"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 10 maggio 2019

Sullaprimaoggi. 77 «Domina il marketing, valore indiscutibile e universale».


Tratto da “Quello che è Stato è stato: l’interesse pubblico non è il Pil” di Salvatore Settis, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 9 di maggio 2019: Storie di ordinaria disfunzione. Il treno che hai preso si ferma e una voce annuncia: “Per partire aspettiamo il via del gestore dell’infrastruttura”. Sei fermo alla stazione, e stavolta la voce informa che il ritardo è dovuto a un guasto al treno. Scopri così che gestore dell’infrastruttura e gestore dei treni sono due entità distinte e rivali, che giocano a scaricabarile. Hai bisogno di una radiografia, ma il primo appuntamento disponibile è fra cinque mesi, e sei costretto ad andare da un radiologo privato. In una biblioteca pubblica cerchi il libro di un importante studioso italiano pubblicato da un editore italiano. Il libro non c’è perché (ti spiegano) la biblioteca non ha più un centesimo. Ti trovi in una città italiana e vai a visitare un museo, ma la sala che cercavi, anzi tutta quell’ala del palazzo, è chiusa per mancanza di personale.
Tua figlia va a scuola e ha interessi per la chimica, ma l’insegnante ti spiega che il (modesto e invecchiato) laboratorio non serve più a niente, perché mancano fondi per la manutenzione. Vai a trovare un amico e la strada provinciale che percorri è piena di buche: la provincia non esiste più, e chiunque la sostituisca non ha soldi per riparare le strade. La prossima volta prenderò il treno, dici. Ma scopri che quella linea ferroviaria non esiste più, era (ti spiegano) un “ramo morto”, anche se portava al lavoro centinaia di persone, che ora fanno lo stesso percorso su autobus privati. Ti consegnano la posta sempre più raramente, e scopri che postini non ce ne sono quasi più, tutto è dato in appalto a personale precario e inesperto. Andavi a messa la domenica anche per il piacere di stare in una chiesa ricca di storia e d’arte, ma da anni la trovi chiusa. Per mancanza di manutenzione rischia di crollare, ti spiegano, ma i soldi per il restauro non ci sono. Ti derubano per strada, e vieni a sapere che l’aggressore avrebbe dovuto essere in galera da un anno, ma tutto si è bloccato per mancanza di personale nel tribunale. Hai cambiato gestore telefonico (o di energia elettrica), e scopri che la tariffa che pareva più conveniente non lo è più; cambi ancora tre o quattro volte, e scopri che nel settore vige la strategia del confusion pricing, che vuol dire cambiare i prezzi in continuazione senza spiegare perché. Ti chiedi se c’è un controllo pubblico nell’interesse dei cittadini, e invece nulla: domina il marketing, valore indiscutibile e universale. Eccetera eccetera. Questa è la solfa che ogni giorno ci sentiamo ripetere, l’esperienza a cui ci siamo abituati. Al punto di considerarla normale e inevitabile. Quel che era, e nominalmente è ancora, servizio pubblico è in crescente degrado, e intanto si tessono nei bar e sulle gazzette le lodi del Mercato e della sua Efficienza. In altri termini, quel che è pubblico muore per lasciare spazio al Privato. Un esempio solo: la sanità. L’articolo 32 della Costituzione prescrive che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, ed è ovvio che tale diritto dev’essere uguale per tutti, da Merano a Lampedusa. Invece no: ogni regione ha le sue norme e il suo bilancio (il costo pro capite in Calabria è assai maggiore che in Toscana o Lombardia, eppure oltre il 50 per cento dei calabresi si fanno curare in altre regioni). Ogni anno che passa si allungano i tempi per le visite specialistiche, crescono di numero i medici che è meglio cercare in cliniche private o, se va bene, nelle sezioni ospedaliere intra moenia, pagando. Crescono i costi della salute, diminuisce di numero chi può esercitare questo “diritto dell’individuo” di cui parla la Costituzione. Ma al tempo stesso viene eroso e disperso l’ “interesse della collettività”. Ci vuol poco a capire che, rendendo la sanità pubblica sempre meno funzionale, verrà il giorno in cui l’art. 32 della Costituzione verrà archiviato senza nemmeno bisogno di abolirlo. Insomma, quel che è Stato, è stato. Si dà per scontato che l’interesse pubblico coincida con l’economia, e che l’economia si esprima mediante indici (come il Pil) scelti ad arbitrio da decisori politici proni davanti a esperti veri o falsi, ma tutti d’accordo nel chiudere gli occhi davanti all’universo dei diritti garantiti dalla Costituzione; davanti alla costellazione dei beni comuni e dei beni pubblici, garanzia suprema della sovranità popolare (Costituzione, articolo 1), della dignità della persona, della democrazia. Viene generalmente ignorata l’“economia fondamentale”, le infrastrutture della vita quotidiana che hanno un altissimo valore economico oltre che etico e politico (…). Ma intanto lo Stato e gli enti pubblici vengono de-finanziati, le crescenti autonomie regionali accrescono le spese dei governi locali senza aumentarne l’efficienza, aumentano a dismisura le differenze fra Nord e Sud, cioè fra cittadini nominalmente dotati di eguali diritti. Appare ormai ingenua l’idea che la Costituzione vada cambiata per manipolare la gestione della politica: basta fare come se non ci fosse, per esempio imponendo una rigida disciplina di partito anche se l’articolo 67 lo vieta (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”). Se a Palazzo Chigi vi fosse un vero governo del cambiamento, è di qui che dovrebbe ricominciare: dall’attuazione della Costituzione, dalla centralità dell’economia fondamentale, dall’interesse della collettività, dalla vitalità dei beni comuni. Il perpetuo litigio che incolla l’uno all’altro Lega e Cinque Stelle sottolinea le loro differenze (che ci sono), ma lascia in ombra un’affinità fondamentale. Il reddito di cittadinanza e la flat tax hanno questo in comune: si finanziano accrescendo il debito pubblico, e di conseguenza obbligheranno a nuovi tagli alla spesa pubblica, devasteranno la scuola e l’università, la sanità, la ricerca, i beni culturali, la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Di un’inversione di tendenza non si vede traccia. (…).

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