"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 14 novembre 2015

Lalinguabatte. 5 “I Gavroche della globalizzazione”.



Mi rintronano negli orecchi e mi stordiscono le accorate cronache delle televisioni e negli occhi si susseguono le immagini del terribile ultimo accadimento di Parigi. La mente naviga, stordita, cercando d’ancorarsi a qualsivoglia cosa che la faccia smettere di fluttuare. Avvenne anche per un 11 di settembre. Su di un’altra sponda dell’Atlantico. Ed ecco allora, come ciambella raccolta dal naufrago prima che l’ennesimo flutto lo inabissi per sempre, andare con il pensiero e la affannosa fantasia agli adolescenti di quella stupenda, straordinaria città – “la ville lumiere” - immaginati dal grande Victor Hugo all’interno di quello straordinario affresco d’epoca che mirabilmente ci ha reso con “I Miserabili”; come non riandare, dicevo, a quelle vite romanzate rileggendo proprio oggi, nel mezzo di quella violenta, mortale tempesta di fuoco e di morte, una pagina che risale al 20 di settembre dell’anno 2011 - che ha per titolo “I passages” –, pagina tratta da quella rubrica che Giacomo Papi ha tenuto magistralmente per anni ed anni sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”, pagina che di seguito trascrivo in parte. Che certamente i Gavroche di Hugo sono giunti immortali sino a noi, anch’essi uomini del secolo ventunesimo, asserragliati nel degrado delle periferie parigine o dell’altrove, a covare risentimenti e rabbia per quel mondo che sta fuori e che erge le sue invisibili barriere affinché tutti non abbiano a godere del progresso, della fraternità e dell’uguaglianza in nome dei quali quella straordinaria città visse il suo anno terribile e memorabile illuminando il cammino al resto della umanità. Ricordo ancora la grande commozione di me giovinetto alla lettura di quelle pagine stupende dell’Hugo. E la simpatia subito nata per quel Gavroche, straordinaria figura di giovine uomo. E come la mia immaginazione rendesse visivamente viva la sua salita, alla notte, all’interno della enorme pancia dell’elefante eretto nella piazza a monumento e divenuto la sua dimora. Molto più tardi ho saputo che quella statua a forma di elefante è esistita all'epoca dei fatti che ci narra il grande Victor. L’imponente statua era stata voluta dall’imperatore Napoleone Bonaparte e la sua progettazione era stata affidata all'architetto Jean-Antoine Alavoine. L’enorme elefante, collocato nella  “Place de la Bastille”, fu successivamente abbattuto nell’anno 1846. Gavroche è il monello di strada, che vive la sua vita nei bassifondi parigini. Nato nella famiglia Thénardier che non lo ama e che se ne sbarazza presto, vive per le strade e sotto di esse in quella Parigi che ha conosciuto i moti rivoluzionari del 1789 che avrebbero sconvolto la storia di tanti popoli. Nella narrazione dell’Hugo Gavroche ha potuto conoscere le due sorelle più grandi, Éponine e Azelma, ma non i due fratelli minori, che i genitori avevano dato in adozione in cambio di denaro. La storia, come sempre in questi casi, volge al dramma; i due fratellini si ritrovano sulla strada, incontrano il fratello maggiore ma ignorano, gli uni e l’altro, d’essere legati dal solido vincolo della fratellanza. Gavroche li aiuta a sfamarsi e li inizia alla vita dura della strada prima che i fermenti politici e sociali della Parigi del tempo li inghiotta definitivamente nel suo enorme ventre. Victor Hugo, da abile costruttore di storie, non ha voluto che il lettore sapesse del loro destino. Immaginabile del resto. Gavroche muore, come tutti i giovani eroi dei romanzi, poco tempo dopo la sorella maggiore Éponine, e muore presso la stessa barricata di rue de la Chanvrerie, durante i moti di protesta popolare del 5 di giugno dell’anno 1832, mentre tenta di recuperare delle cartucce inesplose per i suoi compagni insorti. Sangue che scorre nelle superbe strade della “ville lumiere”, allora come in questo ultimo tragico 14 di novembre parigino. Ho, tanto tempo dopo, saputo che l’idea del giovane Gavroche sia stata ispirata a Victor Hugo dalla immagine del ragazzo che appare alla guida dei rivoltosi nel celebre quadro “La libertà che guida il popolo” di Eugene Delacroix. Perché Gavroche? Perché il ricordo di quella giovanile lettura? Vi è più di una risposta semplice: che quella storia in fondo si è intessuta con la storia molto più recente delle periferie parigine incendiate e messe a soqquadro dai moderni Gavroche, genere umano relegato ai margini che non si è estinto giammai ma è sopravvissuto al grande Hugo; e che Giacomo Papi ci fa sapere che nel secolo ventunesimo i “Gavroche” non sono tornati ma vivono ai margini della società invisibili tra di noi. Vengono da lontano, non lottano per una rivoluzione che sia, vengono al seguito dell’onda lunga della finanziarizzazione selvaggia e della globalizzazione delle economie del pianeta chiamato Terra, per raccogliere le briciole di quella grande impostura che sembra sia divenuta la “globalizzazione”, madre arcigna e generatrice di nuove disuguaglianze, planetarie, e di vite grame senza sogni di libertà e di riscossa. Ha scritto Giacomo Papi:
(…). Sotto terra, pochi metri oltre la grata su cui poggiamo i piedi, c'è un lungo tavolo circondato da decine e decine di esseri umani impegnati a scartare a velocità forsennata centinaia di camicie, pantaloni, felpe e pullover. Dall'aspetto e dalle voci si direbbero arabi, cingalesi o pachistani. - Dura poco. Se ne vanno subito -. - Chi sono? -. Il ragazzo si tocca la barba e indica un'insegna di Zara alle mie spalle. Gli uffici della catena sorgeranno qui. È il disimballaggio prima del negozio? L'azienda, interpellata, garantisce che tutto avviene nel più rigoroso rispetto della legge italiana. È sicuramente così. Zara o no, la visione evoca, comunque, qualcosa di barbaro e fantascientifico. Una folla improvvisa sorge dal nulla, di notte, nel sottosuolo di una grande città, a pochi passi dai grandi magazzini, per togliere dal cellophane la marea montante di merce che preme per essere esposta e comprata. L'uomo, intanto, mi racconta che vive in quell'angolo da quattro anni ed estrae dalla tasca un foglio spiegazzato, è una condanna per schiamazzi. Ha un cognome sardo, ma è nato nel 1974 a Monchengladbach, in Germania, figlio di emigranti. Ripenso alla profezia di Gafyn Llawloch, l'anarchico gallese: - All'inizio gli operai sono andati dove c'erano le fabbriche, poi le fabbriche andranno dove ci sono gli operai, alla fine la produzione diventerà mobile e gli operai dovranno inseguirla -. Quando nel 1956 Malcolm Purcell McLean inventò i container, aveva compreso che contenitori montabili su ogni mezzo di trasporto - navi, camion, treni - avrebbero abbattuto i costi. Ma non immaginava che all'utopia della logistica universale mancasse un solo elemento per essere perfetta. L'uomo. La globalizzazione ha provveduto a fornirlo. Ad agosto su una flotta di pescherecci indonesiani sono stati trovati 2mila schiavi. Non è difficile prevedere che l'evoluzione della logistica sarà muovere il lavoro, oltre alle cose. Per ottimizzare i costi nasceranno immense fabbriche galleggianti, dove ciò che consumiamo sarà prodotto, assemblato, imballato e distribuito da operai costretti ad accompagnare in eterno il movimento perpetuo e inarrestabile delle merci. In modo da poterle finalmente comprare. L’amara, tristissima storia della funestata Parigi d’oggigiorno sta forse tutta scritta nelle pagine dolenti di Victor Hugo e dalle cronache reseci da Giacomo Papi. È difficile che si sfugga alla realtà delle cose.

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