Scrivevo la “sfogliatura” che di
seguito ripropongo il 6 di luglio dell’anno 2011. Il bel tempo andato. Ma nel
lasso di tempo intercorso da quella scrittura, seppur siano cambiati i
protagonisti della vicenda pubblica, i risultati e gli effetti sono sempre gli
stessi. Scriveva nel suo diario il conte Henry d’Ideville alla data del 26 di
aprile dell’anno 1865: (…). … l’Italia è davvero la terra dei
morti. (…). Dove trovare un popolo più vecchio, più usato, più corrotto, meno
ingenuo? (…). Prima di tutto è sottile, scettico, astuto e interessato. Molto
più intelligente di noi, sa calcolare, aspettare, lusingare e dissimulare, cosa
a cui noi non arriveremo mai. Rifate le divisioni del paese, trasformatelo in
uno solo Stato, sconvolgete governi e frontiere, dategli tutte le costituzioni
che vorrete, non cambierete mai la razza e il temperamento del popolo. Per
quanto facciate, non lo renderete mai giovane. Conserverà coi suoi difetti
tutte le sue preziose qualità. Una
“terra
dei morti” scriveva quel nobil uomo, ché come tali permangono nei
lustri e poi nei lustri, in quella condizione caratteristica denominata del “rigor
mortis”, che conferisce anche e soprattutto alle pubbliche istituzioni
quella rigidità, quella immodificabilità che neppure gli auto-denominatisi riformatori
riescono a scalfire, tanto ne sono essi stessi impregnati nelle più sottili fibrille
del loro essere. Scrivevo allora:
Scena prima. Da “Giulio, Angelino e quella strana luce” di Francesca Fornario sul
quotidiano l’Unità: (…). - Angelino, dì
la verità -. - Ti dico che è apparsa all'improvviso. Avvolta da una grande
luce. Calcola che io stavo rileggendo il testo della manovra, ero arrivato
all'ultima pagina, quando alla fine del penultimo comma è comparsa lei,
bellissima. L'ho già detto che era avvolta da una grande luce? -. - Era lì
perché l'avete scritta tu e Ghedini, lo sanno anche i muri -. - No Giulio, ti
dico che è comparsa all'improvviso, è stato un miracolo... piangeva lacrime,
lacrime e sangue -. - L'avete aggiunta tu e quell'altro, all'ultimo comma del
penultimo articolo perché pensavate che nessuno avrebbe letto la manovra fino
in fondo, dato che la mia prosa è noiosa. E invece quelli dell'opposizione vi
hanno beccato, hanno letto il testo della manovra tutto d'un fiato, fino
all'ultima riga. Volevano vedere chi era l'assassino -. - No Tremonti, te lo
giuro su Dio, la norma salva-Fininvest è comparsa all'improvviso, avvolta da
una grande lu... -. - Sei patetico -. - E tu sei invidioso perché io sono stato
eletto segretario -. - Non mi risulta che ci siano state elezioni -. - Sono
stato eletto per acclamazione, non li leggi i giornali? Erano anni che
Berlusconi tesseva ovunque le mie lodi: Lodo Alfano! Lodo Alfano!-. - Quello
era per il Lodo Alfano, quella legge che è stata bocciata così tante volte che
Bossi pensava che l'avesse scritta suo figlio. Anche il tema di maturità di
Renzo Bossi garantiva l'immunità per le quattro più alte cariche dello stato -.
- Col senno di poi riconosco che è stato un errore. Dovevo garantire l'immunità
solo alla prima, alla seconda e alla quarta -. - Quanto mi manca Fini -. -
Allora perché non te ne vai anche tu? -. - Perché se resto sarò il prossimo
premier -.(…). Scena seconda. Da
“Il comma Silvio” di Maria Novella
Oppo sul quotidiano l’Unità: (…). …gli
altri hanno sostenuto tranquillamente la tesi: “Che male c’è?”. Ovvero si
trattava di una norma che valeva per tutti, soprattutto le migliaia di
pensionati al minimo che, avendo da pagare un risarcimento di oltre venti
milioni, chiedevano di rinviare. C’è la crisi e i pensionati hanno già da
sostenere la collettività attraverso tagli, ticket e rincari. Era una proposta
giusta, come ha detto il premier nel ritirarla. Sperando che, tra le righe
della manovra, non si scopra ora qualche altro comma erga omnes per cui tutti
gli italiani nati a Milano il 1936 e chiamati Silvio Berlusconi sono capi del
governo a vita. Il “che male c’è?” che
ritrovate nella sarcastica scrittura di Maria Novella Oppo è qualcosa che ha a
che fare con l’anima più profonda di un quindicennio e passa durante il quale
la storia poco commendevole del bel paese si è ritorta ed aggrovigliata a tal
punto da divenire un tutt’uno, financo nelle sue fibre più intime, con la storia del signore di Arcore e dei
suoi soccorrevoli “liberi servi”, di
ferrariana invenzione. “Liberi servi”,
ma sempre servi. È il “che male c’è?” che
fa dire ad un ministro in carica d’essersi ritrovato padrone di un immobile a “sua insaputa”; o a quell’altro tizio,
in verità innominabile, che, appena nominato ministro di un ministero dapprima
inesistente e senza portafoglio - per fortuna nostra - invoca uno dei lodi
approvati a bella posta per sfuggire alla resa dei conti con la giustizia. “Che male c’è?” se un primo ministro
ignora, forza e stravolge la Costituzione sulla quale ha giurato fedeltà; “che male c’è?” se insulta i magistrati,
gli insegnanti, i giornalisti e tutto il corpo intero dell’elettorato
dell’opposizione; “che male c’è?” se
giura e spergiura sulla testa dei figlioli suoi, come l’ultimo degli uomini di
strada dopo un’abbondante libagione, ad ogni sua riprovevole azione
pubblicamente denunciata da quel contro-potere che è la libera stampa? “Madamina, il catalogo è questo”, come
quel sommo ebbe a dire di tutti i dongiovanni di questa Terra. Il catalogo del
governo del bel paese. “Che male c’è?” per
l’appunto? E questo ritornello lo abbiamo ascoltato per lustri e lustri, se non
nelle forme letterali di Maria Novella Oppo, nelle forme proprie del
politicamente corretto, nelle parole e nelle voci alterate per la circostanza
di coloro i quali avrebbero dovuto indossare le vesti “sacerdotali”, o le
corazze da guerrieri all’occorrenza, per difendere la legalità, il buon senso,
il buon gusto e la “sacralità” degli ordinamenti repubblicani e costituzionali,
tutti indistintamente chiamati alla bisogna senza distinzione di ruoli, civili,
politici o religiosi che siano, e per più di un quindicennio abbondante assai.
In tante delle occasioni ci siamo sentiti dire, invece, indirizzare,
contrastare il nostro parlare, ci siamo sentiti ripetere per l’appunto il “che male c’è?” di sempre. Ché forse sta per morire il “che male c’è?” tanto odioso ed
abominevole? C’è da sperarlo. Intanto raccogliamo e leggiamo la dotta
riflessione su quel “che male c’è?” del
filosofo Maurizio Ferraris pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” col titolo
“Quelli che dicono: che male c' è?”, riflessione
che di seguito trascrivo in parte. (…).
Nel meccanismo del “Che male c'è?” interviene un dispositivo che colpisce al
cuore una categoria fondamentale dell' Illuminismo, l' opinione pubblica, la
quale - (…) - nasce proprio come spazio in cui la critica del potere vale come
istanza di controllo e di garanzia dei diritti degli individui. Già Habermas
descriveva la trasformazione della opinione pubblica nel mondo mediatico, da
spazio di discussione a spazio di manipolazione delle opinioni da parte dei
detentori dei massmedia. Ma il “Che male c'è?” definisce un terzo stadio, e
cioè il fatto che ogni sopravvivenza di opinione pubblica critica viene
svuotata a priori attraverso la categoria di moralismo. Così, il “Che male c'è?”
si presenta come un efficacissimo strumento di repressione del dissenso, e
raggiunge la sua perfezione quando la critica viene squalificata a
pettegolezzo, ossia, come si dice in inglese, forse sperando che qualcuno non
capisca, a gossip. Anche qui c' è un meccanismo interessante. Da una parte,
infatti, la personalizzazione carismatica del potere fa sì che tutte le
attenzioni si concentrino sul leader, e questo per una precisa scelta politica
caratteristica del populismo mediatico. E in questo senso le grandi decisioni
della politica hanno luogo sui settimanali scandalistici, cioè per l' appunto
sui settimanali di gossip. Ma il vantaggio non è semplicemente la creazione e
la manutenzione del consenso. Perché la spettacolarizzazione carismatica deve
essere un flusso di sottomissione incondizionata, e ogni critica viene declassata
a gossip. A questo punto si può soltanto applaudire, tutto il resto è gossip e
tritacarne mediatico, anche le decisioni di politica estera. Sebbene sia dunque
con ogni evidenza un meccanismo di repressione, il “Che male c'è?” viene
presentato come un principio di emancipazione contro parrucconi, moralisti, o
magari ex-immoralisti moralizzati. È cruciale, sotto questo profilo, che il “Che
male c'è?” si presenti come una depenalizzazione estensibile a tutta la
società: per oggi non c'è niente di male in quello che faccio io, ma verrà il
giorno in cui non ci sarà niente di male in quello che fate voi. Ma che cosa
sia progressivo, e cosa retrivo, lo decide ovviamente il detentore del “Che
male c'è?”. (…). Con il “Che male c'è?” si afferma una nuova nozione di vita,
diciamo di una vita senza se e senza ma (…), impermeabile a ogni critica. A
questo punto, se uno dicesse, con Socrate, e poi con Robert Nozik, che la vita
non esaminata non ha valore, rischierebbe di passare, a dir poco, per nemico
del popolo. Ma che vita è, ci si chiede, quella del “Che male c'è?” È una vita
auto-assolta, a priori. Perché non c'è bisogno di condurre profonde analisi
politologiche per capire che nel “Che male c'è?” si nasconde un'altra cosa, e
precisamente la ragione del più forte è sempre la migliore. E dunque, invece di
ammantarsi di un tiepido ognuno in casa sua fa quello che vuole, siamo in un
paese libero ecc. ecc. sarebbe opportuno che gli avvocati del “Che male c'è?”
prendessero atto del fatto che il loro è un atteggiamento tutt'altro che
liberale o libertario. Perché, nel suo principio, la immunità extraparlamentare
del “Che male c'è?” vale per una persona sola, cioè per il massimo detentore
del potere, che esibisce la sua protezione in cerchi concentrici. Perché nel “Che
male c'è?” il giusto, proprio come nella Genealogia della morale di Nietzsche,
si identifica con il forte. Il “Che male c'è?”, dunque, è l' assunzione della
differenza tra la Herrenmoral, la morale dei signori, al di là del bene e del
male, e la morale degli schiavi, che devono sottomettersi. Si sbaglia dunque
chi magari sogna che si vada verso un nuovo mondo emancipato, e che, poniamo,
le escort siano l' avanguardia del neofemminismo. C'è poco da fantasticare. Chi
è escluso o decade dalla protezione sovrana è escluso dai benefici del “Che
male c'” e affidato alle condanne della morale comune particolarmente retriva,
dove le escort, se cadono in disgrazia, sono designate con gli epiteti
italianissimi che leggiamo nelle intercettazioni.
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