Da “È più
pericoloso il clima o un incidente stradale?” di Anthony Giddens, su “il Fatto Quotidiano” del 25 di
giugno 2015: (…). Abbiamo compreso più a fondo i fattori che provocano il
riscaldamento globale e le probabili conseguenze di quest’ultimo. Gli ultimi
studi della Nasa, l’agenzia spaziale americana, che monitorano il livello di
biossido di carbonio e di altri gas serra nell’atmosfera, dimostrano che il
2014 è stato l’anno più caldo a livello globale dal 1880, quando ebbero inizio
le misurazioni. A parte il 1998, i dieci anni più caldi finora documentati si
sono registrati tutti dal 2000 in poi. Con ogni probabilità il riscaldamento
globale provocherà un numero crescente di eventi atmosferici estremi in tutto
il mondo, tra cui il peggioramento della siccità in alcune zone e inondazioni e
tempeste in altre. Gli scettici del cambiamento climatico (quelli che dubitano
persino che il fenomeno sia in atto o che reputano minime le sue conseguenze)
credono che la Terra sia resistente e inattaccabile. Niente di ciò che possono
fare gli esseri umani è in grado di influenzarla più di tanto. Gli
ambientalisti tendono a considerare gli ecosistemi terrestri intrinsecamente
fragili e ritengono che le attività umane li danneggino. Tuttavia, in merito a
ciò che stiamo facendo alla Terra esiste una terza ipotesi, ancora più
allarmante, sostenuta da alcuni scienziati, secondo i quali la natura è come un
animale selvaggio. Noi esseri umani continuiamo a pungolarlo con il bastone e
il risultato è che alla fine reagirà in modo violento. Eppure sembra che la
maggioranza dei cittadini si preoccupi dei pericoli legati al cambiamento
climatico meno di quanto facesse qualche anno fa. Come mai?
La prima ragione,
come sappiamo tutti, sta nel fatto che sono in gioco interessi enormi,
soprattutto per quanto riguarda alcune compagnie produttrici di combustibili
fossili. Queste ultime si sono impegnate attivamente, almeno in certi Paesi, in
un’opera di disinformazione, per cercare di attenuare la consapevolezza
generale del rischio. Su questo punto esiste una forte somiglianza tra il
cambiamento climatico e il fumo, dato che l’industria del tabacco ha tentato a
lungo di nascondere le conseguenze del tabagismo. Il secondo motivo è appunto
che le scoperte relative ai pericoli del cambiamento climatico sono filtrate
dal lavoro di circa 10 mila climatologi in tutto il mondo. Non dovrebbe
sorprendere, allora, che gli scettici del cambiamento climatico, una
percentuale minima dei clima tologi professionisti, siano in grado di
esercitare un impatto notevole sull’o pini one pubblica. In terzo luogo, c’è un
grave problema di free-ri-ding. Ogni nazione o gruppo di nazioni potrebbe
rifiutarsi di agire finché non lo faranno anche gli altri, (…). Infine,
esistono problemi reali di sviluppo economico. I Paesi ricchi sono responsabili
della maggior parte delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. La loro stessa
opulenza è dovuta al fatto di avere adottato i combustibili fossili e altre
fonti di inquinamento climatico. Di conseguenza, dovrebbero essere loro ad
accollarsi quasi per intero il fardello di ridurre le emissioni, anche a costo
di perdere la propria posizione economica. I Paesi più poveri dovrebbero avere
le stesse opportunità di sviluppo delle nazioni industrializzate. Ma, si
potrebbe sostenere, la parte ricca del mondo non può perorare la chiusura dei
percorsi di sviluppo che lei stessa ha seguito per crescere. Tuttavia la
motivazione fondamentale dello scollamento fra le preoccupazioni del grande
pubblico e le scoperte scientifiche non è tra quelle citate. La ragione sta in
quello che nel ho presuntuosamente definito “paradosso di Giddens”: visto che
nessuna generazione prima della nostra si è mai dovuta confrontare con il
problema del cambiamento climatico indotto dall’uomo, nel momento in cui tale
questione viene messa a confronto con le più svariate questioni mondiali,
l’opinione pubblica fatica a considerarla un problema reale, figuriamoci urgente.
Ogni volta che una persona sale in macchina, siamo in grado di prevedere quante
probabilità ci sono che rimanga coinvolta in un incidente. Con il cambiamento
climatico, invece, non è possibile farlo, perché non possiamo attingere all’esperienza
passata. Il paradosso sta nel fatto che, come umanità, potremmo anche attendere
finché il potenziale distruttivo del cambiamento climatico diventerà
inconfutabile, ma, per definizione, a quel punto sarà troppo tardi, poiché –
per quanto ne sappiamo al momento – il cambiamento è irreversibile. (…).
Da “Non
siamo noi i padroni della Terra” di Umberto Galimberti, sul settimanale “D”
del 2 di agosto dell’anno 2014: Il filosofo della scienza Paolo Rossi ha
scritto: «La filosofia del dominio rischia di cancellare la natura e con essa,
ovviamente, anche l'uomo». Ogni volta che cerchiamo la soluzione di un problema
dovremmo vedere se le condizioni che l'hanno creato sono ancora attive e
operanti. Questa premessa, che vale per tutti i problemi, è da tenere in
particolare considerazione quando parliamo della salvaguardia del nostro
pianeta, che non potrà essere salvato finché è attivo e operante quel
presupposto che concepisce l'uomo al centro, quando non al vertice, del creato.
Questa concezione antropocentrica non è "naturale", ma
"culturale" e discende dalla concezione giudaico-cristiana, la quale
prevede che l'uomo, «fatto a immagine e somiglianza di Dio, domini sopra i
pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le
fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sulla sua superficie»
(Genesi, 1, 26). Non così, per esempio, nella cultura greca, per la quale: «La
natura è quello sfondo immutabile che nessuno degli dèi né degli uomini fece»
(Eraclito, fr. B 30). E perciò Platone può dire: «Anche quel piccolo frammento
che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il
cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni
vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa armonia. Non
per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la
vita cosmica» (Leggi, 903, c). È chiaro che in una simile cultura un dominio
incontrollato dell'uomo sulla natura è impensabile. E a riconoscerlo è lo
stesso Prometeo che, dopo aver donato all'uomo la tecnica, dice: «La tecnica è
di gran lunga più debole della Necessità che vincola le leggi di natura»
(Eschilo, Prometeo incatenato, v, 514). Si può obiettare che la tecnica a
disposizione degli antichi Greci era incommensurabilmente inferiore alla
tecnica di cui disponiamo noi oggi. Ma come si spiega che la tecnica è nata in
Occidente, cresciuto nella cultura cristiana, dove, ai suoi albori, è persino
vista come strumento di redenzione? A dichiararlo è Francesco Bacone, uno dei
fondatori della scienza moderna, secondo il quale: «In seguito al peccato originale,
l'uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create.
Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte in questa vita. La
prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le
scienze». E qui ritorna il motivo giudaico-cristiano del dominio sulla natura.
Con Cartesio ritorna anche il tema del primato dell'uomo sul creato perché, con
il calcolo matematico che presiede la scienza e la tecnica, l'uomo può
diventare «padrone e possessore del mondo». Questa concezione ereditata dalla
tradizione giudaico-cristiana regola anche la morale kantiana fondata sulla
sola ragione, secondo la quale: «L'uomo va trattato sempre come un fine e mai
come un mezzo». Ma oggi, nell'età della tecnica in ogni suo aspetto dispiegata,
l'aria, l'acqua, la flora, la fauna, l'atmosfera, la biosfera sono
"mezzi" o altrettanti "fini" da salvaguardare? La domanda è
retorica, ma purtroppo non abbiamo ancora formulato un'etica che si faccia
carico degli enti di natura, perché ci siamo limitati a formulare etiche che si
propongono di regolare i conflitti tra gli umani, senza nessuna cura della
Terra. In questo modo, come scrive Heidegger, «siamo passati dall'uso della
terra alla sua usura». Finché non rinunceremo a considerare l'uomo al vertice
del creato, nulla potrà cambiare, e difficilmente potremo evitare la profezia
di Günther Anders: «L'umanità, che tratta il mondo come un mondo da buttare
via, finirà per trattare se stessa come un'umanità da buttar via».
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