Da “Cercando
una religione di pace” di Furio Colombo, su “il Fatto Quotidiano” del 22 di
novembre 2015: (…). Il punto che voglio proporre è : smettiamo di far finta che tutte
le religioni sono buone e umane. Il mondo che adesso è sotto attacco non ha,
anche nelle sue religioni, una storia esemplare. Per questo non mi sono mai
soffermato,prima,sul dibattito intorno alla ferocia esclusiva dell’islamismo.
Ogni religione monoteista è assoluta e ha avuto lunghe stagioni di ferocia e di
morte. La storia dei massacri del cristianesimo ci dice che Dio, la croce, il
Vangelo, sono diventati presto il grande strumento del potere per indurre
grandi masse ad agire contro se stesse, ovvero contro altri esseri umani, visti
come pericolo intollerabile. (…). Sto dicendo che, crollate frontiere e radici
di appartenenza a questo o quel territorio o nazione , gente come i manovratori
di Isis, stanno usando la religione come nazione che non esiste, così come
hanno inventato lo Stato come luogo di una residenza che fisicamente non c’è.Lo
fanno per creare una appartenenza e, attraverso la ferocia spettacolare, una
rivincita (e dunque una speranza) contro infelicità e frustrazione. Nel mondo
di Isis che ci lasciano intravedere si sovrappongono due strati di vite umane:
coloro che erano soldati-servi nei regimi crollati e, una volta “liberati”,
sono diventati lavoratori-servi dove credevano di trovare modernità e civiltà.E
coloro che, nel venir meno dei precedenti padroni coloniali, si sono trovati in
mano immense ricchezze. Le usano per un tremendo doppio gioco: compiacere
(tutti gli investimenti negli Usa e in Europa, fino al punto di comprarsi
intere parti delle maggiori città,come a New York e Milano, e da farci volare
con linee aeree da Mille e una Notte) e terrorizzare, in modo che il vecchio
potere bianco non abbia mai più la persuasione del dominio assoluto. Siamo
presi, tutti, nel grande inganno dello Stato fiction e della morte vera, senza
la “intelligenza” per districarci. In questo gioco terribile in cui si muore a
turno, la religione è spinta a un massimo di fede (noi diciamo “fanatismo”) che
è quasi ascetismo,e vissuta in un clima di rivoluzione che suggerisce libertà
(mentre è obbedienza assoluta), ed è ravvivata dall’orrore. C’è un doppio risultato:
rendere più forti ma anche più sudditi, i nuovi credenti (del resto anche lo
spettacolo del bruciare vivo Savonarola, mostrandone bene la lenta morte, aveva
questo scopo)e spargere in noi la paura (che alcuni travestono da
combattentismo). Noi, il nemico. Poiché siamo stati, finora, abbastanza crudeli
e indifferenti con i loro immigrati, i nostri aggressori contano sul fatto che,
adesso, dopo gli ultimi eventi, lo saremmo di più, per paura, risentimento,
vendetta. E ci danno il compito di fabbricare i nostri nuovi nemici. Ci stanno
imponendo le regole, anche morali e psicologiche, del gioco, spingendoci con
abilità verso una uguale ferocia. Quel gioco non è la presa di una fortezza, e
non la puoi distruggere con gli strumenti di guerra che noi produciamo, per
quanto nuovi e potenti. E non serve contrapporre religione a religione, o
tentare di sottrarre tutti al richiamo fanatico che può insediarsi in tutte le
religioni monoteiste (…). Sono due progetti impossibili. Vedete? Non siamo
amati. Ma il vero problema è che non amiamo, e non abbiamo progetti e ideali.
Siamo qui con le spalle al muro, cantando la Marsigliese.
Da “Oltre
alla sicurezza per battere l’odio serve una vera lotta alle disuguaglianze”
di Thomas Piketty, sul quotidiano la Repubblica del 22 di novembre 2015: (…). …dobbiamo
(…) interrogarci (…) sulle umiliazioni e ingiustizie che in Medio Oriente hanno
determinato l’importante sostegno di cui beneficia quel movimento, e in Europa
suscitano oggi vocazioni sanguinarie. Al di là del breve termine, l’unica vera
risposta sta nell’attuazione, sia qui che laggiù, di un modello di sviluppo
sociale ed equo. È una realtà evidente: a nutrire il terrorismo è la polveriera
delle disuguaglianze in Medio Oriente, che abbiamo largamente contribuito a
creare. Daesh, lo “Stato Islamico d’Iraq e del Levante”, nasce dalla
decomposizione del regime iracheno, e più in generale dal tracollo del sistema
di confini stabiliti nella regione nel 1920. Dopo l’annessione del Kuwait da
parte dell’Iraq, nel 1990-1991, le potenze coalizzate inviarono le loro truppe
per restituire il petrolio agli emiri e alle compagnie occidentali. Si inaugurò
in quell’occasione un nuovo ciclo di guerre tecnologiche e asimmetriche: alcune
centinaia di morti nella coalizione nata per “liberare” il Kuwait, contro varie
decine di migliaia di vittime dal lato iracheno. Questa logica è arrivata al
parossismo durante la seconda guerra in Iraq, tra il 2003 e il 2011. Circa
500.000 morti iracheni contro un po’ più di 4.000 soldati americani uccisi. E
tutto questo per vendicare i 3000 morti dell’11 settembre, che pure con l’Iraq
non avevano nulla a che fare. Questa realtà, amplificata dall’estrema
asimmetria delle perdite in vite umane e dall’assenza di sbocchi politici nel
conflitto israelo-palestinese, serve oggi a giustificare tutte le efferatezze
perpetrate dai jihadisti. (…). Al di là degli scontri religiosi, è chiaro che
nel suo insieme il sistema politico e sociale della regione è fortemente
determinato e reso vulnerabile dalla concentrazione delle risorse petrolifere
in alcune piccole zone spopolate. Esaminando l’area che va dall’Egitto
all’Iran, passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola arabica, con un totale di
circa 300 milioni di abitanti, si può constatare che il 60-70% del Pil
regionale si concentra nelle monarchie petrolifere, con appena il 10% della
popolazione. Per di più, nelle monarchie petrolifere, una parte sproporzionata
di questa manna è accaparrata da una minoranza, mentre ampie fasce della
popolazione sono tenute in uno stato di semi-schiavitù. Ma proprio questi
regimi godono del sostegno delle potenze occidentali, ben liete di ottenere qualche
briciola per finanziare i propri club di calcio, o di vendere armi. Non c’è
dunque da sorprendersi se le nostre lezioni di democrazia sociale non hanno
molta presa sui giovani mediorientali. Quanto ai discorsi sulla democrazia,
sarebbe meglio smettere di farli solo quando i risultati elettorali sono di
nostro gradimento. Nel 2012, in Egitto, Mohamed Morsi era stato eletto
presidente in seguito a regolari elezioni: un evento tutt’altro che banale
nella storia elettorale araba. Ma già nel 2013 fu destituito ad opera dei
militari. I quali non tardarono a giustiziare migliaia di Fratelli Musulmani,
che pure avevano compensato in parte le carenze dello Stato egiziano con la
loro azione sociale. Pochi mesi dopo, la Francia cancellò tutto con un colpo di
spugna per poter vendere le sue fregate e accaparrarsi una parte delle scarse
risorse del Paese. Un caso di democrazia negata. Resta un punto interrogativo:
com’è possibile che alcuni giovani cresciuti in Francia confondano Bagdad con
la banlieue parigina, cercando di importarvi i conflitti che nascono laggiù?
Non vi sono scusanti. Salvo forse notare che la disoccupazione e le discriminazioni
nelle assunzioni non migliorano le cose. L’Europa, che prima della crisi
riusciva ad accogliere un flusso migratorio netto di 1 milione di persone
all’anno, oggi deve rilanciare il suo modello d’integrazione. È stata
l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie.
Solo con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio.
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