempre di più risalendo per i cerchi concentrici
nei quali proviamo ad immaginare il mondo che il tempo nostro ci ha dato da
vivere. E nulla ci turba di quel che accade nei cerchi concentrici più esterni,
poiché per quelli che li occupano stabilmente la “misura del dolore” tocca
i livelli più bassi immaginabili. Ma questa rappresentazione di una “misura
del dolore” che tenda a diminuire andando su su per i cerchi
concentrici più esterni non rende appieno della realtà umana nel suo complesso,
qualora si pensi che tutti gli esseri umani abitano e convivono su di una “navicella”
comune, angusta sempre di più, quale è il pianeta chiamato Terra, “navicella”
lanciata nella immensità dello spazio indifferente alla sua sorte e che
accomuna tutti in un destino che difficilmente potrà essere parcellizzato se
non a scapito e detrimento dei più deboli, degli esseri umani emarginati. Sarei curioso di conoscere
sino a quale dei cerchi concentrici esterni al nostro “cerchio magico” la
nostra “misura del dolore” si mantenga su livelli umanamente
accettabili, ovvero abbia la sensibilità d’includere anche quelli a noi
sconosciuti in forza di quel destino comune che ci lega in quanto abitatori e
passeggeri della “navicella” Terra. Sarebbe un dato interessante sul quale poi
la “buona politica” dovrebbe costruire le sue strategie per creare un mondo un po' più
umano. Ché la politica, oggigiorno, non ha strumenti validi e strategie urgenti
ossequiosa com’è ai dettami della ricchezza e del potere. Ha scritto Pino
Corrias su “il Fatto Quotidiano” del 20 di novembre ultimo scorso – “I nostri privilegi stanno scadendo” -:
Rimbambiti
dalle Playstation che buttano sangue senza sporcare, ottenebrati dalle vacanze
in crociera, dove si mangia otto volte al giorno e si fa finta di girare il
mondo stando fermi dentro una nave, assuefatti alle assicurazioni family
efficaci contro tutti i rischi, inclusi gli insetti, alle case con aria
condizionata, igiene e impianto elettrico conformi, al veleno omeopatico
dell’ora di religione e dal lieto fine delle fiction, compresa l’ultima idiozia
planetaria di James Bond,ci siamo persuasi che la vita non abbia conseguenze.
Che non abbiano conseguenze la guerra, le religioni monoteiste,la fame nel
mondo, i muri e il filo spinato, il traffico di esseri umani, l’avvelenamento
del pianeta, la circostanza che l’uno per cento della popolazione mondiale possegga
il 90 per cento delle risorse, che un bracciante nero di Rosarno guadagni 5
euro per 12 ore d i lavoro e che un proiettile di Kalashnikov costi 0,80
centesimi di dollaro. Moltiplicata e filtrata dagli schermi nei quali ci
specchiamo per una decina di ore al giorno credendo di sapere, di vedere e
perfino di comunicare, ci siamo abituati all’idea che la vita sia questa cosa
inoffensiva che ci circonda, questa melassa di selfie e di stronzate lunghe 140
caratteri, di grotteschi litigi destra-sinistra, di piccoli e grandi ladri, e
che la massima interferenza con il nostro silenzioso ruminare immagini sia
un’improvvisa assenza di campo – meglio un figlio che si droga di trigliceridi
e il partner in overdose da Xanax – o addirittura l’interferenza pubblicitaria,
lo spam, l’odiosa finestra che si intromette tra noi e l’ultimo hit di Adele
che ci commuove fino alle lacrime sui nostri divani riscaldati. È questa
rappresentazione drammatica e straniante, che è reale però, poiché vissuta
nelle nostre case, nelle nostre scuole, per le vie cittadine, in qualsivoglia “sala
d’attesa” di stazione, di aeroporto, di studio medico e di qualsivoglia luogo
ove sarebbe possibile un vivere di socialità diffusa, è questa rappresentazione
che viene chiamata la “normalità” delle nostre vite. Vite ermeticamente
rinchiuse nel proprio cerchio concentrico d’appartenenza, vite che tendono a
dare e riconoscere quella “misura del dolore” in ragione della
appartenenza più prossima che sia. È di questa “normalità” che ci si è
sentiti privati il 13 di novembre a seguito dei tragicissimi fatti di Parigi. Poiché
quella “normalità” da difendere a tutti i costi è come se discendesse
da una favorevole congiunzione astrale, astratta da ogni interferenza con il
restante del genere umano, concessa per divina bontà in forza d’inesplicabili
disegni di una entità superiore. Un’assurdità. Un abominio. Ha scritto ancora
Pino Corrias: Dovremo abituarci all’idea che tutto quello che abbiamo considerato
normale per le nostre vite – non solo la pace, la libertà, la sicurezza, ma
anche il lavoro, il bar sotto casa, il concerto, la spiaggia, un museo – è un
privilegio che sta scadendo. Che la nostra immunità di cittadini ha un perimetro
labile, fortuito, provvisorio. (…). …sempre sapendo che quello stesso mondo
reale così ostile è la grande ombra della nostra luce e che quasi ogni nostro
beneficio discende da quella diseguale equivalenza. Per questo una parte della
nostra guerra dovrà riguardare anche le condizioni che l’hanno determinata e
che senza distruggerle o almeno modificarle, nessuna pace sarà più possibile.
Nel mondo che ci ha appena svegliato siamo noi spettatori gli intrusi. E da un
momento all’altro le salme. Ecco su cosa sarebbe bene che si riflettesse
e su cui sarebbe bene che ci si confrontasse da subito, abbattendo quelle artificiose
barriere che stanno lì artatamente a creare tutte quelle disuguaglianze che
risultano essere strutturali e connaturate alla “normalità” di un mondo
che della visione illuministica, con la quale la grande “ville lumiere” illuminò
il cammino della Storia, riesce bene, per colpevole scelta di comportamenti e
di quant’altro, a farne a meno. Scrive Pino Corrias a seguito dei tragicissimi
fatti di Parigi: Questa improvvisa esplosione di realtà terrorizzante ci lascia storditi
come le flash bomb usate nei blitz dalle forze speciali. Perché per la prima
volta riconosciamo nel sangue versato in modo così casuale sulle strade di
Parigi, il nostro sangue. Perché scopriamo che l’atrocità del destino non è più
(e inspiegabilmente) una esclusiva di quei quattro quinti del mondo che abitano
oltre i nostri schermi, ai quali – tra un’emergenza Ebola e l’altra – diamo
un’occhiata e qualche spicciolo, ma senza mai sentirne il cattivo odore. Perché
impariamo che una bomba fabbricata con il perossido di acetone cancella vite e
storie di ragazze, architetti, commesse, insegnanti, casalinghe, nerd
informatici, non solo nei bar di Gerusalemme e Gaza, o tra la polvere dei
mercati di Tripoli, Kabul, Zakho, ma anche dalle parti del Beaubourg dove
abbiamo fatto colazione dozzine di volte e dato appuntamenti e progettato nuovi
sogni. Addormentati dall’irrealtà che ci nutre di mondi virtuali ci svegliamo
nel mondo reale, non più magico, anche se continuiamo a credere alle diete
vegane e alla Madonna di Medjugorie, ma nel quale scopriamo che i governi del
nostro confortevole Occidente, lo stesso che ci vuole difendere schierando
uomini e mezzi per la nostra salvaguardia, non fa altro che creare le terribili
condizioni che ci mettono sempre di più in pericolo perché abbiamo in quantità
superflua ogni cosa che manca in quantità minima a tutti gli altri. Perché
produciamo e traffichiamo armi, mentre predichiamo la pace universale. Perché
spostiamo giganteschi investimenti, desertificando interi Paesi per allagarne
altri. Perché preleviamo risorse. Proteggiamo banche. Contrabbandiamo petrolio.
Appoggiamo dittature se utili. E facciamo fuori dittatori quando diventano
inservibili. Fabbrichiamo eroi come Osama bin Laden quando combatte i
paracadutisti mandati da Mosca in Afghanistan. E diavoli come Osama bin Laden,
quando è lui che ci manda i Boeing 747 a schiantarsi nel cielo di New York. …(non) sappiamo
nulla dei villaggi che spariscono dentro la nuvola di uno dei nostri droni. Siamo
noi tutti, senza distinzione alcuna, i responsabili costruttori ed i principali
utilizzatori di quegli impenetrabili cerchi concentrici che, come bolge
dantesche, rendono “infernale” questo mondo degli umani.
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