"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 11 luglio 2018

Terzapagina. 36 “Un bel dì migreremo”.


Ha scritto Enrico Deaglio sul settimanale “Il Venerdì” –  “Mississippi Italia” - del 22 di giugno 2018: “(…). …anch'io ho una storia da raccontare. Si svolge sulla riva del vero Mississippi, nell'anno 1899. A quei tempi il Regno d'Italia organizzò una massiccia esportazione di siciliani su richiesta dei latifondisti americani che avevano bisogno di manodopera a basso prezzo, dato che avevano perso la guerra e non potevano più avere schiavi. I siciliani - dicono cinquantamila - fecero la parte dei nuovi schiavi, per la zuccarata, il taglio della canna da zucchero. Molti fuggirono dalle piantagioni, cinque di loro,  i tre fratelli Di Fatta di Cefalù e due cugini, si sistemarono in un paesino a vendere limoni e verdure. Aprirono un negozietto, erano sei anni che stavano lì, quando vennero linciati. Perché? Erano considerati dei negri, violenti, mafiosi. Nessuno li difese, neppure il console onorario italiano della città vicina, il milanese Natale Piazza, che disse ai linciatori che avevano fatto bene, perché i siciliani sono di due categorie: "quelli educati, che camminano insieme agli dei, e quelli poveri che sono come le bestie". Ci fu una grande emozione, in Italia, per quel linciaggio, ma il nostro Re non riuscì a difenderli, forse perché anche lui la pensava come il console Piazza. Mi è venuta in mente questa storia del lontano passato, perché manda dei brividi all'Italia di oggi. E come finì? Che i siciliani non si persero d'animo e continuarono ad emigrare e dieci anni dopo, in quel piccolo paese dove i parenti erano stati linciati, uno di loro riuscì ad aprire un bar, con un bancone di zinco di dieci metri e full licence. Si chiamava Sam Scurria, un eroe italiano nel nuovo mondo. Quasi bianco.
Da “Emigrare senza scarpe” di Bernardo Valli, pubblicato sul settimanale L’Espresso del 24 di giugno 2018: Dedico questa rubrica a Edmondo De Amicis. Cedo largo spazio a brani di un suo libro, spacciato per romanzo, ma in realtà racconto di viaggio, che centotrent’anni dopo la prima pubblicazione ridiventa d’attualità. E a ridargliela sono i migranti. Al posto degli extracomunitari d’oggi che angosciano molti governi e non abbastanza coscienze, ci sono cittadini dell’Italia da poco unita che ha appena recuperato con orgoglio Roma come capitale. De Amicis ha trentotto anni nel 1884, quando si imbarca sul piroscafo “Nord America” diretto in Argentina. E a bordo ci sono millecinquecento emigranti provenienti da tante contrade della penisola. In “Sull’Oceano” (del quale Garzanti è l’ultimo editore e www.liberliber.it il primo editore elettronico) De Amicis li descrive già nel porto di partenza. «La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani, per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile passavano portando quasi tutti sacche e valigie di ogni forma alla mano o sul capo, e il numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi e portavano le scarpe appese al collo». Quasi un secolo e mezzo dopo, basta cambiare le origini, la nazionalità dei migranti. Anche allora affondavano le navi nell’Atlantico. I clandestini non mancavano, ma non rappresentavano un fenomeno di massa. Capitava che gli organizzatori dei viaggi sbarcassero i migranti sulle coste tunisine facendo credere che fossero quelle americane. Anche allora c’erano gli scafisti bricconi, non c’erano invece i soccorritori delle Ong. Leggendo il De Amicis del 1884 ritrovi non pochi tratti della cronaca d’oggi. Ce n’eran di quelli, scrive, che non avevano più mangiato un pezzo di carne da anni, che non avevano mai posato le ossa sopra un letto, pur avendo lavorato da anni con l’arco della schiena. Arrivavano in America con due scudi in tasca, e ogni giorno mettevano da parte in un sacco un poco di galletta, per avere qualcosa da rodere una volta arrivati a terra, e non dover chiedere l’elemosina, nel caso non avessero trovato subito un lavoro. Temendo che gliele rubassero, alcuni tenevano legate intorno ai piedi con lo spago le scarpe in pezza. e di notte le mettevano sotto la testa. Nei ventidue giorni di navigazione, Edmondo De Amicis ha provato un senso di umiliazione davanti ai passeggeri stranieri, che come lui vivevano nel lusso della prima classe. I loro giudizi pieni di compassione per gli italiani accalcati nelle stive, le loro esclamazioni di stupore nel vedere europei in quelle condizioni, gli suonavano come ingiurie. All’arrivo in America, durante i controlli sanitari, gli emigranti sfilavano lentamente sul ponte della nave, e lui, De Amicis, ebbe l’impressione di assistere a una processione triste. La numerazione della folla «come di un armento del quale non importava a nessuno conoscere i nomi», gli fece pensare che tutta quella gente fosse contata per essere venduta, e che non sfilassero cittadini di uno Stato europeo, ma vittime di una razzia di ladri di carne umana compiuta su una spiaggia d’Africa o d’Asia. «Molti erano puliti e vestiti dei panni migliori, che avevano tenuto in serbo per quel giorno, per l’arrivo in America, altri erano più cenciosi che alla partenza, imbrattati di tutto il sudiciume raccattato strusciandosi per tre settimane in tutti gli angoli del bastimento. Avevano le barbe lunghe, il collo nudo, le dita dei piedi fuori dalle scarpe, più d’uno si teneva la giacchetta senza bottoni, per nascondere il petto villoso. Vecchi inarcati, ragazze e ragazzi di vent’anni, operai col camiciotto di lavoro, pastori con lunghe capigliature, contadini calabresi e donne brianzole con le raggere di spille nelle trecce avanzavano lentamente, l’uno mettendo il piede sull’orma dell’altro, come comparse su un palcoscenico, in uno spettacolo rappresentante la fuga di un popolo». Le comparse non sono più le stesse.

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