Mi rintronano negli orecchi e mi
stordiscono le accorate cronache delle televisioni e negli occhi si susseguono le
immagini del terribile ultimo accadimento di Parigi. La mente naviga, stordita,
cercando d’ancorarsi a qualsivoglia cosa che la faccia smettere di fluttuare. Avvenne
anche per un 11 di settembre. Su di un’altra sponda dell’Atlantico. Ed ecco
allora, come ciambella raccolta dal naufrago prima che l’ennesimo flutto lo
inabissi per sempre, andare con il pensiero e la affannosa fantasia agli
adolescenti di quella stupenda, straordinaria città – “la ville lumiere” - immaginati
dal grande Victor Hugo all’interno di quello straordinario affresco d’epoca che
mirabilmente ci ha reso con “I
Miserabili”; come non riandare, dicevo,
a quelle vite romanzate rileggendo
proprio oggi, nel mezzo di quella violenta, mortale tempesta di fuoco e di
morte, una pagina che risale al 20 di settembre dell’anno 2011 - che ha per
titolo “I passages” –, pagina tratta da quella rubrica che Giacomo Papi ha
tenuto magistralmente per anni ed anni sul supplemento “D” del quotidiano “la
Repubblica”, pagina che di seguito trascrivo in parte. Che certamente i Gavroche di Hugo sono giunti immortali sino a
noi, anch’essi uomini del secolo ventunesimo, asserragliati nel degrado delle
periferie parigine o dell’altrove, a covare risentimenti e rabbia per quel
mondo che sta fuori e che erge le sue invisibili barriere affinché tutti non abbiano
a godere del progresso, della fraternità e dell’uguaglianza in nome dei quali quella
straordinaria città visse il suo anno terribile e memorabile illuminando il
cammino al resto della umanità. Ricordo ancora la grande commozione di me giovinetto
alla lettura di quelle pagine stupende dell’Hugo. E la simpatia subito nata per
quel Gavroche, straordinaria figura di giovine uomo. E come la mia
immaginazione rendesse visivamente viva la sua salita, alla notte, all’interno
della enorme pancia dell’elefante eretto nella piazza a monumento e divenuto la
sua dimora. Molto più tardi ho saputo che quella statua a forma di elefante è
esistita all'epoca dei fatti che ci narra il grande Victor. L’imponente statua
era stata voluta dall’imperatore Napoleone Bonaparte e la sua progettazione era
stata affidata all'architetto Jean-Antoine Alavoine. L’enorme elefante, collocato
nella “Place de la Bastille”,
fu successivamente abbattuto nell’anno 1846. Gavroche è il monello di strada, che
vive la sua vita nei bassifondi parigini. Nato nella famiglia Thénardier che
non lo ama e che se ne sbarazza presto, vive per le strade e sotto di esse in
quella Parigi che ha conosciuto i moti rivoluzionari del 1789 che avrebbero
sconvolto la storia di tanti popoli. Nella narrazione dell’Hugo Gavroche ha potuto
conoscere le due sorelle più grandi, Éponine e Azelma, ma non i due fratelli
minori, che i genitori avevano dato in adozione in cambio di denaro. La storia,
come sempre in questi casi, volge al dramma; i due fratellini si ritrovano
sulla strada, incontrano il fratello maggiore ma ignorano, gli uni e l’altro,
d’essere legati dal solido vincolo della fratellanza. Gavroche li aiuta a
sfamarsi e li inizia alla vita dura della strada prima che i fermenti politici e
sociali della Parigi del tempo li inghiotta definitivamente nel suo enorme
ventre. Victor Hugo, da abile costruttore di storie, non ha voluto che il
lettore sapesse del loro destino. Immaginabile del resto. Gavroche muore, come
tutti i giovani eroi dei romanzi, poco tempo dopo la sorella maggiore Éponine, e
muore presso la stessa barricata di rue de la Chanvrerie, durante i moti di protesta
popolare del 5 di giugno dell’anno 1832, mentre tenta di recuperare delle
cartucce inesplose per i suoi compagni insorti. Sangue che scorre nelle superbe
strade della “ville lumiere”, allora come in questo ultimo tragico 14 di
novembre parigino. Ho, tanto tempo dopo, saputo che l’idea del giovane Gavroche
sia stata ispirata a Victor Hugo dalla immagine del ragazzo che appare alla
guida dei rivoltosi nel celebre quadro “La
libertà che guida il popolo” di Eugene Delacroix. Perché Gavroche? Perché
il ricordo di quella giovanile lettura? Vi è più di una risposta semplice: che
quella storia in fondo si è intessuta con la storia molto più recente delle
periferie parigine incendiate e messe a soqquadro dai moderni Gavroche, genere
umano relegato ai margini che non si è estinto giammai ma è sopravvissuto al
grande Hugo; e che Giacomo Papi ci fa sapere che nel secolo ventunesimo i
“Gavroche” non sono tornati ma vivono ai margini della società invisibili tra
di noi. Vengono da lontano, non lottano per una rivoluzione che sia, vengono al
seguito dell’onda lunga della finanziarizzazione selvaggia e della globalizzazione
delle economie del pianeta chiamato Terra, per raccogliere le briciole di
quella grande impostura che sembra sia divenuta la “globalizzazione”, madre
arcigna e generatrice di nuove disuguaglianze, planetarie, e di vite grame
senza sogni di libertà e di riscossa. Ha scritto Giacomo Papi:
(…).
Sotto terra, pochi metri oltre la grata su cui poggiamo i piedi, c'è un lungo
tavolo circondato da decine e decine di esseri umani impegnati a scartare a
velocità forsennata centinaia di camicie, pantaloni, felpe e pullover.
Dall'aspetto e dalle voci si direbbero arabi, cingalesi o pachistani. - Dura
poco. Se ne vanno subito -. - Chi sono? -. Il ragazzo si tocca la barba e
indica un'insegna di Zara alle mie spalle. Gli uffici della catena sorgeranno
qui. È il disimballaggio prima del negozio? L'azienda, interpellata, garantisce
che tutto avviene nel più rigoroso rispetto della legge italiana. È sicuramente
così. Zara o no, la visione evoca, comunque, qualcosa di barbaro e
fantascientifico. Una folla improvvisa sorge dal nulla, di notte, nel
sottosuolo di una grande città, a pochi passi dai grandi magazzini, per
togliere dal cellophane la marea montante di merce che preme per essere esposta
e comprata. L'uomo, intanto, mi racconta che vive in quell'angolo da quattro
anni ed estrae dalla tasca un foglio spiegazzato, è una condanna per
schiamazzi. Ha un cognome sardo, ma è nato nel 1974 a Monchengladbach, in
Germania, figlio di emigranti. Ripenso alla profezia di Gafyn Llawloch,
l'anarchico gallese: - All'inizio gli operai sono andati dove c'erano le
fabbriche, poi le fabbriche andranno dove ci sono gli operai, alla fine la
produzione diventerà mobile e gli operai dovranno inseguirla -. Quando nel 1956
Malcolm Purcell McLean inventò i container, aveva compreso che contenitori
montabili su ogni mezzo di trasporto - navi, camion, treni - avrebbero
abbattuto i costi. Ma non immaginava che all'utopia della logistica universale
mancasse un solo elemento per essere perfetta. L'uomo. La globalizzazione ha
provveduto a fornirlo. Ad agosto su una flotta di pescherecci indonesiani sono
stati trovati 2mila schiavi. Non è difficile prevedere che l'evoluzione della
logistica sarà muovere il lavoro, oltre alle cose. Per ottimizzare i costi
nasceranno immense fabbriche galleggianti, dove ciò che consumiamo sarà
prodotto, assemblato, imballato e distribuito da operai costretti ad
accompagnare in eterno il movimento perpetuo e inarrestabile delle merci. In
modo da poterle finalmente comprare. L’amara, tristissima storia della funestata
Parigi d’oggigiorno sta forse tutta scritta nelle pagine dolenti di Victor Hugo
e dalle cronache reseci da Giacomo Papi. È difficile che si sfugga alla realtà
delle cose.
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